«Il più trascurato dei miei libri»: sono queste le parole con cui Primo Levi si riferisce a Vizio di forma nella Lettera 1987, prefazione alla seconda edizione che uscì quello stesso anno nei «Nuovi Coralli» Einaudi. Si tratta della seconda opera d’invenzione dell’autore, la prima firmata col suo nome dopo Storie naturali, pubblicata nel 1966 con lo pseudonimo di Damiano Malabaila. In anni ancora recenti, quel filone dell’opera leviana è stato pienamente rivalutato, anche come conferma dello statuto di Levi come scrittore tout court e non più “solo” come scrittore-testimone. È in quest’ottica che si inserisce la pubblicazione, avvenuta lo scorso maggio da Einaudi, di una nuova edizione di Vizio di forma per la collana «Letture», a cura di Domenico Scarpa.
In Vizio di forma – uscito per la prima volta nel 1971 – Levi raccoglie venti racconti scritti tra il 1968 e il 1970 sulla scia di quell’«intuizione puntiforme» di cui si parla nel risvolto del libro precedente; un tipo di scrittura che Levi non abbandona, nonostante lo scarso successo ottenuto nell’immediato da Storie naturali (che, ricordiamo, era stata inserita dai «Quaderni piacentini» tra i libri da non leggere). La matrice a cui secondo Scarpa attinge Levi è dunque quella «fantabiologica» (o «fantaecologica», «fantatecnologica») di Storie naturali; la raccolta del 1971, tuttavia, è più omogenea e i racconti che la compongono sono più brevi e animati da una visione pessimistica e allarmante del futuro, a tratti quasi distopica. L’autore di Vizio di forma – sostiene Scarpa – è un Levi meno divertito dall’invenzione narrativa, perché è mutato il contesto che il libro riflette: vi emerge infatti una «condizione di realtà ben diversa dagli anni 1957-66»: in altre parole l’autore, considerando il suo spirito d’osservazione, la spiccata immaginazione e la capacità di anticipare futuri possibili, non può divertirsi a «vivere in un mondo dove sei spinto a inventare storie come quelle che compongono Vizio di forma» (p. 265). Nella Prefazione, il curatore fornisce una contestualizzazione puntuale della pubblicazione del libro: «per vari aspetti, realmente, Vizio di forma prosegue con coerenza il percorso di Levi, ma è anche un libro diverso dagli altri: dai suoi, e più ancora dal panorama culturale dell’epoca. Fino a questo momento […] nella letteratura italiana si sono viste poche opere che si possano definire ecosistemiche» (p. 9). È qui il tratto distintivo dell’opera di Levi: se fino a questo momento la sua formazione scientifica si era notata più che altro nella prosa asciutta e ragionata, nell’approccio pacato al ragionamento, ora diventa un serbatoio di saperi a cui ispirarsi per «immaginare un ventaglio di possibilità per l’avvenire del nostro pianeta e del consorzio umano» (p.10). Scarpa, nel discutere sul titolo originario che Levi aveva pensato per il libro, coniando il neologismo Disumanesimo, accenna ad altri due racconti inclusi nella raccolta, Verso occidente e Ottima è l’acqua e aggiunge: «sembrano rinviare a ciò che noi oggi definiamo antropocene» (p. 11) suggerendo così una possibile chiave di lettura per far reagire quest’opera con le istanze della cultura contemporanea.
Il titolo scelto dall’autore, tuttavia, allontana da questo immaginario, rivelando piuttosto l’intenzione di servirsi della scrittura come un mezzo per parlare della Storia e dell’essenza umana senza ricorrere al materiale autobiografico; ciò induce a ragionare sulla natura del male, sulla tendenza alla sopraffazione, sulle radici biologiche della violenza e sulle pieghe più profonde della condizione umana, percorrendo però una via diversa rispetto ai primi due libri.
