I. La terzina dantesca
Verso principe (superbissimum, Dante lo chiama nel II libro del De Vulgari Eloquentia) l’endecasillabo attraversa tutta la letteratura italiana. Ma, per la Commedia, è meglio discorrerne solo dopo aver guardato all’unità prosodica fondamentale del poema, la terzina; un organismo che è di tre endecasillabi ma nasce intero da una intenzione e volontà ritmica dell’autore.
Nella Commedia i versi stanno in sequenze di tre, legati fra loro da tre rime: esso; strada; permesso; | cada; gelo; vada, (Purg., XX 123-129) e così via. Il primo verso di ogni terzina rima col terzo; il secondo col primo e col terzo della terzina successiva. Ogni capitolo, о canto, comincia con un verso che rima solo col terzo; e finisce con un verso isolato («rilevato», lo chiamarono gli antichi) che rima solo col terzultimo.
Che due terzine rimino fra loro a quel modo, per la maggior parte dei lettori non è una novità. Se hanno letto dei sonetti – e in Italia se ne sono scritti e letti sempre, da Jacopo da Lentini ad Andrea Zanzotto – si saranno accorti che gli ultimi sei versi, raggruppati in due terzine, possono essere qualche volta rimati in modo che il primo verso della prima terzina rimi col terzo e col quinto mentre il secondo col quarto e sesto. Un nodo che somiglia a quello della terzina di Dante. Ma è diverso proprio perché è un nodo, ossia stringe e conclude il sonetto. La terzina di Dante invece protende un verso – il secondo – che non ha pace finché non trova una sua rima oltre il terzo verso e così spinge avanti il processo sonoro fino a quando, con quell’ultimo verso isolato, lo arresta. Gianfranco Contini parlò di «allegro»1 musicale delle terzine, Altri può sentirvi invece un moto a scatti da orologio, un andirivieni da belva in gabbia о il cozzo di notturni vagoni ferroviari manovrati «a spinta».
Dante ha costruito una strofe di questo tipo sia perché voleva (l’aveva scritto nel Convivio) che la poesia in volgare avesse una consistenza altrettanto forte di quella in latino, raggiunta col legar sé con numero e con rime,2 sia perché il tre, numero di tanta importanza teologica, dialettica e magica, avrebbe dovuto dominare ogni cellula della sua impresa, dal numero delle cantiche a quello dei canti per ogni cantica e finalmente a quello dei versi in ogni terzina. È anche possibile (secondo l’ipotesi di M. Fubini)3 che la sequenza dei tre versi dovesse qualcosa alla concatenazione dei tre momenti del sillogismo, elemento essenziale della logica medievale che Dante praticava secondo la cultura del suo tempo.
II. Rapporto tra sintassi e metro
Una certa secchezza meccanica si avverte soprattutto nei primi canti dell’Inferno, dove il moto della sintassi non sempre si lega al metro. Poi, come se il poeta si venisse facendo la mano, il rapporto fra sintassi e terzine assume una varietà straordinaria di tensioni. Finché, nell’ultima parte del Purgatorio e nel Paradiso, – ma ormai come estrema lucidità e dominio intellettuale di una materia che in quella parte parrebbe imprendibile perché fatta solo di amore e luce – ricompare il rigore logico che nell’Inferno aveva potuto sembrare talvolta travolto dalla passione degli argomenti; ma ormai in terzine di cristallo incandescente. Un esempio, nelle pagine di M. Fubini,4 dal XXX del Purgatorio:
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;
onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d’una misura.
Non pur per ovra delle rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
ché nostre viste là non van vicine,
questi fu tal ne la sua vita nova
virtüalmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’elli ha più di buon vigor terrestro.
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo,
così tutta la gente che lì era,
volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera.
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma dì minor pena.
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
perch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.
