
La riproposta, in un solo volume, di due libri di Paolo Buchignani, i quattro racconti di L’orma d’Orlando (1992) e il romanzo Santa Maria dei Colli (1996), è quanto mai opportuna: un decennio cruciale della nostra storia recente; una prosa e un raccontare di grande intensità. L’editore lucchese Andrea Giannasi, Tralerighe libri, ha realizzato un volume davvero bello, elegante e morbido. Buchignani fa precedere i due suoi libri da un testo sostanzioso e importante che li inquadra molto bene. Si chiama L’orma dei passi perduti e dà il titolo al volume stesso. Parlerò di quest’opera seguendo il filo di due caratteri di essa a mio vedere salienti, ovvero i nomi propri e gli stereotipi.
I.
Buchignani ha e mostra un’estrema attenzione ai nomi propri. In La finestra di Rolando si legge: «Il nome di suo padre lo avevano inciso sulla lapide, sotto il monumento ai caduti, in marmo nero, in mezzo al piazzale della chiesa; e lui, da piccolo, al ritorno da scuola, si fermava a leggerlo ogni giorno e gli piaceva seguire col dito la forma di quelle lettere scavate nel marmo, dalla prima all’ultima». E poiché «quell’ubriacone di Ambrogio», ogni 4 novembre, «pronunciava tutti i nomi dei caduti, storpiando puntualmente quello di suo padre», lui, Rolando, ricordava «di aver detestato quell’uomo». Lo stesso verbo, storpiare, ritorna in Santa Maria dei Colli, all’inizio di un capitolo: «Poldo era bello, il più bello tra i figli di Meo. […] Aveva un portamento distinto, un’aria aristocratica e pensosa. Aristocratico anche il nome, Leopoldo, storpiato dalla voce del popolo». Qui, il verbo, storpiare, è meno giustificato, trattandosi di un’abbreviazione più che normale. Per di più Buchignani è alieno da forzature di tipo espressionistico. Allora, non resta che concludere che Buchignani tiene in modo particolare alla intangibilità, meglio alla invulnerabilità, del nome proprio. Che deve essere protetto come il suo portatore. Il nome proprio ha a che fare, naturalmente, con la genealogia. Ma, in Buchignani, questo fatto non ha niente della asetticità anagrafica a cui penseremmo, ma, al contrario, innesca un processo mosso e palpitante. Un esempio da Santa Maria dei Colli, ad inizio di capitolo: «L’unico fratello di Meo si chiamava Donato. Quando Donato nacque nella casa più povera della corte del Moro, sua madre morì di parto. Figli della miseria nera e del padre Gioacchino, povero boscaiolo che trascinava la vita con la scure in mano e un tozzo di pane secco in tasca, i due ragazzi…». Un altro esempio dal libro, parecchio più tardo, Solleone di guerra, di nuovo a inizio capitolo. Qui non è in gioco la genealogia in senso stretto, ma il rapporto tra il giovane e il vecchio, entrambi posti, o forse perduti, nell’universo: «“Poldo, che vedi?”, mi gridava Lorenzo dalla finestra del salotto a piano terra. E io, ritto sulla panchina di Paradisa: “È arrivato Marte sopra la casa di Fedele!” E lui: “Giove si vede più?” “Sì, ma bisogna montare sul portico di Tore Matto, perché è scappato dietro la capanna del Rossi, là, verso la Polla del Bongi.” “Bravo Poldo, ma ora vai a letto”…». Durante la lettura dei brani, è probabile che vi siate accorti della presenza di nomi di luoghi. In effetti, essi hanno la loro notevole importanza, cospirano con quelli di persona, contribuiscono all’assetto complessivo; a una certa distanza, ma sicuramente vengono subito dopo i nomi di persona. Sintesi perfetta dei due è L’orma d’Orlando, titolo di un racconto e della raccolta, diventato nome di luogo a partire da una radice di nome di persona, di un personaggio famoso. I nomi propri di persona rientrano grosso modo in due gruppi, due categorie. Ci sono quelli che si riferiscono a un ambito cavalleresco, medievale e rinascimentale: Lapo, Orlando, Rolando, Ruggero. Lapo, che, come sapete, è nominato nel verso iniziale di un celebre sonetto di Dante, è il nome dell’alter ego dell’autore stesso. Ma, mentre si tuffa in un passato molto remoto, l’autore non si allontana da se stesso: infatti Lapo è, con la differenza di una lettera, di un suono, peraltro ripetuto, l’anagramma del suo nome: se io dico o Lapo, è a Paolo che mi rivolgo, è Paolo che chiamo. L’altro gruppo è di carattere, di ascendenza biblica. La nonna Esterina, ha per marito Assuero. Esattamente come nel libro biblico di Ester, nel quale Ester diventa la seconda e fondamentale sposa di Assuero. Per definire l’evidente singolarità di questo libro all’interno dell’Antico Testamento, l’insigne biblista e ebraista Robert Alter ricorre al concetto di carnevalesco, e scrive: «Rovesciamento è la chiave per la trama di Ester. […] Il carattere carnevalesco della storia è evidente. Nel carnevale, le gerarchie sono (temporaneamente) rovesciate; gli inferiori vanno a giocare il ruolo di quelli sopra di loro». Tutta la narrativa di Buchignani è sottesa e pervasa da simili rovesciamenti, raggiunti, effettuati (magari temporaneamente), o solo sognati e desiderati. Attualmente – ma la cosa è in corso da parecchio tempo, almeno due o tre decenni – vengono segnalati, lodati, esaltati, quei libri di finzione, la cui caratteristica precipua, il cui motto è: fuori i nomi, fare i nomi. Sembra essere, questo, un atto di coraggio. Io penso che non sia vero. La narrativa di Buchignani mostra che il punto non è di estrarre i nomi da qualche