Un libro di Bellocchio
Luca Lenzini

Per ricordare Piergiorgio Bellocchio, scomparso il 18 aprile, «L’ospite ingrato» pubblica una serie di interventi sulla sua figura e la sua opera, così come una breve scelta di suoi testi poco noti.

I.

Molti anni sono passati da quando, nel 1984, «quaderni piacentini» cessò le pubblicazioni, mezzo secolo dal momento della sua maggiore diffusione, quel Sessantotto di cui fu parte attiva e di cui anticipò non pochi temi culturali e politici. E quali anni, ci separano da quel tempo: tali da cambiare lo scenario (sociale, culturale, economico) così in profondità, nel nostro paese come altrove, al punto che non solo le persone ma tutto un insieme di categorie, nozioni acquisite, schemi e elaborazioni di ordine intellettuale sembrano ormai non tanto invecchiati quanto irriconoscibili, come quei convitati alla matinée dei Guermantes di cui parla l’ultimo tornante della Recherche; eppure, ancora oggi, se qualcuno nomina Bellocchio non c’è scampo, è immediata l’associazione con i «quaderni piacentini».

Perché stupirsi, si dirà. La rivista non l’ha fondata e diretta lui, insieme a Grazia Cherchi? Non ne è indiscutibile l’importanza per la formazione della “nuova sinistra”, e più in generale per il rinnovamento della cultura italiana in quegli anni? E non lo è anche la sua indipendenza da partiti e conventicole, notabile eccezione tra le pubblicazioni italiane di cultura? Non vi hanno collaborato, infine, i migliori ingegni del periodo?… Tutto vero, certo: il “mito” dei «Quaderni» ha solide fondamenta, e solo chi è prevenuto può disconoscerlo; e nondimeno, quando l’intervistatore o il recensore di Bellocchio attaccano la solfa, ogni volta con la storia della rivista, con le rievocazioni di maniera, gli episodi e le polemiche e gli slogan del tempo che fu, è difficile ignorare che così facendo si prepara il lettore a consumare un “personaggio”, e che a sua volta questa operazione, con l’annesso e comodo (ora) elogio dell'”eretico”, dell'”irregolare” e “anticonformista”, è la premessa per falsare, o meglio ridurre e infine addomesticare il nucleo più vivo e urticante della scrittura di Bellocchio, la cui ironia non vuol essere né un gioco intellettuale, né un esercizio di disincanto per cinici a corto di battute, bensì una forma di denuncia e insieme un tratto intrinseco alla scrittura. Sì, perché il radicalismo di Bellocchio ha uno spessore e un albero genealogico le cui matrici si situano ben oltre il periodo in cui si è soliti fissarne i contorni. Addomesticare, infine: perché lo storicismo di stampo ebdomadario e la seduzione del ritratto (e lo stessa generica insistenza sui «quaderni»), con quel tanto di stereotipato e seriale che è di certe presentazioni, sono come i jingles che accompagnano la promozione del prodotto, sortilegio fasullo e conciliante, complice dell’oblio. Ma i libri di Bellocchio hanno un modo tutto loro di tirar dritto, e di — si può dire? — desintonizzarsi dalle facili musiche dell’industria culturale; sono consapevoli che, per questo, c’è un prezzo da pagare, una specie di tacito esilio, ma è per l’appunto dei modi dell’oblio indotto e coltivato, della faconda dimenticanza e delle sue mirate rimozioni che essi vogliono parlarci. E se riescono a farlo, sarà forse perché, quanto più sono composti di frammenti legati al tempo e rivolti al contingente, tanto più sanno di avere dalla loro quel che all’industria culturale è negato da sempre: la durata, a sua volta inseparabile dallo stile (decrepita, o meglio arcaica parola, che l’opera di Bellocchio ci richiama con ostinazione alla mente).