D’altronde, si è scritto che nei momenti di maggiore solennità il metro di Dante «è un metro triplice, di tre terzine separate e congiunte»,5 quasi una proiezione allargata, pantografata, di ognuno dei versi della prima terzina matrice. Ma vedi invece le fratture del dialogo, l’inseguimento di battute frante di verso in verso, nell’episodio di Traiano e della vedova:
tanto ch’i’ torni»; e quella: «Segnor mio»,
come persona in cui dolor s’affretta,
«se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’io,
la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene,
a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?»;
Qual è insomma il punto, il luogo – bisognerebbe quasi dire: il campo di battaglia – che Dante si è scelto per costruire la scena della contraddizione vitale, dell’immenso teatro del mondo, che è il suo scopo? Il conflitto, più о meno teso, fra le intonazioni e le cadenze del linguaggio naturale e lo schema ritmico, è proprio di qualunque poeta, quando sceglie il discorso «regolato» in luogo di quello «non regolato» (o, meglio, sottomesso a regole altre, meno visibili ma non meno cogenti). Ma, nella Commedia, grandissima è la ricchezza dei movimenti prodotti nell’urto delle componenti (i versi di Dante In etterno verranno a li due cozzi, Inf., VII 55, dove i due cozzi sono quello della rima e quello della fine di terzina), e l’adeguamento fra il grado di concentrazione e rigidità dello schema metrico e quello di mobilità del processo narrativo, ragionativo о dialogato, è proprio reso possibile da quella concentrazione e rigidità, inconfrontabile con l’ottava dei poemi narrativi. Questa svolge una articolazione ritmica per sei versi, per chiudersi con la pausa e il sigillo dei due ultimi versi rimati fra loro, vero riposo del respiro e della lena. La terzina invece è un ingranaggio che non si arresta, una ruota dentata, una «trasmissione». «Il carattere della terzina di Dante è che essa chiude e apre nello stesso tempo, e quello che noi sentiamo è questo continuo urgere»: ancora M. Fubini.6 E si potrebbe parlare, per il processo metrico, della composizione dolorosa e gioiosa di due forze, l’una del tempo che come la via lunga ne sospigne (Inf., IV 22), l’altra dell’eterno che tutto circunscrive (Par., XIV 30), composte all’infinito nell’adempimento della mente fissa, immobile (Par., XXXIII 98).
La catena delle rime procede per scatti successivi sino alla fine del canto e induce nel lettore una attesa contraddittoria: quella del moto avanzato e quella delle pause che le rime ribadiscono. Il senso di quel moto sarebbe dunque una alternanza costante di adempimenti e di frustrazioni. Una costanza che induce solennità e gravità, correggendo anche le parti più concitate о fluide, che talvolta il poeta subisce come un metronomo, e ricerca altre volte per effetti di fasto e simmetria. Ma, mentre la impiega, la oltrepassa e contesta. La mobilità della melodia, sottile о immensa, non si separa da un accompagnamento; non un «pedale» ma una armonizzazione da «basso continuo»: quello della forma-terzina. «Come Machiavelli per dilemmi, Dante pensa per terzine» ha scritto E. Pasquini. E ancora: «La terzina seconda ogni varietà ritmica, ora assestandosi in una calcolata simmetria (per es. nelle coppie di certe similitudini, una terzina per il “come” e una per il “così”) ora sciogliendosi in mobili segmenti che disintegrano lo schema ternario (l’arringa di Capaneo, l’invettiva di San Pietro, la sequenza iniziale di Par., XI 4) ora distribuendosi in scansioni logiche…».7 Il medesimo studioso rileva – ed è notazione molto importante – che il metro della Commedia resta chiuso piuttosto che aperto e che il nesso о incatenamento, dovuto alla rima, «del secondo verso col primo della terzina successiva è meno avvertibile della corrispondenza fra respiro sintattico e respiro metrico».8 Ossia, che la pausa indotta dalla fine di ogni terzina è più forte dell’effetto di continuità dovuto al passaggio da ogni secondo verso al quarto successivo. Si è calcolato infatti che, nella Commedia, solo un verso su sette non coincide con una pausa grammaticale; e che, dei 3 422 periodi che la compongono, solo 208 non terminano se stessi о parte intera di sé col metro. Se poi si aggiunge che i periodi la cui lunghezza è pari a quella della terzina sono 2 152, ossia il 45,68 per cento delle 7 411 terzine, ne viene che il lettore è indotto ad attendersi che dopo i primi due versi della terzina ce ne sia un terzo a concludere il periodo con una pausa invece di aprirsi alla prosecuzione del medesimo periodo nella terzina successiva. Nella sequenza АВА BCB, insomma, il nesso A1-A2 è stabilito prima che si costituisca quello B1-B2; e, quasi nella metà dei casi, quel nesso è sancito dalla pausa finale del periodo. Di qui il senso che modulo primario e fondamentale, pietra di costruzione, sia la terzina, non una sua parte о una sequenza. Una prova supplementare che la terzina è uno schema compatto, resistente alla lunghezza dei periodi che la travalicano, è che Dante sembra non avere dei periodi che comincino col terzo verso di una terzina per concludersi con un punto fermo alla fine del secondo verso della terzina successiva; perché in questo caso (immaginario: ab[A BC]b) si avrebbe un periodo di tre versi non rimati fra loro, in contraddizione con la forma dominante. Invece il primo e terzo verso stringono fra di loro il secondo (ma non sì che le sue sillabe finali non paiano chiedere l’appagamento di una rima ulteriore).
