Marina Cvetaeva, Vivo sul vivo, trad. it. di Annelisa Alleva, Firenze, Passigli, 2023.
Se ogni nuova traduzione di un’opera di Marina Cvetaeva arricchisce la nostra comprensione del vasto orizzonte creativo proprio di questa autrice, nel caso del secondo volume degli Zapisnye knižki (Taccuini 1922-1939) siamo di fronte a una sorta di specchio-caleidoscopio che di quell’orizzonte rifrange un numero cospicuo di scorci, restituendoci al contempo le fattezze della donna e della poeta con un grado di deformazione artistica che supponiamo minimo.
Non nati per essere divulgati, chiamati come sono ad accogliere le annotazioni più recondite, questi diari – ineludibile pendant alle tante missive spedite da Cvetaeva ai più diversi destinatari – srotolano davanti a noi l’intero nastro della sua esistenza da emigrata, dall’arrivo a Berlino nel maggio del 1922 fino al rientro in patria nell’estate del 1939. Siamo ammessi così, non senza un senso di violazione, nel territorio più privato di Marina, la sconfinata prateria abitata unicamente dalla sua immaginazione, solcata in lungo e in largo da improvvisi bagliori poetici, eppure tanto spesso suscettibile di mutarsi in gabbia, o ripostiglio a doppia mandata il cui accesso è precluso a ognuno – sicuramente uno spazio angusto, quello in cui è ricacciata dopo ogni delusione (amorosa, editoriale o familiare che sia).
Sono pagine difformi a seconda dei luoghi e dei momenti raccontati. Due succinte facciate possono bastare a coprire le undici settimane berlinesi, quando manca il tempo per fermare l’esaltazione che si impossessa di lei: «Tutto insieme nei palmi delle due mani: fioritura creativa (un’esplosione!), enormità del momento, rottura con la Russia». Due più corposi quaderni registreranno la vita in Boemia nel 1923, mentre un unico, esteso taccuino sarà deputato a fornire il resoconto dei giorni più salienti vissuti tra il 1932 e il 1933 in Francia, prima di ripartire per la Russia sovietica con il viaggio per mare descritto nelle scarne pagine con cui il manoscritto si interrompe.
Ritroviamo qui dentro le asserzioni più calzanti sui suoi stessi componimenti, sorrette dalla convinzione che tutto ciò che non è poesia sia perituro, e immagini uniche per verità e suggestione: «I miei versi, come i miei abiti, sono belli in una camera buia. Alla luce vivida del giorno: tutti macchie e buchi», mentre affiora distintamente la consapevolezza della solitaria unicità della sua traiettoria, il cui riconoscimento appare procrastinato in un futuro sempre più lontano. Fervide progettualità si affiancano a gorghi autolesionistici, e i Taccuini registrano uno scollamento dal reale che va ben oltre l’isolamento rispetto agli ambienti degli émigré a Praga o a Parigi («si avvicinano, si spaventano, spariscono») – è marginalità rispetto all’umano consorzio. Con una profezia che si autoavvera, l’autrice dichiara: «Dio mi ha dato questa autocoscienza, questa capacità di autoriconoscermi solo perché sapeva che io (in quanto io) non sarò conosciuta né riconosciuta».
Il bisogno di amore di Marina è un baratro incolmabile, e si scontra con l’insensibilità e il disprezzo sperimentati in particolar modo negli anni francesi, acuito dalla disattenzione perfino da parte del figlio Mur, pure idolatrato, e dai conflitti con la figlia adolescente Alja («Ne è valsa la pena di rovinarmi la vita per lei? Di partorirla a 18 anni, consacrandole la mia giovinezza, e durante la Rivoluzione – le mie ultime forze???»).
Il flusso delle annotazioni, aforistico e frammentario per definizione («scrivo a pezzi e bocconi»), si arena nel corso degli anni in una minutaglia spicciola di impressioni – ma anche di elenchi della spesa, liste di medicine, indicazioni stradali (fondamentali per non perdersi, se si soffre di «idiotismo topografico»), appunti di scuola dei bambini o predizioni di cartomanti. L’omogeneità linguistica non è affatto ricercata, e il russo può lasciare il posto al francese o al tedesco (segnalati nella versione italiana rispettivamente da uno o due asterischi e da un diverso carattere). La scrittura autoriale può estendersi a riportare le trovate del Mur bambino o le rade apparizioni del marito Sergej, ma si tratta pur sempre di registrazioni di pugno di Marina, emanazioni di una voce che dialoga unicamente con se stessa e fatica a uscire dalla spasmodica spirale autoreferenziale in cui la scrittura diaristica continuamente si riavvolge. Colpisce l’incredibile coesione del mondo cvetaeviano in tutte le sue manifestazioni, la sua inesauribilità, la sua assoluta, autarchica autosufficienza, capace di una tensione che non concede tregua.
