Evgenij Solonovič,
In mani fidate
Luca Lenzini

Evgenij Solonovič, In mani fidate. Poesie 1981-2020, a cura di C. Graziadei, trad. it. di B.M. Balestra, C. Graziadei, C. Scandura, Firenze, Passigli, 2021.

In mani fidate: il titolo del libro pubblicato per cura di Caterina Graziadei1 insieme al nome dell’autore, Evgenij Solonovič, formano una specie di endiadi, essendo il poeta anche il maggior traduttore russo di poesia italiana, da Dante e Petrarca a Zanzotto e Caproni (passando per Ariosto e Belli e tralasciandone la foltissima bibliografia); e quanto al trio di traduttrici italiane delle poesie (la stessa Graziadei, Bianca Maria Balestra e Claudia Scandura), si può dire che rappresenta al meglio la tradizione della nostra slavistica: ed il loro è qui un concerto cordiale e di alta scuola, secondo si addice ad un lavoro ricco di echi poetici e d’intarsi di largo spettro stilistico e altrettanto ampio orizzonte culturale. Non si aspetti tuttavia il lettore una raccolta di esercizi metapoetici o di letteratura al cubo: se di metapoesia si può parlare, infatti – e sarà giusto farlo, per chi commenti per esempio Considerando le metamorfosi – questa nel libro è sempre radicata nel vissuto, ancorata alla stagione e all’ora: «la notte era un verso improvviso / non di quelli che indugiano, / ma di quelli, come dire? / che schioccano sulla lingua» (La notte), o come in Traducendo Montale piuttosto il resoconto di una quest che non un ossequioso omaggio: «Mentre un altro si morderebbe le labbra, / io borbotto un ta-ta-ta, ta-ta-ta, /seguo spesso una falsa pista / oppure remo controcorrente, / goffo scassinatore di metafore, / trasgressore di magici tabù» – poetica traslatoria che parla molto di mestiere e d’avventura, e poco di estasi o magiche epifanie semiotiche. Dunque e invece, sono l’abbreviarsi o l’allungarsi delle giornate, l’alterna vicenda della notte e del giorno, il declinare dell’estate e la «doratura delle chiome autunnali» che «aumenta la calvizie» (La luce del giorno volge all’inverno), come in un calendario illustrato delle ere pre-digitali che accolga miniature di interni e paesaggi innevati «dietro i vetri» (Neve di maggio) o disgeli di «gemme pazzesche» (Disgelo in gennaio), a scandire lo spartito della raccolta, conferendole un carattere organico di tono oraziano (Carm. II, 14 è richiamato nell’epigrafe del bel saggio introduttivo di Graziadei) che, per così dire, soprintende alla varietà dei metri e delle occasioni. A far da padroni sulla pagina sono il tempo e la memoria, non senza una certa loro capricciosa prepotenza:

e il tempo ricolma gli intervalli,
cerca di non lasciare spazi vuoti,
mentre com’è suo solito ti burla:
ora perde una cosa, ora la trova,

con un flash di cui faresti a meno
ti ricorda ciò che vuoi scordare,
salta una casella, una la riempie,
senza sosta, finché la vita dura.

Tempo e memoria: che se costituiscono il tessuto primo del libro, d’altra parte possono coniugarsi in molte e diverse maniere, sicché i fragmenta dell’esperienza individuale registrano tanto il dilatarsi che il concentrarsi dell’attimo, l’adesso e il sempre. Quel che resta delle giornate e delle stagioni, allora, sono «i nomi / delle strade dove hai vissuto» (A galla rimangono i nomi), inquieti brandelli di storia personale e collettiva (Il biglietto di ritorno), tracce di viaggi e di soste (Fisciano, Gabbiani a Napoli, Mi accosterò alla riva notturna), l’«aria inebriante e resinosa» di un bosco a settembre (Settembre ci donava uno scampolo d’estate) e anche, perché no?, «versi mai scritti» (Nel dormiveglia – guarda un po’!): e non è poco, anzi; ma è soprattutto il dialogo amoroso che, lampeggiando tra insonnia e dormiveglia e come arrestando il fluido decorso del tempo, ha in custodia la durata, «la gioia»:

Senza parlare ci siamo cullati, io e te,
perché in notti come quelle
facile sarebbe spaventare la gioia,
e tacciono le labbra infiammate,
solo canne d’organo respirano,
col respiro lacerando il petto.

Non per caso, ascoltando la voce di questi silenzi, Caterina Graziadei parla di «musa schiva»: affiora infatti in molte poesie di Solonovič, là dove l’io è sì sempre presente, ma quasi suo malgrado al centro del componimento, una forma di understatement che lo rende ancor più accattivante, non più distante ma più prossimo ed elegante nella sua familiare ironia; e forse anche il suo essere un «tardivo esordiente» ha a che fare con una sorta di rispetto e di attenzione (per la poesia, e per l’esistenza: e la «gioia») che è di chi sa ascoltare anche quando conversa e solo a mani fidate consegna il suo lascito. Un’ombra di sprezzatura avvolge anche le zone più gnomiche e consuntive del libro, come nel Postscriptum, dove per «cavarsela» il poeta ricorre, in clausola, ai «soliti puntini di sospensione»; così se si pensa all’arco storico attraversato dall’autore, al versante tragico della storia che ha occupato il Novecento con tanta dovizia di avvenimenti e di dolore, si capisce come il non detto ne sia un silenzioso ingrediente, forse un collaboratore a suo modo dialettico, segreto e dolente. L’accendere lo stereo e ascoltare il «Notturno di Chopin» – sarà il n.1 Op. 55, o il n.2 Op. 22? –, una notte di veglia, non è allora la ricerca di un riparo elegiaco o una fuga fuori dal tempo, ma di nuovo un avventurarsi nella «annosa lontananza» delle stagioni (Il cielo ha tardato a tirare la tenda), un nuovo saggio di poesia in musica eppure con una sua lunga scia eloquente.

È la tersa lezione di un maestro: non importa se il nostro, di certo, rifiuterebbe l’appellativo, che però voglia o no, gli appartiene. Lo sapevamo da tempo e siamo felici che sia di casa tra noi, ora, con questi versi.

Note

1 Il video della presentazione del libro, presente l’autore e le traduttrici, è visibile sul canale YouTube dell’Istituto di cultura e lingua russa.