
La scienza al servizio della tecnologia, direttamente o indirettamente che sia, partecipa di una logica pervasiva di guerra; a prescindere dai regimi politici, come si è visto per vent’anni in Medio Oriente e ora in Ucraina. È cominciato con Hiroshima e Nagasaki. Non lo si può nascondere, c’è stata una condizione dell’umano e della stessa natura prima e dopo l’esperimento nucleare. I corpi dissolti o devastati dall’interno, la natura annichilita e contaminata per secoli. Non sarebbe potuto accadere prima. «Quanto più perfetta è la tecnologia, tanto maggiori, mostruosi saranno i disastri: può sembrare strano, ma è così».
Non solo di questo raccontano i libri di Svetlana Aleksievič, con le voci delle «piccole grandi persone» cercate una ad una lungo le vie di quello che era stato l’impero sovietico. Ad essere indagato, minutamente, una voce dopo l’altra, in un epos scandito in cinque sei affreschi, è il campo umano generato dalla rivoluzione, tra l’apogeo della Grande guerra patriottica, la caduta rovinosa dello stato sovietico e l’emergere di un’altra forma di potere prossima a quella di prima: donne e bambini nella morsa della guerra mondiale, ragazzi nell’inferno dell’Afghanistan, la morte nucleare, le esistenze travolte dal fallito progetto della genesi dell’homo sovieticus.
Ma non di cronaca si tratta, né soltanto di come sono andate le cose a generazioni trasformate in campo sperimentale per l’idea comunista o di come si è consumato un mito. Bensì della ricerca della verità sull’essere umano, riflessa nello spaccato di normali esistenze. A occupare per intero la scrittrice è ciò che le persone hanno intimamente vissuto in determinate circostanze. «Non ciò che è stato, ma ciò che ne è stato del piccolo essere umano scaraventato negli epici abissi di un evento colossale». La grande storia per lei è il succedersi caotico dei fatti per come le persone coinvolte li hanno visti e vissuti.
C’è prossimità con la ricerca formale perseguita da Šalamov. Né l’uno né l’altra hanno inteso fissare gli avvenimenti come si sono dati, tanto meno ricrearli in un’opera d’immaginazione, ma per come si sono iscritti indelebilmente nell’anima del testimone. Tuttavia non è stato lo stesso per la generazione dell’uno e dell’altra. Aleksievič ha vissuto soltanto in piccola parte i brani di storia di cui dà conto. Non nella sua anima era avvenuta l’assimilazione immediata e la rielaborazione di quanto vissuto in guerra o a Černobil’, né aveva potuto dare se stessa alla costruzione del gigantesco continente socialista in via di sparizione.
Perché i fatti della storia prendessero la forma del volto umano, entro la quale raccontare anche di sé, Aleksievič ha dovuto apprendere l’arte difficile di «“leggere” la voce dell’altro», traendo da ogni confessione un’immagine della realtà piuttosto che un documento per la storia. Le è riuscito. Il lettore della sua opera – vasta, polifonica, su avvenimenti di grande portata storica – è preso in un fluire continuo di voci distinte accordate da un orecchio ben temperato, in tonalità diverse: epica tragica cupa triste desolata, con inattese punte luminose: richiami dolenti all’immortale sentimento della vita.
Singolare figura di scrittrice: nella misura in cui i suoi personaggi sono persone reali che narrano di ciò che hanno vissuto – nient’altro che voci, confessioni, testimonianze e documenti dell’anima delle persone –, ella come autrice deve ritrarsi alla loro ombra. La sua voce risuona con le loro a prescindere dalla parte che interpretano. Ogni storia è già data, può essere soltanto messa in consonanza con altre finché prenda forma la rappresentazione corale di una vicenda, che non dipende da una immaginazione costruttiva, ma dall’attesa paziente del «momento in cui la vita, la semplice vita si trasforma in letteratura».
A Simone Weil nel 1943 non era dato sapere che sul fronte russo il suo «Progetto d’infermiere di prima linea» era informalmente in atto mentre lei lo proponeva, vanamente, al governo in esilio. Fatto è che, diversamente dalla Francia abbandonata al nemico, ad est la Patria era difesa metro per metro anche da giovanissime volontarie, combattenti con tutta l’eccezione dello spirito femminile. Capaci di far tacere con un canto le armi da entrambi le parti per soccorrere un ferito nella terra di nessuno, o di dare un pezzo di pane a un ragazzo tedesco prigioniero, felici di non potere odiare.
La guerra al femminile e la guerra vissuta nel mondo segreto dei bambini. Ragazze al fronte e madri nelle retrovie. Più fortunate le prime; alle seconde toccò l’ingiuria di essere alla mercé della violenza pura, su loro, sui figli, sui luoghi. Le loro memorie si ergono come monumenti all’indicibile, eppure grate che ci sia infine qualcuno disposto ad accoglierle: «Queste cose vorrei dirle». I loro mariti si opponevano al ricordo di un passato da cui erano usciti vivi e vittoriosi; ma loro avevano atteso quella donna sensibile disposta ad ascoltarle fino all’ultima parola, a porre in salvo l’indicibile.