In questo sacrario dell’anima rappresentato dai Taccuini, il segno lasciato dal corpo è indelebile e costante: a volte l’autrice si osserva quasi dall’esterno, e allora è Marina dai piedi «quadrati come musi, come grugni – di bufali». Il corporeo reclama qui porzioni di spazio mentale inaspettate: «Se dopo la morte di chi amiamo vogliamo vivere di nuovo, non è perché l’anima ha dimenticato (chi amiamo), ma è il corpo che ha ricordato (la vita, se stesso). Comincia a mangiare, poi a ridere, poi a piacere (è attivo). L’anima non c’entra, il corpo semplicemente la addormenta e la stordisce. – Grida più forte di lei». Molteplici considerazioni ne ribadiscono il primato assoluto nella dinamica corpo/anima: «Non è l’anima che lascia il corpo, è il corpo che lascia l’anima, falsa amicizia, abbandona la partita, passa al nemico»; «Fino a poco tempo fa vivevo nel mio petto, ora vivo nella mia testa e sempre in ciascuno dei miei muscoli. Non ho mai vissuto da nessuna altra parte in me stessa – nel mio corpo»; «L’anima mi è sempre stata di impedimento, esiste l’icona Il Salvatore dall’occhio vigile, ecco – l’occhio vigile della mia coscienza superiore mi sta di fronte». E ancora: «Se il mio corpo era ciò che mi obbediva, che trottava, che portava – i bambini, che gli consegnava la mia anima – e ciò di cui nutrire e scaldare questi bambini – patate, legna secca – per decine di anni di seguito – […] allora ho avuto un corpo, anche io. Il mio corpo è stato lo sforzo, il forte in me, il mio secondo forte, il mio secondo. Mai – la fortezza sicura che sorveglia questa divinità, l’anima. Mai la porta in cui rientro, perché non ho fatto che uscirne».
Il corpo è al contempo connaturata allegoria dello sprigionarsi dei versi. La persistente immagine cvetaeviana del flusso dell’ispirazione equiparato allo scorrere del sangue si presenta qui senza filtri, nella sua nuda essenza di verità intrinseca, di non-artificio, innestandosi su spunti polemici familiari a ogni conoscitore della sua opera: «Vivo con lettori di giornali, con parafrasatori di giornali e alle loro parafrasi di notizie ristampate la mia risposta è una minuta di sangue. Arroganza? Solo chiaro-veggenza». Si tratta di una percezione che invade perfino il territorio della riflessione critica: «La lirica richiede un’ossatura ben più grande rispetto all’epos. L’epos è l’ossatura stessa. Nella lirica la tua anima (un fiume) deve farsi ossatura. – Da qui la leggerezza (e il lasciarci le ossa)».
Anche nel rammentare l’amata figura di Sonja Holliday – giovane attrice allieva del regista Evgenij Vachtangov negli anni della Rivoluzione – Marina accumula spunti (poi confluiti nel Racconto di Sonečka, la cui stesura è successiva alla scomparsa della donna, nel 1934) in cui la scrittura coagula grumi di fisicità pura: ricorda i suoi occhi lucenti, «belli come acini d’uva sgranati», che «sembravano sorgenti vive, sempre pronte a zampillare. Tutto le serviva da bacchetta di rabdomante». Ne rammemora tratti corporei: «lei nel fisico non aveva nulla dei miei amori innati: biondezza, snellezza, altezza»; ricorda che la «abbracciava spesso, fraternamente, quasi a proteggerla, a difenderla, per ripararla un po’ dalla vita, dal freddo, dalla notte».