Il libro, il sesto dell’autore lungo oltre quarant’anni, che s’intitola Al di sotto della mischia, (sottotitolo Satire e saggi), come esplicita il testo omonimo (p. 180), è una citazione da Norberto Bobbio, che in un’intervista del 1993 dichiarava appunto, a sua volta variando un titolo di Romain Rolland (Au-dessus de la melée, 1914), di sentirsi ormai «al di sotto della mischia», in quanto appartenente alla «generazione degli sconfitti». Ora Bellocchio, nato nel ’31, non appartiene alla generazione di Bobbio (anche se in lui sembra abitare da sempre un antenato di se stesso); sente però di condividerne il pessimismo di fronte alla «catastrofe» del paese. La trafila delle citazioni evoca dunque il tema civile ma, allo stesso tempo, prende atto che quel tema è sotto scacco, coniugabile solo in negativo e in termini paradossali. Titolo azzeccatissimo, perciò; e a chi osservasse che, sopra o sotto, la prospettiva è pur sempre di chi si distanzia dalla melée, andrà spiegato che in verità, anche se vi si parla senza remore di «sfiducia e stanchezza, pessimismo e acciacchi» (ibid.), in queste pagine non c’è nulla di estenuato o fiacco, né lo sguardo che le muove è di chi si tira fuori, rinuncia o abdica. Occorre piuttosto, per cogliere il piano su cui si pone quello sguardo (e la piega amara dell’humour che l’attraversa), capire il senso e la profondità della sconfitta,2 che coinvolge non una ma diverse generazioni e non è tanto del ceto intellettuale (che si sa nel nostro paese abilissimo nei travestimenti e nei galleggiamenti) ma di chi sta “in basso”; di quelli che, come scriveva Mark Twain (riprendendo il Vangelo: Mt 4, 16), «siedono nelle tenebre».3 Se il saggismo di Bellocchio presuppone l’individuo isolato, non avrebbe trovato la sua forma, il suo stile, senza un solido ancoraggio agli sconfitti, ai silenziosi e ai dimenticati: ecco perché per prima cosa, contro gli ammiratori di tanta sua ironica “cattiveria”,4 è opportuno richiamare il fondo grave di questo nostro scrittore, la sua appassionata e indocile partigianeria. Un epigramma (o si potrebbe dire “rifacimento”) che si legge in Dalla parte del torto è anch’esso di derivazione evangelica (Mt 5, 6) e recita: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno giustiziati».

II.

Ho appena parlato di “forma”, e il termine può sembrare strano o forzato per libri come quelli di Bellocchio, che accolgono frammenti diaristici di varia consistenza, prose polemiche e narrative, interventi di ambito letterario e storico, notazioni di costume, aforismi. Data anche la scarsa attenzione loro tributata — il che è illuminante, di per sé, su cosa sia la critica, oggi — merita dare un’occhiata, sia pur rapida, al modo in cui essi sono organizzati. Proprio a partire da Al di sotto della mischia, uno dei più acuti e fedeli interpreti di Bellocchio, Gianni D’Amo,6 ha osservato che è tipica dell’autore una certa resistenza alla stessa forma-libro. Non è un caso e lo testimonia il fatto che tutti i suoi libri sono raccolte di testi pubblicati in precedenza, ma — a me sembra — la diversa struttura che essi, pur sempre composti del medesimo materiale (interventi su rivista), possono assumere: per esempio, mentre L’astuzia delle passioni,7 del ’95, è interamente composto di articoli e saggi apparsi tra il 1962 e il 1983 ordinati in senso cronologico, Eventualmente8 (’93) dispone alfabeticamente in base al titolo i suoi pezzi, marcatamente miscellanei ma in larga prevalenza brevi, con il deliberato intento di sottolineare l’arbitrio della struttura complessiva, così smentendo la suggestione di «qualsivoglia intenzione o disegno», evitando al lettore «il fastidio di cercare quel che non c’è» (p. 8). Si potrebbe obiettare che proprio l’arbitrio dell’ordine comunque imposto finisce per contraddire la natura dei testi (lo status erratico del frammento), interferendo con il loro legame con il tempo, cosi come, per converso, il lettore di Dalla parte del torto che affronta a ritroso l’Astuzia può rimpiangere, in quel libro, che pur annovera tanti memorabili interventi,9 la minor presenza di dislivelli e scarti e la tipologia ortodossa, meno personale, dell’impianto. Di fatto, una sorta di fluidità sembra appartenere alle raccolte dell’autore, tanto che uno stesso testo può circolare da una all’altra: estro, occasione, discontinuità, casualità, mescolanza di generi sono gli elementi che, in una dialettica aperta, fluida di concentrazione e dispersione, ne sostanziano la forma, dando il tono all’insieme.