Non lasciano scampo i racconti degli Ultimi testimoni, bambini sopravvissuti all’onda stupefacente che poneva fine nel modo più brutale alla loro infanzia: «Giocavamo ai margini della foresta. E poi il terrore si è abbattuto su di noi» Transitati dalla pace alla guerra come in sogno o per un gioco, improvvisamente privati degli affetti, affamati, dispersi, spettatori di infamie, vittime di violenze gratuite, destinati a restare con un desiderio d’infanzia inappagabile. «Quando abbiamo sentito pronunciare la parola “Vittoria!” eravamo nel prato a raccogliere l’acetosella. Tutti noi bambini ci siamo presi per mano e siamo corsi al villaggio…».
Quanto più orrenda appare la guerra tutta al maschile dei ragazzi mandati in Afghanistan e più tardi in Cecenia (alle donne che andarono fu riservato dileggio e violenza). Non più difensori della propria terra, ma esecutori del sacro dovere internazionalista di aiutare il popolo afghano a costruire una società socialista felice. Non più amati come il soldato del 1945. Non meraviglia che ne siano rimasti spezzati dentro, indifferenti alla morte come alla vita, abituati oramai a risolvere ogni cosa con la forza: «Ha ammazzato un uomo» – dice una madre del figlio – «con la mia mannaietta da cucina… E la mattina dopo l’ha rimessa al suo posto nell’armadietto delle stoviglie… Come un cucchiaio o una forchetta qualsiasi…».
«Una guerra criminale tenuta nascosta per dieci anni al proprio popolo», di questo si è trattato alla svolta della vicenda sovietica: la grande menzogna su Kabul aggiunta alle minute menzogne sparse intorno a Černobil’. «L’insondabile magia nera delle sublimi menzogne» non ha retto il confronto con la realtà. Per l’Impero è stato l’inizio della fine, per una miriade di persone, che sognavano il cielo in terra, l’insopportabile presa d’atto che non sarebbe mai arrivato. Anche di loro Aleksievič ha registrato a lungo le voci per fare un po’ di luce intorno a «un mistero che inquieta: darebbero l’ultimo pezzo di pane, la vita stessa, purché si rendesse loro la fede».
Passaggio impossibile per chi dall’idea si era lasciato totalmente penetrare:
Un’idea tanatologica ha legato tra loro le generazioni della rivoluzione, delle repressioni, del disgelo, della «stagnazione» e quella di quanti non hanno retto al suo fallimento. Sono storie di suicidi, tentati o riusciti, quelle narrate in Incantati dalla morte, il cuore oscuro dell’opera, un libro che «grida, urla, piange… Non un coro, ma singole voci solitarie… Ognuna con un grido diverso… Ognuna con un suo segreto». Un libro che fa paura: «Avrei preferito non sapere sul nostro conto tutto ciò che vi è raccolto rivelandosi al nostro sguardo». Ma come non interrogarsi su «quali mostri sia ancora capace di generare lo spirito umano assillato dal sogno del paradiso terrestre»?
L’ultimo movimento di questa immensa sinfonia narra del venir meno improvviso di un’utopia perseguita con l’incrollabilità della fede, per un rovesciamento subitaneo che trasformava il negativo in positivo, ciò che era stato creduto il male: «Insegnavamo ai nostri figli che commerciare è ignobile e che la felicità non risiede nel denaro» – in un bene da perseguire: «Commerciate, arricchitevi!» D’un tratto ci si trovava a vivere in un mondo in cui «le cose piccole avevano preso il posto di quelle grandi», in cui lo spirito individualistico aveva cancellato il sogno di una cosa difficile persino da immaginare: «Rifare l’uomo “vecchio”, l’antico Adamo».
L’agognata libertà dal bisogno si manifesta così sotto vesti impreviste:
Il comunismo sovietico ha perso, ma lo spirito che lo aveva impregnato ha riafferrato in fretta la nuova esistenza, come il morto afferra il vivo:
A commento di ciò che il presente consegna, Aleksievič ricorda il verdetto del Grande Inquisitore: «troppo impervio il cammino per raggiungere la libertà, meglio rimetterla a qualcuno dinnanzi a cui inchinarsi». Con ciò che ne consegue: il familiare regno della morte torna ad allungare la sua ombra. Altri ragazzi, mandati a rimettere insieme pezzi di un impero dissolto, tornano a casa nelle bare di zinco. Di nuovo l’osceno di una guerra di potenza, senza neppure lo straccio del dovere internazionalista. Si rimetterà in viaggio la scrittrice russofona, di madre ucraina e padre bielorusso, in cerca della verità su una guerra fratricida o sentirà questa volta davvero esaurite le riserve di difesa fisiche e morali?
Firenze, aprile 2022
S. Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, 1985 (Bompiani 2005).
S. Aleksievič, Gli ultimi testimoni, 1985 (Bompiani 2016).
S. Aleksievič, Ragazzi di zinco, 1992 (Edizioni e/o 2003).
S. Aleksievič, Incantati dalla morte, 1993 (Edizioni e/o 2005).
S. Aleksievič, Preghiera per Černobil’, 1997 (Edizioni e/o 2005).
S. Aleksievič, Tempo di seconda mano, 2013 (Bompiani 2014).
Le traduzioni sono di Sergio Rapetti e Nadia Cicognini
L’intera opera, eccetto Incantati dalla morte assorbito in Tempo di seconda mano, è ora raccolta in due volumi a cura di Sergio Rapetti col titolo Opere (Bompiani 2022).
Si veda inoltre di lei Il male ha molti volti. L’eredità di Černobil, con contributi di Goffredo Fofi, Alberto Franchi, Sergio Rapetti.