L’ultima manciata di pagine a noi pervenute è scritta a bordo del piroscafo-frigorifero che da Le-Havre riconduce lei e Mur in Urss: è in questo singolarissimo carnet di viaggio (quasi opera a sé all’interno dei Taccuini), forzosa incursione in un genere da lei fino ad allora non praticato, che sentiamo battere il conto alla rovescia dei suoi giorni: «Piroscafo – pensavi? / Passaggio – di anime». Così il congedo dall’Europa è occasione per un itinerario a ritroso nell’intera sua esistenza: davanti alla Danimarca ricorda le fiabe che hanno nutrito la sua infanzia e i versi di Album serale, la raccolta del debutto («Sono rimasta in piedi a guardare e salutare dal profondo del cuore Andersen – che aveva navigato su queste stesse acque»); ogni porto richiama un nome, ogni orizzonte scorto dalla nave riporta alla mente un poeta amato, studiato, incontrato, mentre si rinverdisce l’eterna battaglia con gli oggetti («le cose non volevano rientrare nel bagaglio»). L’impatto con la Dogana sovietica non è che un assaggio del trattamento di cui Marina sarà oggetto, nei due anni che le restano da vivere: anticipa l’approccio di cruda, ostile sorveglianza che le sarà riservato in patria.
Aldilà delle pagine andate distrutte o perdute, dei brani di cui è ormai impossibile venire a capo, questi Taccuini costituiscono una miniera di preziosi spunti, sono materia per lo studio della psiche del Poeta e fondaco di spigolature a margine per i chiosatori dei suoi testi “maggiori”. Una trascrizione per scorci via via più sfocati della sua vicenda terrena – dolente, intransigente, a tratti fulgida, segnata in parti uguali da vulnerabilità e fierezza.
Tutt’altra cosa sembrerebbe la pubblicazione di Živoe o živom (Vivo sul vivo, a cura di Annelisa Alleva (Passigli, 2023), un brano in prosa intrecciato intorno alle reminiscenze generate dalla notizia della morte del poeta, critico e acquarellista Maksimilian Vološin, notizia che coglie l’autrice nel 1932, in Francia. Viene qui ricostruito il racconto della loro amicizia, a partire dal primo incontro, avvenuto in casa di Marina all’indomani dell’uscita di Album serale, fino alle ultime frequentazioni a Koktebel’, nella Crimea del 1917. Eppure di una grande continuità con i Taccuini parlano i tanti passaggi in cui il bilancio esistenziale cvetaeviano si sfrangia in dolenti constatazioni («Quanti mi hanno condotto lungo i passaggi di servizio della vita, introdotto e lasciato – cavatela come puoi. Che cosa ho visto nella vita, oltre a un passaggio di servizio? E le loschissime trame umane»).
In questo testo in cui le storie si innestano dentro le storie e le continue digressioni intervengono a movimentare la narrazione per accogliere i più svariati episodi, ci imbattiamo innanzitutto nella galleria di figure femminili che ruotano intorno a Vološin. Si inizia con la fascinosa Čerubina de Gabriak – alter ego fittizio della tutt’altro che appariscente insegnante di scuola Elizaveta Ivanovna Dimitrieva – una creatura di cui l’intera redazione di «Apollon» si invaghisce, e per la quale Nikolaj Gumilev sfida a duello Vološin, artefice primo della mistificazione. Si prosegue con la sembianza reale di Adelaida Gercyk, a sua volta poeta e amica del pittore-poeta, capace, da esponente della generazione precedente, di apprezzare in tutta la sua portata l’opera di Marina («il suo libro Verste, che ci ha lasciato partendo, è la cosa migliore che ci è rimasta della Russia»). Non poteva mancare la stessa madre di Vološin, Elena Ottobal’dovna, «Pra»: «promadre, matriarca», colonna portante della vita familiare e sociale in «terra koktebeliana». Parlando di lei, si palesa una incontrovertibile inversione di ruoli, quanto a incarnazione delle identità di genere convenzionali: «tutta la virilità data ai due era toccata alla madre, tutta la femminilità – al figlio».
Del resto, questo saggio-memoir è un pezzo unico nella produzione cvetaeviana anche per quanto riguarda la genealogia letteraria femminile che l’autrice intenzionalmente vi incastona, facendola affiorare dalla trama delle riflessioni e dei ricordi: tra coloro che l’hanno preceduta annovera proprio Gercyk, con i suoi versi simili ad «antichi rammendi» (che a loro volta attingono ai canti popolari femminili). Difficile poi sottovalutare la menzione di Nadežda Durova come prototipo ideale per la figura disinvoltamente mascolina della stessa Elena Ottobal’dovna. Perfino il tutt’altro che lusinghiero cammeo sulla «poetessa» Marija Papper, ridicolizzata nel suo primo incontro col poeta e critico Vladislav Chodasevič, comprova l’attenzione per il tema della scrittura femminile, così come un interesse specifico per la storia delle donne traluce nella digressione sulla Cimmeria come «patria delle amazzoni», o laddove ci viene riferito dell’entusiasmo di Vološin per il matriarcato. È l’inconfutabile consapevolezza dell’esistenza di uno spiccato solco femminile nella poesia russa che la porta a scrivere, a proposito di un componimento altrui: «L’immagine è achmatoviana, l’impatto – mio, i versi sono stati scritti prima di Achmatova e di me – quindi è giusta la mia convinzione che tutti i versi, passati, presenti e futuri siano stati scritti da una sola donna – senza nome».