Il luogo in cui questa dialettica si palesa in pieno, quasi esplodendo, è Dalla parte del torto, i cui testi (pubblicati su «Diario») risalgono tutti alla seconda metà degli anni ottanta. È il periodo in cui, scrive Bellocchio nell’Avvertenza, «credevo di aver toccato il fondo del pessimismo».10 Credeva. Ma quanto al fondo, è sempre possibile, si potrebbe aggiungere dalle vette del nuovo Millennio, di andare ancora più sotto, e anche la forma deve prenderne atto, l’ironia regolarsi su un tempo diverso. A conferma dei versi di Saba (da Per una favola nuova), l’anacronismo si trasforma in principio esistenziale:


Ogni anno un passo avanti e il mondo dieci
indietro. Al fine son rimasto solo.

Così se in Dalla parte del torto le ferite del presente e del passato prossimo ancora bruciano, e la «pappa del tempo», per usare un’espressione di Anders, è così repellente da esaltare, in qualche modo, la reattività dell’autore, stimolando la parodia e l’istinto polemico (il libro va riletto oggi, per capir meglio cosa son stati quegli anni), poi la solitudine diventa tale che la distanza tra l’io e il mondo modifica la prospettiva, diminuendo l’escursione stilistica dei frammenti. In Al di sotto della mischia più accentuatamente che nei libri precedenti, il tono generale – non solo il titolo – rinvia a una condizione di sommerso: questo, si direbbe, lo stato in cui si levano la protesta ironica e il gesto di sarcastica insofferenza di Bellocchio, che se ora è più incline alla notazione diaristica, e meno al tagliente aforisma, non per questo attenua la pregnanza e l’efficacia dei suoi testi: anzi, tutto il contrario. Il peso di una massa informe e tranquillamente eterodiretta, incurante e soddisfatta grava su chi è au-dessus e reagisce per rispetto di sé e degli altri sommersi: nell’ironia è perciò un presagio di ultima spiaggia, di margine estremo e quasi un’aria da epitaffio; alle sue battute, che tali non sono ma conclusioni di un ragionamento, si ride sapendo che c’è poco da ridere.

