Le ricerche di Massimo Lucarelli, confluite in Un’idea modernista di Barocco. Studio sul secondo Ungaretti, iniziarono quasi un trentennio fa, alla Scuola Normale Superiore di Pisa, per poi essere sviluppate tra Italia (Università di Perugia) e Francia (Université Paris-Sorbonne), con il supporto di Jean-Charles Vegliante e François Livi, ricordati da Lucarelli nelle pagine introduttive.
Nel capitolo primo («Il problema del Barocco nella critica ungarettiana»), Lucarelli discute la questione del Barocco in Ungaretti con premesse metodologiche e considerazioni di notevole ampiezza, e con un percorso innovativo rispetto alla critica precedente.1 Incrociando testimonianze d’autore e rilievi intertestuali, Lucarelli attribuisce la scoperta ungarettiana del Barocco agli anni successivi al trasferimento a Roma (1921). A partire dal Sentimento del tempo, Ungaretti sarebbe non tanto mosso dal «sentimento del classico» attribuitogli dall’ottimo studio di Daniela Baroncini (Ungaretti Barocco, 2008), quanto «modernista», con riferimento alla ridefinizione di quest’ambito operata da Romano Luperini e Massimiliano Tortora. L’attitudine degli autori modernisti a rileggere la tradizione con il filtro distorcente della crisi del proprio tempo è infatti condivisa dal secondo Ungaretti, che, in cerca di nuove modalità espressive, trovò cruciali modelli artistici (e spirituali) tra Cinquecento e Seicento. Perciò Lucarelli, riadattando una definizione di Luperini per il Montale delle Occasioni («classicismo modernista», p. 351), attribuisce all’Ungaretti del Sentimento (e oltre) un «modernismo barocco», da cui il titolo del volume, echeggiante a sua volta uno scritto montaliano (Un’idea di Barocco, in «Il Mondo», 1945).
I capitoli successivi mostrano come l’«idea modernista» di Barocco nel secondo Ungaretti si formi, approfondisca ed espanda “attraendo” nella sua orbita esperienze culturali e biografiche. In «Mediazioni dell’idea ungarettiana di Barocco» (pp. 81-180), Lucarelli rintraccia possibili fonti contemporanee (europee perlopiù), distinguendo tra i piani intertestuale e interdiscorsivo. In «Evolversi e stratificarsi dell’idea ungarettiana di Barocco» (pp. 181-352), cita e commenta una ricca mole di passi d’autore, anche tratti da articoli, conferenze, saggi, lezioni, interviste, autocommenti. I capitoli si prestano a riletture trasversali, concorrendo a comporre un suggestivo quadro unitario, intersecati da continui rinvii e affini nel metodo. Lucarelli, che si rifà anche alla tradizione filologica italiana, elegge la pratica della critica delle fonti a prospettiva prioritaria, valendosi del modello teorico elaborato da Cesare Segre (1982), che distingue tra intertestualità vera e propria (rapporti tra testo e testo) e interdiscorsività (testo e cultura di riferimento nel suo complesso, tradizione letteraria, generi, topoi).
Lucarelli impiega opere note a Ungaretti ma trascurate da precedenti studi – come l’antologia dei Lirici marinisti curata da Croce (1910), o quella delle Rime michelangiolesche allestita da Fortunato Rizzi (1924) – per riconfigurare la rete intertestuale del secondo Ungaretti (Il sentimento del tempo, Il dolore, La terra promessa), attribuendo ai modelli anche valenze esistenziali e metapoetiche, con finalità esegetica. Lucarelli intende offrire una «piattaforma interpretativa» a un nuovo commento del Sentimento, in cui «l’idea ungarettiana di Barocco agisce in profondità lungo gli assi concettuali, tematici e stilistici […] particolarmente (come le fonti michelangiolesche, tassiane e mariniste possono spesso confermare) in quelle zone di maggiore modernità […] dove si riflette sui limiti e sulla natura dell’attività poetica o ci si interroga sul destino dell’uomo contemporaneo, sospeso sul baratro di un mondo in frantumi» (p. 351).
L’idea ungarettiana di Barocco si sostanzia di un nucleo di motivi longevi, ora ispirati da “mediatori” culturali, ora attribuiti ai modelli studiati e tradotti. Attecchisce ed “evolve” nell’immaginario dell’autore un concetto forse mediato da un saggio eliotiano sui metafisici inglesi del Seicento,2 riguardante il potere di frammentare le strutture tradizionali, per riassemblarle in forme nuove e sorprendenti. Ungaretti incarna la forza disgregante del Barocco nell’arsura dell’estate romana (poesie degli anni Venti, ispirate dai Lirici marinisti di Croce), la attribuisce a celeberrimi artisti del Seicento (Borromini e Caravaggio, la cui luce «rompe tutto, e simultaneamente ricostruisce […] un ordine nuovo», prosa di viaggio del 1933, p. 197), per poi estenderla alla poesia di quel secolo. Di Tasso, “padre” del Barocco accanto a Michelangelo, elogia il «faticare ad unire nel suo animo notturno l’inconciliabile» (conferenza del 1941, p. 214). “Sentimento della catastrofe”, horror vacui, esasperazione della regola, libertà dell’arte sono altri motivi inglobati nella categoria ungarettiana di Barocco, la cui forza centripeta attira a sé figure anche molto distanti, come Michelangelo e Racine, lambendo gli stessi Petrarca e Leopardi.
