Esce per minimumfax Un uomo pieno di gioia, che ripropone uno dei saggi più importanti di Cesare Garboli, la Prefazione ai Diari di Antonio Delfini, qui liberata dalle quattrocentoundici pagine delle scatenate (auto)confessioni dello scrittore di Modena, grande dimenticato del nostro Novecento. Un autore che ha fatto della narrazione senza lacci del sé un vero e proprio modo di raccontare un mondo, una società. E questo mentre cercava, attraverso le sue opere, di tenersi letteralmente insieme a dispetto proprio di quel mondo e di quella società. Come descrivere questa nuova uscita, oggetto editoriale complesso, a dispetto delle poche pagine effettive? Un saggio di uno dei più grandi critici del secondo Novecento, un saggio confezionato come un racconto, e ora sciolto dalla sede naturale cui era legato a doppio filo (chi andrà a sfogliare i Diari nella loro prima e unica edizione, magari in una biblioteca, vedrà e toccherà quel filo) e presentato da uno dei più originali creatori di mondi e di forme della nostra letteratura contemporanea. Pubblicato, oltretutto, da una casa editrice giovane, dinamica, veloce, strutturalmente pubblicitaria nel suo modo di presentare i testi.
A complicare un modello già così articolato, la non linearità dell’autore Delfini che, con il suo ritratto scritto, Garboli voleva presentare all’inizio degli anni Ottanta. Barricato nella villa in Versilia dove si mise al lavoro, Garboli nel labirinto Delfini si smarrì, tenendo sempre, però, il controllo della scrittura. Il risultato è un testo che, a distanza di quasi quarant’anni (ad aspettare un anno ancora se ne poteva celebrare l’anniversario), si rivela ancora perfetto, senza battute a vuoto, adatto a essere letto per blocchi tematici, per frasi, per paragrafi, tutto intero (quest’ultima ipotesi a rischio di saturazione mentale, però). Un testo di densità impressionante, con dentro tanti testi, e tante piste, alcune evidenti, altre che si insinuano nel pensiero di chi legge, e suggeriscono percorsi di riflessione legati alla psicologia, alla storia italiana, al costume.
Mi accorgo che sto parlando del saggio di Garboli, in una scelta che non è stata una scelta ma una necessità speculativa; e questo dimostra che l’idea di valorizzarlo, mettendolo al centro di un libro e non a servire un libro, è una operazione stimolante. Proprio su questo punto, però, devo dire che l’affermazione di Emanuele Trevi secondo cui, tra i Diari e la Prefazione «è il racconto di Garboli, semmai, a possedere una sua maggiore autonomia», non mi trova d’accordo: se davvero c’è un testo autonomo tra i due, si tratta dei Diari, fosse solo per la densità, la lunghezza, i temi ricorrenti, e in virtù, soprattutto, – e questo proprio Trevi lo dice benissimo – di «qualcosa che non cambia dalla prima all’ultima pagina, un tono che rimane riconoscibile nel pulviscolo delle occasioni, come accade nei diari di Stendhal».
Diari e Prefazione sono due testi indipendenti ma anche interdipendenti: si illuminano a vicenda, legati da tanti fili, più sottili e più robusti. Eppure, non sono inscindibili (nessun testo che nasce in autonomia strutturale è completamente dipendente da un altro, anche il più specifico). Non dobbiamo dimenticare però che, per quanto autonoma, per quanto d’autore, per quanto condotta splendidamente, per quanto capace di irradiare ancora più parole e più idee di quelle scritte, il saggio di Garboli è comunque – per scopo, per intenzioni, verrebbe da dire per nascita – un testo che sta per un altro testo. Il suo valore richiede ovviamente una vita autonoma, come accade a tanti testi critici brevi ma di grandissima densità e novità; infatti, la sua prima occasione di autonomia dagli schiaccianti Diari, Garboli in vita non ha mancato di dargliela, nel 1989, negli Scritti servili, con in più alcune gustose note al testo.