Questa linea di riflessione innerva un testo intriso di una profonda nostalgia per gli anni della gioventù, un testo nato come affettuoso compianto di un uomo che per Cvetaeva aveva rappresentato la prima voce critica empatica («nessuno mai con una cura tanto sollecita si è confrontato con i miei versi cosiddetti maturi quanto il trentaseienne M.V. con i miei sedicenni»). Dotato di una innata prodigalità e di un’indubbia propensione per le imposture, sinceramente convinto del valore della sua amica, Vološin si era spinto in predizioni di grandezza («tu sopravviverai a tutti, Marina, e ad Achmatova, e a Gumilev, e a Kuzmin»), ed era forse l’unico da cui lei accettasse critiche («Marina! Tu nuoci a te stessa con l’eccesso»).
A dominare su tutto, in queste pagine, è il ritratto della persona fisica di Vološin, raccontata per elementi primari, quasi a mitologizzarne i contorni: «vero fumo, frutto, tizzone della terra»; «enorme gnomo, folto gigante […] con acquemarine al posto degli occhi»; «di lui, come delle montagne, si poteva dire: massiccio»; «un monolite terrestre» sormontato da una chioma «furiosa e frenetica» («mai capelli avevano dichiarato così apertamente l’appartenenza al regno vegetale»). Lui è «tela, assenzio, sandali», e Marina non si sorprende nel venire a sapere che se ne è andato l’11 agosto, nel «mezzogiorno dell’anno, nel cuore dell’estate», e in più esattamente «a mezzogiorno», «alla sua ora», «quando il sole è proprio allo zenit, cioè sul sincipite»: «all’ora vološiniana». La sua presenza si espande nella sua stessa casa di Koktebel’, la torre-faro da cui ci si inchinava al sole e alla luna, ingombra delle molte migliaia di libri da lui collezionati e dei più bizzarri reperti provenienti dai viaggi esotici compiuti negli anni.
Con una condivisibile intuizione, la curatrice accompagna al brano in prosa (che propone una nuova traduzione del testo già presente in M. Cvetaeva, Incontri, a cura di M. Doria de Zuliani, La Tartaruga, 1982) la prima versione italiana delle poesie raccolte sotto il titolo Ici-haut, ovvero il ciclo di versi scritti per Vološin tra il 1932 e il 1935. Anche se si tratta di due opere nate separatamente, l’operazione esplicita un tratto cruciale della ritrattistica cvetaeviana: i poeti che ricadono sotto il suo scrutinio necessitano di una doppia lente di lettura – versi e prosa. Come nel caso di altri poeti dedicatari, la cornice privilegiata per le liriche è quella della forma ciclo, e l’evento chiave per la riconsiderazione della loro figura è la dipartita, che muta il ricordo in rimpianto e detta accenti struggenti. Ed esattamente come in altri casi (il ciclo per Aleksandr Blok e quello per Vladimir Majakovskij, in particolare), anche per commemorare Vološin si genera una inconfondibile osmosi tra versi e prosa, così che un ambito illumina e completa l’altro, e concetti cruciali per la rappresentazione della figura del poeta venuto a mancare si ripresentano in entrambe le dimensioni: accade per il tema della Russia, per quello della memoria, per gli elementi del sole e della luna, per l’immagine del cammino e per il motivo dell’ascensione, come per tutti i tratti che le permettono di cogliere la quintessenza corporea dell’amico di un tempo.
Entrambe le pubblicazioni – i Taccuini, tutti tuffati nel presente, e Vivo sul vivo, intensamente retrospettivo – offrono dunque al lettore italiano nuove occasioni per esplorare il mondo di questa autrice. Emotivamente saturi, i due testi intrattengono una relazione strettissima col linguaggio poetico: con le parole di Iosif Brodskij, palesano (non meno dei versi) quella «riluttanza ad accettare la realtà» narrata attraverso «lo sforzo costante dell’autrice di alzare il registro: una nota più su, un’idea più su».