Mario Caciagli politologo energico, e amico
Roberto Barzanti

A Mario Caciagli (1938-2024) la definizione di politologo andava stretta, anche se era corretta ed è stata quella più ricorrente negli scritti di quanti hanno evocato il suo prolifico percorso accademico. Mario era nato a Colle di Val d’Elsa (Siena) e proprio alla sua città aveva dedicato un’esemplare ricerca che allargava lo sguardo ad un paesaggio tra i più industrialmente fervidi e politicamente combattivi dell’amata Toscana. Quando fu edita – parecchi anni dopo la sua redazione (1961) – lui stesso confessò nella premessa che, malgrado avesse considerato le vicende ricomprese tra il 1892 e il 1915 da un’ottica storiografica, il suo interesse dominante fin dagli inizi s’indirizzava alla politologia. La passione per la politica non era disgiunta dalla volontà di penetrare i suoi meccanismi, le dinamiche sociali che la muovevano, i rapporti che l’alimentavano. Le classiche fonti scritte erano indispensabili per capire le forme del presente, ma il colloquio diretto, il questionario mirato, le sincere testimonianze erano il materiale più consono alla sua militanza di studioso. Quanti dibattiti mi tornano in mente di quegli anni e le accanite dispute sui film che costituivano il fulcro di affollati confronti. Per una trentina d’anni Mario ha indagato la sua terra e non per chiudercisi dentro: era convinto che in una comunità limitata si colgono le tensioni, i mutamenti, gli effetti che evidenziano desideri, cadute e innovazioni generali. Non fu estraneo alla scala della microstoria. Imboccò la strada dell’insegnamento in varie università. Quindi l’approdo all’ateneo fiorentino (1987-2010). La geografia della sua rigogliosa esperienza fu davvero europea e oltre, da Heidelberg alla parigina Sciences Po, da Barcellona agli States (Rhode Island). La domanda che metteva al centro dell’inquietudine sua e dei collaboratori era come conferire capacità egemonica ai ceti popolari attraverso i partiti – archeologia del Novecento ormai? –, sistemi elettorali non truccati, programmi costruiti con un’autentica partecipazione critica. Mario era politologo di energica organizzazione. In Regione Toscana diresse i «Quaderni dell’Osservatorio elettorale», promosse con insistenza la rete Erasmus. Dal 2001 al 2007 fu presidente dell’Istituto Gramsci Toscano. Assisté con amarezza all’infiacchimento della sinistra. Se dovessi scegliere un libro che sintetizza il suo lascito citerei l’Addio alla provincia rossa (Carocci), che ottenne nel 2017 il premio Pozzale-Luigi Russo, creato nel 1948 in una frazione del Comune di Empoli. Anche in quelle pagine un’area organica, il Medio Valdarno Inferiore, e la registrazione, anno dopo anno, dell’affievolirsi degli ingredienti-base della politica incarnata in progetti. Per descriverne il tramonto Mario non ricorse a divagazioni: le regioni rosse, pure in Germania e in Francia, erano destinate ad un declino ineluttabile. Da noi più lentamente, poiché non monoclassiste. I legami solidali si allentavano, le Case del popolo invase dal consumismo. La mediatizzazione spettacolare aveva sostituito la parola persuasiva. Il mito sovietico dissolto. La caduta del Muro fu il simbolo della conclusione di un’epopea che era stata anche storia eroica: «Ma una storia, appunto».

[«Alias – il manifesto», 2 giugno 2024]