III. La rima
La rima dunque, poi che la terzina si presenta come catena di rime. Se ci si vuol rendere conto del perché la rima sia uno degli strumenti espressivi radicali della Commedia, bisogna dire per prima cosa che c’è una differenza profonda fra le rime delle tre cantiche e quelle delle poesie di Dante che si leggono nelle cosiddette Rime, precedenti cronologicamente la Commedia. Se ne ricava la certezza che Dante condusse la sua opera con la chiara coscienza di avventurarsi in un genere senza precedenti (L’acqua ch’io prendo già mai non si corse, Par., II 7), che lo impegnava a nuovi modi di invenzione espressiva.
Per il Dante della Vita Nuova «rimare» vuol dire scrivere versi in volgare; nel Convivio (IV, II 12) si legge invece che, in senso stretto, rima è quella concordanza che ne l’ultima e penultima sillaba far si suole mentre, in senso largo, equivale a tutto quel parlare che ’n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade, cioè ad ogni specie di poesia: e infatti anche l’Eneide sarà chiamata rima da Virgilio (Inf., XIII 48) e rime persino i canti degli uccelli (Purg., XXVIII 18). Oggi, con maggiore precisione, si dice che una rima è una «analogia di terminazione fra parole poste a breve distanza (specialmente se collocate alla fine di versi consecutivi о vicini) determinata dalla condizione delle sillabe a partire dalla vocale tonica».9 Le rime sono insomma un eminente modo di organizzazione del ritmo, tanto più attivo quanto più siano rilevanti. Una rima sarà detta tanto più ricca quanto maggiore sia l’estensione della identità dei suoni. Così, la rima cuore: amore sarà più povera della rima sciocca: bocca; sebbene la ricchezza о povertà della rima derivino anche dal grado di consuetudine о di insolito, di ovvio о di inatteso. Cuore e amore sono, come si dice, rime logore oltre che povere ma possono, proprio per questo, effondere il profumo della loro povertà, come ha capito benissimo più di un poeta moderno. E poi acceleratore: amore sono rime povere, ma accostano due aree semantiche così distanti fra loro che ne deriva un effetto, talora con intento comico, di dislivello e novità inattesi.
In generale, о nella maggior parte dei casi, о dove si voglia accentuare, anche polemicamente, una tonalità popolaresca о dimessa, contro ogni squisitezza о ricercatezza, tale effetto viene dalle cosiddette rime grammaticali, ossia rime fra parole appartenenti ad una stessa categoria di parti del discorso. Esse forni-scono un minimo di dislivello e di novità in confronto a quelle non-grammaticali: l’informazione recata dalla rima vero: nero (due aggettivi) è meno ricca di quella nero: pero dove un aggettivo rima con un sostantivo. Analogamente, presentano maggiore complessità e varietà situazioni in cui un verbo rima con un aggettivo (piace: vivace) oppure un sostantivo con un avverbio (nome: come). E anche meno inattese, anzi quasi inavvertite о ridotte a mero sottofondo sonoro sono d’altro lato le cosiddette rime desinenziali: andavo: cantavo; avendo: ricevendo.