penombra o oscurità, e di pronunciarli, così di fare qualcosa di falsamente coraggioso e di vagamente delatorio, bensì, al contrario, di sottolineare il fatto che i nomi stanno, e che i nomi fanno, in altre parole che sono la prima e archetipica forma di resistenza. Anche se il vasto e arduo territorio dei nomi propri è ben lungi dall’essere esplorato appieno, la loro importanza cruciale è indubitabile. Voglio darvene due esempi, due prove. Gli incipit dell’Iliade e dell’Odissea sono molto diversi, e la loro differenza si manifesta proprio sul cardine del nome proprio. «Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide»: subito, al primo verso, il nome, come qualcosa di inscalfibile, di inaggirabile. E l’ostinazione del protagonista non è già scritta nella pietra, nel macigno di quel nome? «L’uomo ricco di astuzie raccontami, o Musa, che a lungo / errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia; / di molti uomini le città vide e conobbe la mente, / molti dolori patì in cuore sul mare»: soltanto al verso ventuno comparirà il nome del protagonista. E questo ritardo non anticipa e riflette forse la natura proteiforme e sfuggente di lui? Ecco il momento dell’apparizione del nome: «tutti gli dei ne avevan pietà, / ma non Poseidone; questi serbava rancore violento / contro il divino Odisseo, prima che in patria arrivasse». Si può anche notare che mentre Achille è il possessore, il soggetto dell’ira, Odisseo è invece l’oggetto, il bersaglio dell’ira altrui, dell’ira di un dio. C’è un verso, nella moltitudine pressoché infinita della letteratura francese, che viene sempre celebrato, sovente considerato il più bello. È quello che, nella Fedra di Racine, definisce la protagonista tramite la sua genealogia. Come dire, un nome mirabilmente esteso e prolungato: «La fille de Minos et de Pasiphaé». È giusto, seguendo la lettura che di questa opera ha fatto Francesco Orlando, dire che la potenza di questo verso dipende dal fatto che Minosse è l’incarnazione della Legge e Pasifae la rappresentante del Desiderio perverso; ma è altrettanto giusto ricordare che quei due nomi propri sono sostanzialmente intraducibili.
II.
Nelle circa trenta pagine che dedica alla questione dello stereotipo Giovanni Bottiroli, nella sua Teoria dello stile, del 1997, asserisce che lo stereotipo è al tempo stesso duro, rigido e vago, giacché «nel discorso stereotipato il separativo acquista l’imprecisione del confusivo, e il confusivo assume la rigidità del separativo» (p. 222). Per parte sua, Walter Siti, che è non solo un affermato romanziere, ma anche critico di tutto rispetto, nel suo recentissimo Contro l’impegno giudica un vasto numero di testi narrativi contemporanei sulla base della presenza più o meno forte di stereotipi. Quelli da lui segnalati e incriminati non sono però di stile, bensì appaiono come coaguli o grumi di tipo intellettuale e ideologico. Sono perciò discontinui e sintomatici. Dalla ribalta mediatica quotidiana non c’è chi non si presuma e proclami indenne dallo stereotipo, chi non ne dica male, chi non lo condanni. Volendo parlarne bene, in senso positivo, in relazione alle narrazioni di Buchignani, non opererò certo un ozioso rovesciamento, non enuncerò un risibile paradosso. Tenterò piuttosto una storicizzazione, sia pure a grandi linee. Fino all’Ottocento, o meglio fino agli ultimi decenni del Settecento, la nozione di stereotipo non esiste, non poteva esistere. Perché esso coincideva con la retorica, ovvero con le regole e gli istituti dell’arte letteraria nelle sue varie diramazioni. È soltanto con la rivoluzione romantica, e parzialmente con quella preromantica, che la messa in questione, spesso radicale, di tali regole e istituti li configura come stereotipi, sia o meno questo il termine utilizzato. Ma travolta, a metà del secolo, la gloriosa e dissennata esaltazione della libertà, i maggiori scrittori della seconda metà dell’Ottocento scoprono, sobriamente, spinozianamente, che la libertà è conoscenza e consapevolezza della necessità. Sul piano letterario, conoscenza, consapevolezza, esercizio degli stereotipi. Flaubert e Verga, due nomi per tutti. Non a caso, i più fini intenditori del fatto letterario si accorsero e dissero che Bouvard et Pecuchet è la grande, impegnativa, problematica eredità dell’Ottocento al Novecento. Quindi, i ragionamenti di Bottiroli, quelli di Siti, gli umori della ribalta mediatica cadono interamente di fronte a questa realtà, se la mia analisi è corretta. Nella prosa di Buchignani gli stereotipi regnano, non rigidi e non vaghi, non intellettuali e non ideologici, non discontinui e non sintomatici. Quelle coppie, così frequenti, di aggettivi, di sostantivi, di verbi, i cui componenti non sono affatto “divaricati” e invece convergenti e solidali, nuzialmente complici, lietamente prevedibili, sono compagni e sentinelle, pronti a correre e a soccorrere, anche se l’arma nemica può averli azzoppati, e hanno il nostro volto. Ma troppo lungo sarebbe addentrarci oltre, e non voglio neanche farlo; rimando il lettore a quello che è il suo compito: leggere. Dirò soltanto che, insieme con i nomi propri, gli stereotipi rappresentano una forma di resistenza, molto seria, nei confronti delle evanescenze della memoria, contro le illusorie, isteriche accensioni e disperazioni dei tanti neoromantici attuali.