Non è mio compito ribattere punto su punto alle obiezioni che Marco Gatto ha delineato con esperienza e competenza. Non avrebbe senso anche in relazione alle tante, tantissime osservazioni che indubbiamente il mio lavoro ha lasciato scaturire. Tuttavia su qualche punto mi pare necessario che io mi soffermi, più che altro per aiutare il lettore nell’approccio alle questioni.
1) Partiamo dall’impostazione. Nell’affrontare una materia di centosessant’anni ho preferito procedere guardando il panorama della letteratura, l’orizzonte largo delle scritture meridionali, affinché potesse essere più agevole il compito di attraversarle. Il mio obiettivo era quello di provare a fare una sintesi di tutto ciò che era stato scritto sia in relazione alla nozione di Storia che a quella di modernità. Spesso Storia e modernità coincidono, almeno al di fuori delle regioni meridionali. Ed è qui, infatti, che si è andata a concentrare la mia attenzione: i ceti intellettuali, anziché farsi portavoce di un’idea di progresso – anziché credere nel progresso – hanno professato una visione antimoderna, contromoderna, reagendo a tutto ciò che poteva essere veicolo di cambiamento con un atteggiamento di scetticismo e di sconfitta. Narrare il disincanto della Storia potrebbe anche essere scaturito da una visione personale, ma molte narrazioni parziali compongono la narrazione riassuntiva. Essa, nel caso del Mezzogiorno, ha avuto una comune e determinata interpretazione che dal libro, penso, trapeli con chiarezza.
2) Un secondo argomento tocca il metodo. Poiché il mio obiettivo era compiere un’incursione all’interno di fenomeni allineati sull’orizzonte, mi è venuto quasi naturale distinguere almeno tre nuclei fondamentali: l’epoca post-unitaria (comprese le discussioni sulla lettura del Risorgimento), l’impatto con il progresso (l’industrializzazione e la fine della civiltà contadina), la fine della modernità (più annunciata che realizzata) e l’inizio di un nebuloso postmoderno che nelle latitudini meridionali si è manifestato con modalità totalmente diverse rispetto, per esempio, alle regioni settentrionali. Non entro nel merito se sia stato in grado di svilupparli o di approfondirli, ma attraverso tale scansione sono riuscito a ottenere una sorta di misurazione delle reazioni che gli scrittori hanno manifestato di fronte ai fenomeni della modernità. Operando in questo modo – provando cioè a camminare su un orizzonte anziché muoversi lungo un asse verticale – mi è stato possibile individuarne i tratti comuni. Probabilmente il lavoro ha perduto in termini di profondità, ma ha guadagnato nello sguardo d’insieme. Ciò ha fatto maturare alcune sintesi, come la distinzione tra cronaca ed epica, narrativa angioina e narrativa aragonese, modernità e antimodernità. Il rischio che evidenziassero un atteggiamento troppo da slogan poteva e, secondo me, doveva essere corso in nome di un obiettivo: quello di rendere più comprensibile una materia potenzialmente labirintica e complicata.
3) Rapporti con Carlo Levi. Non è mai stata mia intenzione mettere in discussione la validità del contributo leviano alla questione meridionale. Semmai il mio scetticismo si concentra sul cosiddetto levismo, cioè su quell’atteggiamento che eleva a paradigma interpretativo la visione di Cristo si è fermato a Eboli, senza porsi il problema se tale visione sia coerente con quel contesto socio-antropologico. Il successo editoriale, in altre parole, ha dilatato il grado di incidenza del libro di Levi, candidandolo a chiave di lettura anche in funzione futura e, di fatto, impendendo in questo modo l’origine di altre posizioni interpretative. Con Levi e con il suo libro occorre confrontarsi ma senza restare vittima della sua fascinazione, semmai per oltrepassarne i risultati, cosa che non sempre ancora oggi avviene. L’opera di Levi rimane un crocevia da attraversare dopo averlo fatto proprio, perciò sarebbe un errore continuare a pensare che essa sia il punto di arrivo, soprattutto in relazione a una visione arcadica del Mezzogiorno che persevera, mutando forme e linguaggi, e riemerge attraverso una retorica che non ha nulla a che vedere con il discorso leviano, ma che rischia di passare (ed è questa l’intenzione nei suoi interpreti) come una sua legittima prosecuzione.
4) Proiezioni future. Non ho voluto soltanto raccontare la storia di come gli scrittori hanno letto il Mezzogiorno. Ho cercato di indirizzare, dal mio punto di osservazione, una minima proposta con cui narrare il Mezzogiorno in questi anni. Non pretendo che sia condivisa da tutti, ma rivendico la necessità di trovare altre strade rispetto a quelle che per consuetudine, per pigrizia, per convenienze di mercato la stragrande maggioranza degli intellettuali continua a battere, pensando che siano percorsi originali e ignorando invece che si tratta di discorsi già ascoltati, diventati noiosi perché troppo ripetitivi. Il Mezzogiorno non ha soltanto il dovere di uscire dallo stato di subalternità, in cui continua a sentirsi chiuso, ma anche quello di trovare una diversa rappresentazione di sé (o autorappresentazione). Ciò equivale a rompere il cerchio della cronaca, l’orizzontalità del quotidiano, di cui in larga parte si compone la narrazione del Sud in questi anni, e sperimentare il recupero di quelle forme narrative che nascono nella dimensione epica del tempo e della profondità. Mi rendo conto che, pronunciate in questo modo, queste mie parole rischierebbero di ripetere quanto ho già dichiarato nel mio libro. Tuttavia credo che ogni interpretazione sia il frutto di una civiltà dello sguardo, di un manifesto identitario, di una tradizione culturale che per molti anni ha tentato la via del consenso o, se dobbiamo dirla fino in fondo, il metodo di una letteratura confermativa: far leggere al lettore ciò che il lettore si aspetta. Non esiste alcuna soluzione migliore che rassicurare il lettore nelle sue convinzioni e nei suoi pregiudizi. È un espediente molto antico: non inquieta, non disturba, semmai apre la strada al successo. L’unico problema è che tutto ciò umilia la libertà interpretativa di chi professa il mestiere intellettuale.
Mi fermo qui, non sapendo valutare appieno se le mie riflessioni siano state utili a sciogliere i tanti nodi che Marco Gatto ha messo in evidenza. Probabilmente no. Ma il mio intento non era, come dicevo, quello di ribattere. Semplicemente portare elementi su cui riflettere, ponendo l’asticella un centimetro più avanti. Da parte mia, non ci può che essere gratitudine e riconoscenza, oltre all’augurio che discussioni di questo tipo possano servire a muovere le acque di un mainstream sempre più asfissiante e poco produttivo.