Stare di sotto è anche stare con i fantasmi, soggiornare nei pressi dell’outre-tombe. Ora come sempre, tuttavia, la scrittura non ha alcunché di scomposto; è ferma e limpida, e recalcitra a ogni forma di cooptazione da parte di chi sta sopra, poiché la cultura di cui è nutrita non prevede di opporre al discorso dominante (o meglio incombente) una retorica sgargiante, né seducenti e sfarzose metafore, bensì la chiarezza e l’asciutta intelligenza, che con poche parole bastano a smontare la trionfante sicumera dei vincitori di turno. Può sì capitare che, a questo scopo, il discorso esiga talora un più ampio respiro, come in Chi perde ha sempre torto (del ’91, sul processo contro «Lotta continua» per l’omicidio Calabresi), a fungere da testimonianza e da requisitoria contro la storia riscritta e mistificata, o che sia la figura di Pasolini, magistralmente ritratta in Disperatamente italiano, a disegnare, in controluce, il paesaggio dei nostri anni; nondimeno, il motto di Bellocchio resta quello di un suo antenato che raccomandava: «Non scrivete un libro su soggetti che possono essere esauriti in un articolo di un settimanale, e di due parole non fate un periodo. Quello che un imbecille riesce a dire in un libro sarebbe sopportabile se lo dicesse in tre parole».11 Entro questa cornice rigorosamente “economica”, un moto d’impromptu, anche quando la disposizione è frutto di selezione a posteriori, presiede allo strutturarsi dei libri in journal, diario, sketch-book e zibaldone più simile a quelli di un artista, seppure i frammenti assumano talora tonalità da pamphlet, che non alle raccolte saggistiche, più compatte e costruite, di scrittori-intellettuali come Fortini, Pasolini o Calvino (ai cui temi, e al cui spessore morale, egli è peraltro così prossimo). Proprio per questo Oggetti smarriti12 (’96) che semplicemente ripropone la sequenza degli interventi di una rubrica settimanale,13 corrisponde benissimo al vagabondare metodico e disobbediente dell’autore, che riscopre in itinere – lo spiega l’Introduzione — i passaggi costitutivi della sua formazione, realizzando cosi una delle più belle autobiografie indirette che si sono lette da molti anni.14 Sarà il diverso rapporto che il genere “rivista” – ormai, si può dire, pressoché defunto – intrattiene con il tempo, a farne lo strumento privilegiato di Bellocchio? O l’esser lui, come sostiene Cases, il «primo giornalista di idee» di un’era poi degenerata nell’«odium antiideologico»?15 Comunque sia, una renitenza, una forma di diffidenza nei confronti del libro la si può cogliere anche in quanto egli scrive nella «Prefazione» all’Astuzia delle passioni, dov’è spiegato che quel libro doveva costituire la sua prima raccolta, in quanto già pronto all’inizio degli anni ottanta (prima, quindi, di Dalla parte del torto, 1989, e di Eventualmente, 1993) e poi non pubblicato se non dopo un lustro:

Il libro era stato approvato dall’editore [Einaudi], il contratto firmato, dovevo solo aggiungere una prefazione. Che non scrissi mai. Senza ammetterlo, non volevo che il libro uscisse.16

I letterati mettono spesso in scena eleganti pantomime sul tema delle mancate pubblicazioni e degli esordi, in genere fornendosi calibrate giustificazioni ex-post o alibi pregnanti e ammiccanti al proprio predestinato itinerario spirituale. Non pubblicare è comunque una sorta di rituale propiziatorio, il momento negativo di un’affermazione (in fieri); un passaggio a vuoto messo accuratamente a profitto. Non è questo il caso di Bellocchio: il rifiuto («non scrissi mai») ha in lui motivazioni profonde, e in un certo senso permanenti, che saranno conservate stabilmente nell’officina d’autore. C’è in lui un lasciar perdere, una distanza anche nei confronti di sé che da una parte porta a ridimensionare il proprio ruolo, dall’altra potenzia il lavoro della negazione e della critica; e forse non è un caso se l’impegno pratico per l’allestimento dei «Quaderni», a un certo punto, ha preso nettamente il sopravvento sull’attività di scrittore e di critico. Intossicati di media come siamo, non riusciamo nemmeno a immaginare un modo d’essere intellettuale che non contempli presenza sulla scena e che, invece, tanto più presuppone la profondità, tanto più persiste nel distanziarsi dall’apparenza, per tener aperto un dialogo fecondo con zone mute o inesplorate, stabilire rapporti con menti eterodosse, indovinare nuove mappe del presente. L’episodio relativo all’Astuzia dovrebbe, allora, mettere in guardia sia chi tende a identificare tout court l’autore con l’intellettuale militante, sia chi all’opposto ne enfatizza la pigrizia come scrittore in proprio e l’intento – da lui stesso sottolineato17 – di estraniarsi rispetto al dibattito culturale corrente. Come conciliare, poi, istanze cosi contraddittorie? Certo, l’epoca dei «quaderni» (anni sessanta e settanta) e quella di «Diario» (ottanta), le due riviste fondate da Bellocchio, sono nella loro fisionomia (diciamo così) psicosociale già una risposta a questa domanda, corrispondendo a momenti diversissimi nella Storia recente del nostro paese; ma si faccia caso alla linea di continuità tra i due titoli: ambedue di basso profilo, tutt’altro che altisonanti o “impegnati”. Date le coordinate culturali del fondatore, è legittimo richiamare a loro progenitori «L’istante» di Kierkegaard e «La fiaccola» di Kraus, ma questa nobilissima genealogia, pur significativa della strettissima relazione (quasi identificazione) tra scrittore e rivista, potrebbe avallare un’idea di segno presenzialista, “attivista” e quasi oratorio del nostro, mentre va ribadito che anche quando è più apertamente polemico e la pointe dell’ironia è più aguzza, egli sembra manifestarsi così, se non suo malgrado, con un vago sconcerto per dover intervenire, come per un non più rinviabile contrattacco — dopo aver troppo sopportato (e con ciò aver dato prova di tolleranza) — alla plateale invadenza dell’ipocrisia, e in particolare alla mancanza di senso del ridicolo di chi occupa il proscenio (il caso più vistoso è rappresentato, in Dalla parte del torto, da Umberto Eco, ma Bellocchio è capace di scovare dei tratti risibili persino in un autore amato come Bertolt Brecht).