Ebbene, nella Commedia il numero delle rime desinenziali è molto basso, tanto più se confrontato a quello dei versi della Vita Nuova: poco più di un migliaio di parole-rima desinenziali sui 14 253 versi del poema. E siccome una delle rime desinenziali più frequenti è quella degli infiniti della prima coniugazione (in –are) e dei participi in –ato, –ata, –ate, –ari, ecco che in tutta la Commedia trovi solo trentasei parole-rima in –are e per di più solo trenta sono verbali. E che di quelle trentasei solo tre in –are siano nel Paradiso è prova ulteriore di una ricerca stilistica che procede dal più al meno semplice, da una tonalità (quella dell’Inferno) che si serve anche di componenti semantiche «facili» e narrative, a una più tesa e complessa. E lo stesso si rileva per i participi e i gerundi. Un esempio di rima povera:
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.
«La mente tua conservi quel eh’ udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,
tal divenn’io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
[…]
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;
così la donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver’ la plaga
sotto la quale il sol mostra men fretta:
sì che, veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disiando
altro vorria, e sperando s’appaga.
Per quanto è dei nomi di luogo (cui se ne associano di astronomici) l’esposizione in rima ha esempi memorabili, anche perché gli spiriti dei defunti per morte violenta hanno come impresso nella mente il luogo e il punto della propria fine. Ecco, in rima, il Verde e Benevento per Manfredi, il Casentino e l’Archiano per Bonconte, la Mira e Oriaco per Iacopo del Cassero, la Maremma per la Pia. E la processione dell’itinerario geografico, nell’ultimo viaggio di Ulisse, è scandita dalle rime (Gaeta, Spagna, l’isola d’i Sardi, Sibilla, Setta) anche in risposta alla domanda del dove della morte (dove, per lui, perduto a morir gissi, Inf., XXVI 84). Delle 204 parole che nella Commedia appaiono una sola volta si è calcolato che ben 173 ricorrono in rima. La ricerca della rima induce il poeta in aree insolite, in rare о preziose zone del linguaggio; la rima ha sempre una funzione privilegiata, un rilievo singolare, uno spicco. Né può omettersi che (pensava Contini)10 quella ricerca sia stata anche dovuta all’intento di favorire la memorabilità del testo, aiutata dalla intensità di una insolita parola in rima. Tale memorabilità è attestata, nei secoli, sia dal repertorio di versi divenuti proverbiali sia dalla pratica utilità dei rimari della Commedia. La ricerca della memorabilità è legata d’altronde al gusto dell’età gotica per gli aforismi e le sentenze; queste hanno spesso come loro luogo il terzo verso della terzina, a suggello e a periodico rinvio al sapere comune di una larga udienza di ascoltatori e lettori.
Naturalmente la rima subisce (o induce) effetti suoi in relazione alla organizzazione sintattica e alle figure di discorso, prima fra tutte la ripetizione. La parola in rima può echeggiare all’interno dei versi prossimi о venir richiamata da omofonie e allitterazioni: l’incupirsi delie vocali toniche in «u» nell’ultima parte del discorso di Ulisse, Inf., XXVI 131-142 (dodici in dodici versi: lume; luna; bruna; veduta; alcuna; turbo; tutte; suso; giù; altrui; fu; richiuso) si fa anche più denso per essere in rima cinque di quelle, per di più richiamandosi una rima al primo accento tonico del verso (lo lume; la luna) e, nei tre versi conclusivi, ripercuotendosi quella vocale dalla rima alla cesura (suso; giù) e dalla cesura alla rima (giù; richiuso).
Se massimo è il rilievo della rima quando conclude l’enunciato, quando essa è alla fine di un verso che per sintassi si inarca sul verso successivo scatta un contrasto fra le sillabe privilegiate dalla rima (quindi evidenziate) e la loro fluenza, che travalica la pausa di fine verso. Ad esempio:
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
dai denti morsi della morte avante
che fosser da l’umana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l’altre e seguir tutte quante.
