Un ricordo di Danilo Dolci
1924-1997
Luca Baranelli

In occasione del centenario della nascita di Danilo Dolci (24 giugno 1924 – 30 dicembre 1997), e dell’uscita di Danilo Dolci. Una rivoluzione nonviolenta, a cua di Giuseppe Barone, Milano, Altraeconomia edizioni, 2024, ripubblichiamo un ricordo di Luca Baranelli del 2004, incluso nel volume.

La mia conoscenza di Danilo Dolci e i miei rapporti con lui risalgono a mezzo secolo fa, quando avevo diciott’anni. Il primo contatto avvenne attraverso il movimento di Unità popolare, un piccolo raggruppamento politico nato all’inizio del 1953 per contrastare la cosiddetta “legge truffa”, che il quadripartito allora al governo aveva approvato per garantirsi con un “premio” la maggioranza assoluta alle elezioni politiche del 7 giugno. I fondatori di Unità popolare appartenevano a un’esigua ma eletta schiera di uomini politici della sinistra democratica – come Ferruccio Parri, Oliviero Zuccarini e Federico Comandini, usciti dal Partito repubblicano – e di socialisti ex azionisti (come Piero Calamandrei e Tristano Codignola, transfughi dal Partito socialdemocratico di Saragat); a essi si erano aggiunte alcune eminenti personalità della cultura, come ad esempio lo storico Arturo Carlo Jemolo e il giurista Tullio Ascarelli. Anche a Siena si era costituito un gruppo di Unità popolare, formato in prevalenza da ex azionisti, socialisti senza tessera e socialdemocratici delusi. L’ottimo quindicinale del movimento, «Nuova Repubblica» – che si avvaleva fra gli altri collaboratori di un analista politico di grande intelligenza e finezza come Umberto Segre – seguiva l’attività che il giovane architetto triestino aveva iniziato a Trappeto, in una collina da lui chiamata “Borgo di Dio”. Pippo Codignola, che dirigeva quel foglio così vivace, non poteva non riconoscere nel lavoro di Danilo una pratica vicina alle teorie di un suo amico e maestro come Aldo Capitini. Anche altri giornali e periodici della sinistra informavano su quello che Danilo aveva cominciato a fare a Trappeto: «Cinema nuovo», ad esempio, pubblicò un reportage fotografico del giovane Enzo Sellerio.

Nell’estate del 1954, il gruppo senese di Unità popolare organizzò una vacanza di lavoro a Trappeto per una decina di giovani più o meno ventenni. Dopo un viaggio interminabile, arrivammo a destinazione e facemmo la conoscenza diretta di Danilo, di sua moglie Vincenzina e dei loro figli. Trovammo lì molti altri giovani, fra i quali Ida Sacchetti (figlia di Maria Fermi, sorella di Enrico), che come noi si erano mossi per dare una mano e per imparare. Nonostante la giovane età, avevo una qualche limitata esperienza dei modi della politica di allora. Anche per questo mi colpì la singolarità dell’azione di Danilo; più che i riferimenti teorici – Gandhi, Capitini, il metodo della non violenza – riuscivo forse a cogliere una sorta di concretezza nell’approccio ai problemi delle persone e del territorio: Trappeto, Partinico, il fiume Jato e la diga che già allora Danilo progettava. Oltre alle discussioni e alle attività concrete a cui ognuno di noi cercava di partecipare, ricordo anche le visite fatte a Danilo da dirigenti siciliani del Psi (come Domenico Rizzo) e del Pci (come Paolo Bufalini, allora, se non sbaglio, segretario regionale). Nel quadro del lavoro d’inchiesta a Partinico, rammento bene nella sede della Dc locale un confronto molto teso e duro fra Danilo, che aveva portato con sé qualcuno di noi, e i dirigenti della sezione democristiana. La nostra permanenza a Trappeto durò, mi pare, una ventina giorni; ne rimase traccia nel libro Banditi a Partinico, pubblicato da Laterza l’anno dopo, in cui Danilo volle generosamente ringraziare ciascuno di noi per la collaborazione offerta. Nel corso di una gita a Palermo, incontrammo un dirigente siciliano (se così si può dire) di Unità popolare: mi sembra che fosse l’avvocato Antonino Ramirez. Nel viaggio di ritorno a Siena, ci fermammo qualche ora a Roma, dove Vindice Cavallera, animatore del gruppo romano di Unità popolare, ci fece conoscere Carlo Levi, anch’egli amico e sostenitore di Danilo. Nelle settimane successive scrivemmo un resoconto collettivo di quel viaggio, che uscì su un bollettino a stampa pubblicato a Roma da Parri e Cavallera. Non ne ho più neppure una copia, ma ricordo la testata: «Lettera agli amici di Unità popolare».

Via via che le attività di Danilo richiamavano un’attenzione sempre più vasta della politica e della cultura nazionali – basti ricordare la clamorosa occupazione pacifica della “trazzera” di Partinico ad opera dei disoccupati della zona, e il processo che ne seguì nel ’56 – continuammo per alcuni anni a dare un modesto sostegno, soprattutto economico, alle sue iniziative. Si costituì un gruppo informale di Amici senesi di Danilo Dolci – coincidente in buona parte con i militanti di Unità popolare – che s’impegnavano a dare ogni mese piccole somme di denaro che io m’incaricavo di spedirgli con un vaglia postale. Danilo accusava ricevuta con grandi cartoline fatte a Borgo di Dio e illustrate da incisioni al linoleum; con circolari ciclostilate informava noi e gli altri gruppi sorti in Italia e all’estero dei lavori in corso e in programma. I gruppi di sostegno più attivi e numerosi, fra i quali quello torinese e quello romano, decisero dopo alcuni anni di abbandonare Danilo e di promuovere altre attività d’intervento sociale nel Mezzogiorno. Ricordo che Gigliola Venturi e Goffredo Fofi, un discepolo di Capitini che con Danilo aveva lavorato a lungo e in modo intenso fino a partecipare con lui a uno sciopero della fame, vennero a Siena per convincerci ad aderire alla loro nuova iniziativa. Non ci persuasero, e così continuammo per qualche altro anno a sostenerlo. Poi anche il rapporto dei senesi si allentò fino a interrompersi. Quando, nel giugno del 1962, mi trasferii a Torino per lavorare all’Einaudi, il mio distacco da Danilo era consumato: mi accorsi che lo stesso itinerario avevano compiuto alcuni giovani torinesi – quelli citati ad esempio fra i collaboratori di Inchiesta a Palermo – che ora militavano nel gruppo dei “quaderni rossi”. Lo rividi qualche volta in casa editrice, quando veniva a consegnare un suo nuovo libro a Daniele Ponchiroli.

Non saprei dire con esattezza, a cinquan’anni di distanza, che cosa appresi da quel viaggio e dai successivi rapporti con Danilo; ma credo, o almeno voglio sperare, che quell’esperienza così intensa e unica abbia lasciato una traccia anche nella mia formazione politica e culturale.