Secondo l’editore quello di Garboli più che un testo critico sarebbe da leggere come un racconto, per giunta «borgesiano» (così nel risvolto editoriale), come se perdersi nel labirinto delle cose – e delle persone – difficili fosse per forza un procedimento alla Borges. Ora, è palese che la Prefazione abbia caratteristiche narrative non comuni per la critica letteraria. Eppure, per affondi interpretativi, per volontà di rilancio critico attraverso la stesura di un ritratto da cui partire, questo resta (nelle intenzioni di Garboli, e anche nella percezione del lettore, se si prova ad andare un po’ oltre rispetto a suggestive verità parziali) un saggio di grande critica. Di cui, autonomo o meno che sia dal suo referente (discorso in fondo un po’ ozioso), è comunque giusto sottolineare la grandezza assoluta e il merito di racchiudere Delfini in una forma; meno corretto, forse – non solo verso Garboli e verso Delfini, ma anche verso i contenuti della bella introduzione di Trevi, che soprattutto nella parte iniziale, quella su Delfini, è il solito, sensibilissimo, sismografo di anime e di scritture – affermare, ancora nel risvolto di copertina, che quando Garboli a diciassette anni lo incontra a Viareggio, «Delfini più che uno scrittore è un personaggio di romanzo che aspetta di essere scritto». L’implicito è che quel personaggio lo avrebbe poi scritto Garboli con la prefazione.
Sempre nel risvolto, si decontestualizza un brandello di un ben più lungo ragionamento di Trevi, in cui si parla di Delfini come di uno scrittore postumo, e già fallito a nemmeno quarant’anni. Sono affermazioni non prive di verità, che per chi ha letto e studiato Delfini appaiono però come logore, parziali, e che buttate lì senza una spiegazione o una rielaborazione più complessa rischiano di suonare più come formule ad effetto per agganciare chi sfoglia il volume in libreria, che come prime chiavi di lettura per un viaggio emozionante nei misteri di un autore e di una scrittura. Se è vero infatti che in ogni libro – e nelle riproposizioni di questo tipo un simile ragionamento vale ancora di più – la confezione, i paratesti, le prefazioni, finanche le sinossi presenti sul sito della casa editrice fanno una buona parte del senso complessivo dell’operazione, questa di Un uomo pieno di gioia appare per alcuni versi incoerente, e fuorviante. Soprattutto verso uno scrittore da sempre oggetto di difficoltà e equivoci da parte della critica.
L’esempio più vistoso di incoerenza è proprio la discrepanza tra il risvolto di copertina, che ci porta con una certa assertività verso il luogo comune critico del Delfini molto personaggio e poco scrittore, e le parole brillanti di Trevi, che quasi a sgombrare equivoci, nota come la grandezza di Delfini sia un postulato che nel suo saggio «a Garboli non interessa minimamente dimostrare e dà come per scontata». Proprio questa è forse l’intuizione più commovente e centrata del Trevi critico di Garboli critico di Delfini. Nelle sue pagine Trevi, pur attraverso un viaggio cognitivo a sua volta tortuoso, si trova oltretutto d’accordo con Garboli: Delfini è strano, ha un’opera dispersiva, ma sulla bellezza della sua opera non si discute. Ecco perché mettere in evidenza nel risvolto (che poi, opportuno aggiungerlo, appare anche sul sito di Minimum Fax), gli stralci in cui si afferma come quest’ultimo fosse uno scrittore fallito al momento dell’incontro con Garboli, alla giovane età di 39 anni, ben dopo Il ricordo della Basca (1938) e il Fanalino della Battimonda (1940), ben prima di alcuni dei suoi scritti più belli e compiuti, l’Introduzione alla riedizione di Il ricordo della Basca (1956), le Poesie della fine del mondo (1961), Modena 1831. Città della Chartreuse (1962), oltre a essere una semplificazione, è anche un’ingiustizia un po’ offensiva. Il fallimento è una questione complessa, nella sua inscindibile sintesi di percezioni soggettive e di dati concreti; nel caso di Delfini, poi, il discorso sul fallimento è legato anche a una elaborata costruzione metaletteraria, a una calcificazione di sé e della propria immagine che Delfini propone, e che viene sistematicamente presa per vera. Sia per ragioni di rispetto per l’uomo, sia per ragioni di giustizia letteraria, quindi, mettere in primo piano l’idea del fallimento significa ben altro che non uno slogan da buttare lì, davanti al lettore, in una deriva di esistenzialismo/maledettismo un po’semplificatrice, di quelle che oggi fanno tanto effetto ma che, a ben vedere, sono svuotate di senso e banalizzano problemi seri come quello di trovare un proprio posto nel mondo – e, cosa ancora più seria, di mantenerlo.
Nel 2019 Emanuele Trevi ha scritto uno dei suoi libri più belli, Sogni e favole, e qui c’è innanzitutto Garboli, il ricordo di Garboli. E inevitabilmente, visto il legame tra i due e vista la sua abitudine a ricordare spessissimo l’amico morto nel 1963 a soli cinquantasei anni, c’è anche Delfini. Vale la pena riportare il passo per intero, con la sua delicata messa a fuoco: