Aveva un talento che scioglieva in narrazione anche la ricerca più ardua. Il Medioevo che Chiara Frugoni (Pisa, 1940-2022) ha indagato con sguardo attento ai dettagli minimi, agli oggetti inventati e alle usanze quotidiane, non è avvolto in una sacrale oscurità. Per capire le febbrili indagini sulle quali si fonda non è fuori luogo evocare le esperienze della sua vita, intrecciate più di quanto s’immagini con l’architettura dei suoi lavori.
Chiara ha descritto più volte gli affetti dell’infanzia bresciana e le tensioni affrontate a quel tempo. Basterà sfogliare i due testi sul paesino dove trascorreva le estati da bambina: Solto, un centro minuscolo in provincia di Bergamo, appollaiato sulla collina che guarda la sponda occidentale del lago d’Iseo, «rimasto immobile – scrive in Da stelle a stelle. Memorie di un paese contadino (2003) – fino agli anni Cinquanta» e poi aggredito dall’Italia del miracolo, quasi scomparso con l’affievolirsi di un senso comunitario dello stare insieme, svanito quando «i campi vennero coltivati per diletto e non più per bisogno». Ritornando, dieci anni dopo, a percorrerne strade e rammentarne volti (Perfino le stelle devono separarsi, 2013) non esitò ad abbandonarsi ad una pudica commozione di congedo: «Giunta sulla soglia, ho cercato di non lasciare scivolare come sabbia fra le dita il passato delle tante persone che mi si sono affidate, chiedendo di vivere attraverso la memoria che di loro ho conservato. Sento le loro voci, le voci della casa scomparsa. E vorrei che per qualcuno continuassero a essere care». E nella memoria autobiografica non mancano elementi che ne fanno anche un pezzo di storia, di storia vissuta e mai dimenticata. Chiara aveva occhi e sensibilità di storica e del passato coglieva e consacrava situazioni esemplari: «Quando da piccola – ha scritto in Donne medievali. Sole, indomite, avventurose, 2021 – io vivevo in campagna, i miei amici, figli di contadini, assai intelligenti ma costretti ad andare a piedi nudi e a scuola solo quando i lavori agricoli non richiedevano pressantemente il loro contributo, a me, con le scarpe e tanto per bene ordinata, che ogni giorno entravo in classe, chiedevano sinteticamente conto della nostra differenza sociale: “Perché a te sì e a noi no?”, una domanda che non ho mai dimenticato, domanda, che, purtroppo, anche oggi non riguarda affatto solo il mio caso personale».
Per intendere le sorgenti della metodologia storiografica prediletta non è superfluo richiamare questa postura, femminile e curiosa, questa volontà di penetrare universi per salvarli dalla dimenticanza restituendone colori e profili, ferite, mutilazioni e desideri. Chiara era figlia del grande storico Arsenio Frugoni, ma volle avanzare per suo conto con fiero orgoglio, per meriti suoi, attestati da una strabiliante bibliografia. Laureatasi a Roma, alla Sapienza, si perfezionò alla Normale nel 1965, quindi fu docente a Padova e dal 1980 al 1988 tenne la cattedra di Storia medievale a Pisa, conclusivamente a Roma, Tor Vergata, fino al 2000. Filo conduttore delle sue pagine è stato un criterio lapidariamente riassumibile: le immagini parlano. Le arti figurative e plastiche, le miniature dei codici e gli affreschi delle chiese hanno il valore delle fonti scritte e rivelano corrispondenze e conferme, aprono prospettive inedite. La sua lettura visiva del Medio Evo si popola di persone che si muovono come in una novella, in spazi segnati da gesti e inframezzate da simboli da interpretare. E lei stessa, quando spiegava il ciclo del paradisiaco Buon Governo che Ambrogio Lorenzetti concepì per il Palazzo Pubblico di Siena o episodi della vita di Francesco nella basilica di Assisi o nella Cappella degli Scrovegni di Padova, sembrava uscire da quelle opere come se le avesse appena attraversate colloquiando con chi le abitava da sempre. «Soltanto nell’ideologia dei Nove – la magistratura che allora guidava Siena, committente del Lorenzetti e di cui l’affresco [1338] è il manifesto politico – regnano pace, giustizia e concordia». Ma sarebbe errato abusare del termine utopia, non localizzando l’affresco. In effetti il luogo è ben individuato e l’efficacia comunicativa dipende proprio dal fatto che Lorenzetti sollecita una immediata identificazione della città coinvolgendo persuasivamente i cittadini in una possibilità raggiungibile, realizzabile. L’iconografia sprigionava un effetto pregnante e saldava realismo e invenzione. «I Nove allora al governo – osserva Chiara – contarono, per il successo della comunicazione, sull’abilità dell’“impaginatore” del programma e sulla straordinaria bravura e genialità delle invenzioni di Ambrogio, capace di tradurre per la prima volta in immagine complicati concetti politici».
Vedete, par di risentirla ammiccante: «Le mura e le porte della città proteggono come i muri e le porte della propria abitazione; ispirano un sentimento di sicurezza». Le comparazioni col presente erano accennate, ma non disdegnate: «Anche oggi le città hanno i loro rumori e i loro odori, gli uni e gli altri generati in grandissima parte dal traffico e dall’inquinamento generale. Tacciono invece quasi del tutto le voci degli uomini; nessuno canta più, a meno che sia un po’ strambo o eccentrico; anche gli artigiani che fino a poco tempo fa accompagnavano il loro lavoro fischiettando o cantando stanno zitti, preferendo ascoltare voci e musiche altrui, già incise; al massimo le loro parole sono moti di impazienza». Nelle locande affollate si dormiva in promiscuità e non rare erano boccaccesche macchinazioni: «Tutti dormono con i loro sogni; fino a quando ‘al canto del gallo ritorna la speranza’». Chiara aveva avuto un rapporto difficile col padre, morto col fratello Giovanni in un terribile incidente a Bolgheri nel 1970. Nel 1997 aveva dato alle stampe un libro che a introduzione trascriveva brani ripresi dalle lezioni dedicate dal babbo alla Storia di un giorno in una città medievale e ne proseguiva e arricchiva la scrittura con una riconciliata devozione: «a mio padre, ora ho più dei suoi anni». «Solo nel ’44 e nel ’45 – val la pena evidenziare una delle pagine più commosse e sobrie sui rapporti col babbo in un anno cruciale – trascorremmo a Solto tutto l’anno. I due anni precedenti avevamo abitato a Vienna. Il babbo era stato congedato dal servizio militare in quanto “figlio unico di madre vedova” e aveva ottenuto un posto all’Istituto italiano di cultura perché sapeva anche il tedesco a perfezione. Le cose non si erano svolte, però, così semplicemente. Lasciata Vienna e tornati a Solto, il babbo due volte alla settimana raggiungeva Salò, ufficialmente per insegnare l’italiano a un generale delle SS, vivendo a contatto con Mussolini e i tedeschi. Alla sua morte trovai la tessera di partigiano di brigata e ora so che ha rischiato continuamente la vita salvandola a molte persone. Non ne volle mai parlare, e pur potendo ricostruire con buona approssimazione gli anni del suo coraggio straordinario, preferisco ricordarli con i miei occhi di bambina, ignara della continua tensione cui si sottoponeva il babbo, che verso di me traboccava in un’educazione severissima, a volte violenta».
Nella sua opera ultima e suprema, Donne medievali. Sole, indomite, avventurose, uscita nel 2021 presso il Mulino a sigla d’addio di una magnifica trilogia (con Paradiso vista Inferno, 2019 e Uomini e animali del Medioevo. Storie fantastiche e feroci, 2018), Chiara esplicitò l’intenzione di attribuire alle donne relegate nell’ombra il ruolo sottratto a un’ignorata folla: «la metà sprecata mi verrebbe da dire» del genere umano. «E oggi, il legame familiare – aggiunge – quanto condiziona una donna nell’espressione piena dei suoi desideri e delle sue possibilità? La risposta ai lettori e soprattutto alle lettrici». Interrogativo tipico di un’impostazione che non mischiava tempi e cadenze attualizzando, ma poneva le domande contemporanee mettendole a contatto con le condizioni rilevate nel passato. Si pensi al sottile impulso allusivo che percorre La storia di Chiara e Francesco (2011): lei che era stata una somma studiosa della leggenda dei santi di Assisi volle consegnare a un delicato e arioso racconto il significato di una sintonia tra due anime derivata da una «forma di vita» non fissata in un’obbligante e codificata regola claustrale: «Patirono tante rinunce, tante costrizioni, ma seppero vivere i loro incanti e vividamente rappresentarli, diffondendo gioia fino ad oggi in modo suggestivo e felice».