La questione del titolo è decisamente rilevante per il curatore, tant’è che ne parlerà in modo più approfondito nella Postfazione, «Essendo uno scrittore». Nel saggio finale, Scarpa mette a fuoco gli elementi che caratterizzano la raccolta e chiarisce molte delle questioni che la riguardano; tra queste, c’è l’abilità con cui Levi riesce a innestare, «in quello tra i [suoi] libri […] che può sembrare il più distaccato da Auschwitz» (p. 282), frammenti dell’esperienza concentrazionaria in modo implicito, attraverso immagini e situazioni. Un’altra questione centrale affrontata nella Postfazione, su cui si è dibattuto – come mostra il riferimento bibliografico allo studio di Francesco Cassata, Fantascienza? (Einaudi, Torino 2016, «Lezioni Primo Levi») – riguarda la possibilità di definire Vizio di forma un’opera di science fiction, possibilità che Scarpa accoglie a patto di considerare i racconti leviani distanti dalle caratteristiche mainstream del genere. Levi infatti, osserva il curatore, «affronta la fantascienza giocandoci» e la «nobilita proprio perché non lo sfiorano gli snobismi dell’ambiente letterario» (p. 259). La narrativa fantascientifica o fantabiologica conferma peraltro la vocazione di Levi nei confronti della misura breve del racconto (o, in alcuni casi, del «racconto-saggio»). La fantascienza, proprio per la caratteristica intrinseca al genere di proiettare futuri possibili partendo da dati scientifico-tecnologici, è un mezzo di cui Levi si serve (e che, una volta libero dal vincolo della testimonianza, predilige considerando anche la sua formazione di chimico) per indagare alcuni temi significativi come l’alienazione dell’individuo o il ruolo opprimente del progresso tecnologico che modifica in profondità la vita sulla Terra o ancora il rapporto stesso tra uomini e natura, evidente in Ottima è l’acqua. Il libro in un certo senso si fa portatore di un messaggio di taglio ecologico ed è anche prova dell’attenzione riservata da Levi alle macchine, all’interazione tra queste e gli uomini.
Il curatore mette poi a disposizione una serie di «dati essenziali» che offrono al lettore una panoramica sull’opera e lo guidano nella sua comprensione. Innanzitutto luoghi e tempi; di venti racconti, infatti, quindici si svolgono nel presente e sono ambientati a Torino, il che sostiene Scarpa rende Vizio di forma «quanto di più simile a un diario privato Levi abbia scritto» e ancora «un’opera di verifica, del mondo e di se stesso» (p. 271).
Si era già accennato al confronto tra Vizio di forma e Storie naturali, che per il curatore pare inevitabile ed è anzi un perno fondamentale della sua riflessione. Tra le altre cose, infatti, nel saggio finale si mettono a fuoco i ruoli dei vari protagonisti dei racconti «ricercatori, tecnici e ricognitori», rilevando così un ulteriore differenza rispetto ai «venditori e utilizzatori dei nuovi prodotti, delle nuove tecnologie» (pp. 266-267) del libro precedente. La riflessione si sposta anche sulla «tecnica letteraria», dimostrazione delle ormai indubbie doti di scrittura di Levi; dei venti racconti, scrive Scarpa, cinque sono in prima persona, uno racconta i fatti in modo impersonale e i restanti quattordici sono scritti utilizzando la terza persona.
Cinque tra questi Protezione, Verso occidente, Le nostre belle specificazioni, Il servo e Ottima è l’acqua – meritano una particolare attenzione per il tipo di focalizzazione utilizzata: tra gli aspetti notevoli messi in luce da Scarpa vi è infatti lo «sguardo che fa da filtro per chi legge» e che appartiene «a un personaggio che si può definire recessivo» (p. 268): una figura che subisce le scelte altrui che, se è solo voce narrante, rimane uno spettatore e si oppone al tipo dominante che il curatore individua per esempio in Il fabbro di se stesso in cui «l’entità che dice “io” pronuncia a ripetizione questo pronome come se con quelle due vocali volesse colpire e ferire le orecchie dell’invisibile pubblico che lo ascolta» (p. 269). Il tipo recessivo non corrisponde a un Levi arreso o depresso; anzi «il Levi di Vizio di forma non è altro che uno scrittore che continua a lavorare sulle sue posizioni narrative: e lo fa a partire dai suoi personali precedenti» come il ruolo di agens-spectator che ricopre, per esempio, in molti luoghi di Se questo è un uomo. D’altronde è proprio grazie alla sua acutissima capacità di osservazione – di cui questo libro offre esempi tra i migliori – che Primo Levi ci invita senza retorica a prendere consapevolezza dei difetti insiti nella natura umana. È un suggerimento che non perde di valore, in un’epoca che impone di riconsiderare il nostro rapporto con il mondo.