
Le foto scattate da Richard Avedon riassumono in poche battute di una crudeltà e desolazione tra bibliche e beckettiane la lotta senza speranza di un vecchio: apprensione, paura, smarrimento, resa finale. Un soggetto di solito scrupolosamente evitato dall’obiettivo fotografico: dico la morte per malattia, la morte comune, che tocca alla stragrande maggioranza degli uomini, mentre le morti per incidente, delitto, catastrofe, guerra, sono invece golosamente fruite, spettacolo forte, piatto scelto, drink robusto del nostro quotidiano menu.
Il morto, infine, lo si accetta: una cosa immobile, muta, un oggetto da sistemare secondo tempi e modi prestabiliti. È il morente che non si sopporta, la malattia mortale, questo specchio del comune destino, ultimo atto accelerato di quel normale processo di invecchiamento che, a dispetto di ogni autoinganno, non possiamo far a meno di percepire nel progressivo deterioramento delle nostre funzioni e facoltà, nel raggelamento di affetti e rapporti, nella rinuncia a progetti e speranze.
Pure, quegli occhi sbarrati o contratti, quella smorfia della bocca non esprimono solo sofferenza e paura, non implorano solo aiuto, conforto, protezione. Chi abbia assistito un familiare malato di cancro ha conosciuto quella strana sensazione di essere talvolta sulla soglia di una rivelazione sconvolgente, come se il morente tentasse di comunicarci una specie di segreto, di arcana verità. Sono fenomeni di autosuggestione, proiezioni dei nostri timori, desideri, rimorsi. In realtà il morente ci comunica qualcosa di molto più semplice e prezioso. Nelle tregue concesse dalla sofferenza fisica, dalla prostrazione e dall’ottundimento indotto dai farmaci, alla memoria del malato affiorano ricordi sepolti da decenni, fatti e persone di cui non sapevamo nulla o che ora vengono visti e giudicati in modo del tutto nuovo. In certi momenti abbiamo l’impressione di trovarci davanti a uno sconosciuto. E anche accade, con profonda commozione, di ricevere finalmente qualcosa che ci era sempre mancato e che aveva dolorosamente limitato il nostro rapporto: quasi infallibilmente qualcosa della sua infanzia e giovinezza, quell’età che l’adulto aveva soppresso. Scorgiamo, in filigrana, o come se un palinsesto restituisse la scrittura cancellata, la possibilità di una vita diversa. Quasi la concreta dimostrazione che per vivere una vita bisogna soffocarne delle altre, recidere legami, abolire impulsi e desideri. Dimenticare tante cose. Mentire. Corazzarsi.
Il dato di più immediata evidenza in queste immagini è il rapporto tra volto e abito. La lotta sostenuta contro la malattia è anche una lotta per salvare la decenza, il contegno, l’identità sociale. Il corpo vorrebbe torcersi, piangere, abbandonarsi: la perfetta scriminatura dei capelli, il nodo della cravatta, i polsini impongono la repressione. La contraddizione tra la paura di morire e la paura di lasciarsi andare, di perdere la propria figura, si mostra qui in tutta la sua tragica intensità. È questo, prima di ogni altra considerazione, il senso della critica sociale implicita nello stile di Avedon. Un senso che trovo confermato dall’insieme dei suoi Portraits da cui abbiamo preso queste immagini, che significativamente concludono la raccolta. Il volto tormentato, sconvolto, implorante di Jacob Israel Avedon è paradossalmente quasi l’unico vivo rispetto alla lunga galleria di celebrità che lo precedono. Attrici e chirurghi, banchieri e scrittori, pittori e mercanti d’arte, politicanti, stilisti, editori, psichiatri, pianisti, avvocati, architetti, scienziati, ecclesiastici appaiono tutti fissati in una loro posa studiata, dura o ironica o soddisfatta, come bloccati, imbalsamati nella loro figura sociale. Molti hanno coscienza del prezzo del successo, e non mancano i segni della delusione, l’amarezza, il disprezzo. Ma sembrerebbe che solo la morte sia capace di liberare qualcosa che assomigli a una ribellione, di ritrovare un volto dietro la maschera.
[«Tempo illustrato», anno 1, n. 1, dicembre 1983, pp. 109 e 114; poi in «l’Unità – Libri», 6 febbraio 1995, p. 7 (in occasione di una mostra di Richard Avedon al Palazzo Reale di Milano)]