IV. Il ritmo degli endecasillabi
Parlare di metrica dantesca, ormai sarà chiaro, equivale a parlare di qualcosa che è anzitutto ritmo ossia orchestrazione, delle rime, delle armonie, simmetrie, sequenze verbali, cadenze, accenti… Un complesso di rapporti che non si lascia ridurre a schemi. Due proverbiali endecasillabi composti di puri giambi (E càddi còme còrpo mòrto càde, Inf., V 142; di quà, di là, di giù, di sù lì ména, Inf., V 43), pur con identico ritmo di accenti hanno un diversissimo timbro espressivo, perché i cinque bisillabi del primo si manifestano dotati di uno spessore sonoro che i nove monosillabi dei secondo non vogliono avere, e perché gli avverbi di quest’ultimo, indicativi, divergenti e veloci, sillabati dai quattro di, sono un organismo – come si dice – fonosimbolico diversissimo dalla pesantezza dei tre gruppi consonantici del primo verso, delle tre consecutive toniche in «o» e della allitterazione caddi: cade; per non dire che quest’ultimo verso riceve una maggiore sonorità dall’essere l’ultimo di un canto e quindi «rilevato». In realtà, queste suggestioni di suono sono suggestioni di senso. Il simbolismo dei suoni certamente esiste ma va sempre rapportato ai significati. Il celebre
Trivia ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
«Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
Ne l’ora che comincia i tristi lai
Ne l’ora che non può ’l calor dïurno
Purg., XXI 82
Purg., IX 13
Purg., XIX 1
li occhi svegliati rivolgendo in giro
Quali si stanno ruminando manse
Quali fanciulli, vergognando, muti
Purg., IX 35
Purg., XXVII 76
Purg., XXXI 64
Talvolta quei ritorni ritmici e sintattici si giovano di echi comparativi:
E come a messagger che porta ulivo
E come augelli surti di rivera
E come fantolin che ’nver’ la mamma
E come a lume acuto si dissonna
Purg., II 70
Par., XVIII 73
Par., XXIII 121
Par., XXVI 70
L’endecasillabo che diciamo giambico (Nel mèz | zo dél | cammìn | di nò | stra vì | ta) ha un movimento uniforme, indotto dalla ripetizione, per cinque volte, di una vocale atona e di una accentata; mentre l’endecasillabo con gli accenti sulla quarta, settima e decima sillaba è spesso usato da Dante per suggerire moto о violenza, azione veloce, caduta, rumori, grida. Eccone alcuni esempi:
Così gridai con la faccia levata
Così parlando il percosse un demonio
pur come quella cui vento affatica
ahi dura terra, perché non t’apristi?
che con la coda percuote la gente
Inf., XVI 76
Inf., XVIII 64
Inf., XXVI 87
Inf., XXXIII 66
Purg., IX 6
Negli endecasillabi danteschi è frequentissimo l’intento di staccare parola da parola, non di fonderle fra loro e fluidificarle, come sarà invece in Petrarca e in tutta la sua tradizione (che da allora in Italia fu prevalente). Per questo non sempre è possibile determinare dove cada la cesura interna. Un verso come Non per far, ma per non fare ho perduto, Purg., VII 25 può esser letto con una pausa di cesura dopo l’accento di quarta (non per far ma | per non fare ho perduto) о dopo l’accento di sesta (Non per far ma per non | fare ho perduto). Nel primo caso il verso è considerato «di settima» con gli accenti forti sulla la, 4a, 7a, 10a; nel secondo invece è «di sesta», con gli accenti forti sulla 2a, 4a, 6a, 10a. Si aggiunga la possibilità di due pause, la prima dopo far e la seconda dopo fare. In questo secondo caso, venendo a mancare la sinalèfe tra fare e ho, il verso si fa eccedente, acquista una sillaba in più. G. Contini14 ha rilevato, a questo proposito, energiche asprezze e sprezzature, che suggeriscono un intento di declamazione poco canora e molto drammatica: Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura, Purg., VI 107 ha una evidente cesura dopo Filippeschi ma una non meno evidente sinalèfe fra –eschi e uom, scavalcando virgola e cesura, sì che il verso, se vuol restare nell’ordine endecasillabico, dovrebbe esser letto Monàld’e Filippésch’om | sànza cùra.
Però, mentre non fa dubbio che Petrarca conti sulla tensione indotta da dialèfi e sinalèfi nel passo equanime del suo verso, nella Commedia prevale invece – ma non sempre e perciò tanto più significante – una dizione, per così dire, smarginata e franta, dove le tensioni fra le giaciture trascendono a vere e proprie colluttazioni, a «vie di fatto». Si può essere autorizzati a ritenere che l’orecchio metrico dell’Alighieri (e quello di chi, per avventura, lo avesse udito declamare) avrebbe posto – incurante dei limiti del verso – una dura cesura per sottolineare l’accorata insolenza contro Alberto d’Austria, incurante dei diritti imperiali in Italia: Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, | Monaldi e Filippeschi, || uom sanza cura: | color già tristi, e questi con sospetti!