Questa mappa storico-critica è elaborata con la progressiva aggiunta di “tasselli”, a partire dalla crisi gnoseologica provocata dalla rivoluzione copernicana, soglia della modernità. A Michelangelo, chiave di volta tra Umanesimo e Seicento, è accostato, come s’è visto, Tasso, ma le metafore e le strutture metriche del Canzoniere di Petrarca sono già semi dei moderni sviluppi verso l’«enfasi» romantica (prolusione del 1943, p. 223) e la lirica – essa stessa definita «barocca» – di Leopardi (lezione del 1943, p. 227), passando per la «verbale meraviglia» della Gerusalemme, vertice espressivo del Barocco italiano (saggio del 1946, p. 217). I rilievi intertestuali denotano che quest’ultimo suscitò l’interesse di Ungaretti quanto quello europeo, cosicché «Il petrarchismo barocco del Sentimento può […] risultare […] molto più legato alla tradizione letteraria italiana di quanto si pensasse» (p. 15).
Quanto agli europei, a Shakespeare, accostato a Tasso e Michelangelo, è attribuita la facoltà di “prevedere” il Barocco (Nota del traduttore, 1944, p. 268); Racine, erede del motivo petrarchesco delle “rovine”, riveste un analogo ruolo di snodo tra due epoche: Barocco e Neoclassicismo (Nota del traduttore, 1950, p. 279); Gòngora, considerato geniale per l’argutezza metaforica, offre soluzioni espressive alla moderna poesia europea. Nel saggio Gòngora al lume d’oggi (1952) Ungaretti afferma che l’arte dei secoli Seicento, Ottocento e Novecento è ispirata da un’analoga percezione di «catastrofe […] immanente nello stesso linguaggio» (p. 289). Questo e altri brani rivelano che Ungaretti considerò il Seicento un secolo tragico, segnato, come il Novecento, «sia da una profonda crisi culturale ed epistemologica […] sia da una drammatica risposta artistica a tale crisi» (p. 14).
Ungaretti appare dunque come un modernista dedito a sviluppare un’originale poetica dai tratti barocchi, capace di raggiungere «vertici visionari» (come «spogliando lo scheletro», in Di luglio, 1931), che confermerebbero la scarsa efficacia delle etichette del “ritorno all’ordine” e del “nuovo classicismo”. A tale proposito, si legga una riflessione di Lucarelli riportata in nota: «Vero è che nel dicembre del 1918, da Parigi […] Ungaretti […] scrive a Papini: “Seguo con attenzione il movimento di Mussolini, ed è, credimi, la buona via […]”. Tuttavia, questo desiderio di ordine e di armonia non mi pare trasferirsi dal piano politico a quello letterario, tanto che le poesie […] e le prose liriche […] dell’anno successivo testimoniano un notevole sperimentalismo formale, che non scomparirà in Sentimento del Tempo» (pp. 17-18, n. 13).
Se è vero che «Ungaretti […] si pone a un livello europeo specialmente in relazione al suo Barocco» (p. 15), allora, più che agli altri poeti “modernisti” italiani (Saba, Montale), è avvicinabile a quelli europei, come Thomas Eliot e Federico Garcia Lorca, rispettivamente alle prese con la riscoperta dei metafisici inglesi (Donne) e di Gòngora; e soprattutto Valery Larbaud, conosciuti grazie alla comune collaborazione alla rivista internazionale «Commerce» (1924-1935), secondo una linea di lavoro ancora perlopiù in ombra.
1 Le posizioni che emergono sono così contrastanti, che Lucarelli nota il prevalere di un «disorientamento critico» a fine anni Cinquanta (p. 44). In seguito, Ungaretti fu considerato tanto fautore del «ritorno all’ordine dell’entre-deux-guerres» (Sanguineti, p. 46), quanto un doppio di Benjamin, per la capacità di vedere nel Barocco una «prefigurazione di tensioni presenti» (Guglielmi, p. 57).
2 Cfr. T.S. Eliot, The Metaphsical Poets, 1921: «after the dissociation, they put the material together again in a new unity» (cit. a p. 141).