Di quanto si dice sono prova anche i versi che si chiudono, come per un colpo di timpano, con accenti di 9a e di 10a, quali il proverbiale dicono e odono e poi son giù volte (Inf., V 15) о il memorabile che serra fra le sue ganasce l’episodio di Ugolino che furo a l’osso, come d’un can, forti (Inf., XXXIII 78) dove la scansione è data dalla interpunzione in cesura (all’osso, | come) aperta sulla fulminea incidentale, e sull’isolamento – già sopra segnalato – delle sillabe responsabili di rima (e qui anche conclusive di terzina).
Altrettanto rilevante è l’alternanza di polisillabi e monosillabi о parole tronche (ad esempio: ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda, Par., III 49) dove le cinque sillabe di riconoscerai, situate fra monosillabi, prendono due accenti, l’uno principale e l’altro secondario (quando non si voglia marcare la sillaba di apertura e leggere Mà-ri | conòsce | rài) seguite dalla percussione ch’i’ son, con un passaggio (che è anche da una ad altra terzina) dalla lentezza dell’agnizione (col verbo al futuro) allo scatto del presente gioioso (beata sono si dice poco dopo, al v. 51, come bella poco prima, al v. 48, che in cesura echeggiava il verbo del riconoscimento: non mi ti celerà l’esser più bella, | ma riconoscerài…).
La mente ritmica punta ora sul metronomo dei monosillabi (né sa né può chi di là sù discende, Par., I 6) ora sui bisillabi piani (come per acqua cupa cosa grave, Par., III 123), ma soprattutto su di una varietà ininterrotta di soluzioni: è stato detto, ed è vero, che all’interno della unità fondamentale, che è la terzina, l’endecasillabo dantesco è anch’esso una unità, spesso, ma non sempre, autosufficiente entro le sue cadenze, in particolare dove assume, dice Contini, un suo «piglio legislativo».15 Non di rado il periodo, con la sua intonazione, scavalca il verso come il verso fa con la terzina.
La mente metrica dell’Alighieri – terzina, verso, rima, ritmo – è la forma della vita di tutta una grande età della cultura occidentale prima che sua propria. Può diventare quella della nostra vita, ma a nostro rischio e pericolo. Metti una mano nella sua ruota e ti prende cuore e cervello. E un modo di accogliere e selezionare l’esperienza dei singoli e del genere umano, riproporla come possibilità, e quindi come dover essere, a tutti. In questo suo carattere è una auctoritas imperativa (tratto che ha in comune con altre massime opere dell’uomo) che ci spinge a mettere in gioco le nostre persuasioni, le debolezze, le esitazioni. La forma metrica, come tutti gli altri aspetti della Commedia, non chiede nulla: esige. Se non vogliamo accettare la sua salutifera schiavitù, non ci trattiene. La Commedia ci lascia andare, si limita a guardarci da lontano: aspetta.
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
1 G. Contini, Un’interpretazione di Dante, ora in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1965), Torino, Einaudi, 1970. Il riferimento è a p. 369 dell’edizione citata.
2 Conv., I, XIII 6. Si utilizza qui l’edizione, a cura di С. Vasoli, D. Alighieri, Opere minori, tomo I, parte II, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988.
3 M. Fubini, Metrica e poesia. Lezioni sulle forme metriche italiane, I. Dal Duecento al Petrarca, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 197 sgg.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 203.
6 Ivi, p. 213.
7 Nell’Introduzione a D. Alighieri, La Соmmedia, a cura di E. Pasquini e A. Quaglio, Milano, Garzanti, 1989, pp. CXL-CXLI.
8 Ivi, p. CXLI.
9 G. Devoto, G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, s.v. rima.
10 G. Contini, Un’interpretazione di Dante cit., pp. 381-382.
11 G.L. Beccaria, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, D’Annunzio, Torino, Einaudi, 1975. Gli esempi provengono dalle pp. 121-123.
12 G. Contini, Un’interpretazione di Dante cit., rispettivamente alle pp. 379 e 382.
13 Ivi, p. 381.
14 Ivi, p. 396.
15 Ivi, p. 376.