C’è come un sostrato di omissis (o magari di no comment…) a far da tessuto connettivo all’affiorare episodico e discontinuo della voce dall’al di sotto; che detta beffarde epigrafi a un presente imperturbabile e indaffarato nella sua losca o semiconscia routine. Sul lungo periodo, e a prescindere dalla diversa conformazione dei libri, sia la scelta per l’attenuazione, sia l’accento sarcastico dominante in tante pagine, si possono leggere, in filigrana, come risposta istintiva ai modelli cristallizzati e pressoché connaturati, antropologicamente, alla società italiana, d’intellettuale: da una parte il letterato narcisista-elegiaco, legato a confraternite ma separato dal mondo concreto in cui si svolgono le esistenze degli uomini; dall’altro l’opinion-maker saccente e al tempo stesso servile. Il senso delle proporzioni che fatalmente affligge Bellocchio — a prender troppo sul serio certe caricature si rischia non solo di perder tempo, ma per così dire di auto-opprimersi inutilmente — non è un riflesso snobistico, quindi, ma se mai claustrofobico, in quanto ha a che fare con il dislivello tra il mondo piccolo, chiuso, prevedibile, vociante, serioso e autoreferenziale della cultura nostrale e quello vasto, aperto, inesauribile di cui la cultura vera è espressione. E proprio a questo punto, a me pare, interviene quel che si potrebbe chiamare, un po’ provocatoriamente e obliquamente, il versante “romanzesco” della sua scrittura.

Mi spiego. È noto, ma ciononostante sottovalutato, il fatto che l’esordio di Bellocchio sia avvenuto con un libro di racconti: I piacevoli servi, del 1966.18 Riletto oggi, è un libro che colpisce per la prensilità nei confronti dei gerghi sociali e per il modo in cui l’io narrante si mimetizza in una voce, a essa asservendo trame ed effetti di realtà: una disposizione infrequente nella tradizione italiana, e più presente, per esempio, in quella inglese (Vanity fair è un titolo che suona in qualche modo familiare al lettore di Bellocchio), che a sua volta conferisce al testo una spiccata impronta “dialogica” nel senso di Bachtin, ovvero una permeabilità alle ideologie che però non comporta un annullamento in esse. Che c’entra tutto ciò con il saggismo? Nel caso di Bellocchio c’entra non poco, perché l’ipersensibilità per la sfera ideologica s’incarna nei suoi testi in personaggi, figure, dialoghi, e l’aforisma non è che la concrezione istantanea, la fissazione del movimento che aderisce al vissuto e, nell’aderirvi, scopre il carattere sociale (socialmente necessario, direbbe Adorno) dell’apparenza, la sua irrigidita nervatura epocale. Anche in Al di sotto della mischia è dal vissuto, o anche da un modo di dire che rinvia a strati memoriali e sociali, che traggono origine gran parte dei frammenti: Pensare in grande, Il vecchio Ettore, Mazzini, Gratis, La merda in cattedra…, e senza quei mini-racconti in cui niente è di troppo e tutto è essenziale, sino a far precipitare la storia in parabola, l’accensione polemica degli altri pezzi (con le tirate e i cataloghi di nefandezze che finalmente rispondono all’insolenza del mondo) avrebbe molto minore efficacia, proprio perché quanto è limitato all’agenda culturale e al dibattito intellettuale può sempre cadere nel ricatto dell’astrattezza e nel gioco dialettico della combriccola (globalizzata) dominante. Egli — l’io come strumento di questa operazione — può limitarsi a aprire per un attimo il sipario sulla scena, per uno scambio di battute o una telefonata intercettata per caso (si legga Due voci), ma questo — una luce romanzesca, densa e abbreviata, che giunge d’un tratto sul palcoscenico — è sufficiente a far balenare una serie di quinte, per cui senza accorgercene vediamo il presente in altra luce (e il nostro passato in esso, irrisolto), ed è un po’ come se dietro a Beckett («Non ho parole», «Ben detto!») o Pinter ritrovassimo d’un tratto Cechov, sempre senza allontanarci da un orizzonte domestico o familiare. Già questo, quanti altri han saputo farlo, in Italia? E se questo affiorare di quinte, questo versante romanzesco-teatrale (che dalla stagione di «Diario» in poi diviene più evidente) assume ora un tratto malinconico, e si fa più insistente con il passare del tempo, una ragione c’è: è un modo, anche questo, per parlare, di traverso, del deserto del nostro presente.

III.

In Eventualmente, a proposito di romanzo, si leggeva un breve testo intitolato, per l’appunto, Romanzo. Come altre prose, sembra consistere in un semplice aneddoto, qualcosa che sta tra lo spunto autobiografico e l’apologo (o per usare un’espressione, naturalmente riduttiva, della prefazione al libretto: «tra la saggistica e il cabaret», p. 7). Con l’amico romanziere che, di anno in anno, con insistenza gli chiede «a che punto è il romanzo», il nostro cerca di essere rassicurante, smentisce l’ipotesi che tiene in ansia l’amico (quella di star scrivendo un romanzo); tuttavia non riesce del tutto convincente:

poiché il mio primo e unico libro di genere narrativo è quasi di trent’anni fa, egli ha ragione di nutrire qualche allarme: in un tempo così lungo si può anche fare qualcosa di non banale, di non del tutto effimero. Sui suoi colleghi, romanzieri professionisti che sfornano un libro ogni due-tre anni, è tranquillissimo.

Il lettore di Bellocchio difficilmente si lascerà andare, davanti alla scena di Romanzo, a brillanti ipotesi sul conto del narratore, così reticente, dei Piacevoli servi: congetture di sapore proustiano (di opere a campata amplissima, esistenziale), riferimenti a Salinger o teorie in stile Blanchot sembrano poco confacenti all’ironia dell’autore, che come ben sappiamo con il non-pubblicato e il non-scritto è perfettamente a suo agio. Anche qui, del resto, l’io è defilato e non si scompone; una specie di cartina di tornasole che con il solo accento e l’impostazione del discorso ci svela l’ordine reale delle cose: al centro invisibile del testo è il romanziere, di cui pur nulla è detto in forma diretta. L’ellissi è la figura dominante, ma proprio per questo il «non del tutto effimero» (alcunché di virtuale e inesistito) che potrebbe esser concepito negli anni del silenzio è sufficiente a irradiare su tutta la prosa una coloritura ironica a largo raggio, senza tentazioni di perdono. Assolutamente e obbligatamente effimero è l’universo in cui vive il romanziere, perciò condannato all’ansia, al perenne allarme; assolutamente e obbligatamente banale è la fiera della cultura mercificata. Due tempi si confrontano e confliggono, inconciliabili, nel breve spazio dell’incontro. E se dovessimo sottolineare, in questo passo, una parola-chiave, sarebbe professionisti. Qualifica in apparenza neutra, è il segno della massima distanza del romanziere — in quanto sintomo sociale — dall’universo di Bellocchio: non è solo l’appartenenza all’industria culturale, con i suoi ritmi produttivi, a essere nel mirino, e nemmeno l’ineluttabile insulsaggine che ne caratterizza i prodotti, tanto più omologati quanto più “aggiornati”, ma l’incessante e vuota vita artificiale, destinata a soddisfare bisogni inutili (e solo quelli), che costituisce lo scopo stesso della professione. Tutto quello che è essenziale, tutto quel che potrebbe dirci qualcosa di noi, ne è escluso a priori. Quanto a Proust, però, a dire il vero qualcosa da osservare penso che ci sarebbe. Il primo frammento di Minima moralia di Adorno, che s’intitola Per Marcel Proust, inizia cosi: «II figlio di genitori benestanti che, non conta se per talento o per debolezza, prende una professione, come si dice, intellettuale, quella dell’artista o dello studioso, si trova particolarmente a disagio tra coloro che portano il nome stomachevole di colleghi.» C’è aria di famiglia, o no?, tra queste parole19 e lo spirito di Romanzo. Prosegue poi Adorno:

Non solo gli [al «figlio» benestante] si invidia la sua indipendenza, si diffida della serietà delle sue intenzioni, e si sospetta in lui un inviato segreto dei poteri costituiti. Questa diffidenza è bensì prova di risentimento, ma sarebbe, per lo più, giustificata. Ma le resistenze vere e proprie sono altrove. Anche l’attività spirituale è diventata, nel frattempo, “pratica”, un’azienda con rigida divisione del lavoro, branche e numerus clausus. Chi è materialmente indipendente e la sceglie perché rifugge dall’onta del guadagno, non sarà incline a riconoscere questo fatto. E perciò sarà punito. Non è un professional: è considerato, nella gerarchia dei concorrenti, come un dilettante, indipendentemente dalla quantità delle sue conoscenze, e, se vuoi far carriera, deve battere, in ostinazione e chiusura mentale, anche lo specialista più borné. La sospensione della divisione del lavoro, a cui egli tende, e che la sua situazione economica gli consente, entro certi limiti, di realizzare, è particolarmente sospetta; in quanto tradisce la ripugnanza a sanzionare il tipo di lavoro imposto dalla società; e la competenza trionfante non tollera queste idiosincrasie. La scompartimentazione dello spirito è un mezzo per liquidarlo dove non è esercitato ex officio, e un mezzo che funziona tanto più egregiamente in quanto colui che denuncia la divisione del lavoro (anche solo in quanto il suo lavoro gli procura piacere) scopre – dal punto di vista di quella – punti deboli che sono inseparabili dai momenti della sua superiorità.20

Non voglio sostenere che il profilo sociologico qui tratteggiato da Adorno corrisponda punto per punto a quello di Piergiorgio Bellocchio, né sopravvalutare le tangenze con Proust, ma che il quadro in cui si colloca l’attività dello scrittore-saggista presenti dei nessi con quello qui designato dai Minima moralia mi sembrerebbe ottuso negarlo. La Recherche è, tra le altre cose, un impressionante campionario di tipi sociali e un catalogo di incontri, dialoghi, ipotesi, finzioni e tranches de vie che presuppongono un osservatore sempre sulla soglia, un fenomenologo partecipe eppure straniato in quanto inclassificabile entro gli schemi d’inclusione/esclusione stabiliti dalla società (la divisione del lavoro, infatti; e chi non ricorda i ritratti dei “professionisti” che vi campeggiano?). Forse i libri di Bellocchio rivendicano il dilettantismo, l’attenzione al particolare, all’emarginato, all’anacronistico, e l’ironia come difesa dalla falsità e dal condizionamento sociale, proprio perché il numerus clausus è diventato nel frattempo legge universale, indiscussa e planetaria.

A veder bene, entro questa cornice di riferimenti si può situare anche, da un punto di vista più generale, il tentativo che a livello di pensiero essi presuppongono, al di là degli obiettivi polemici contingenti: salvare un’istanza di tipo “illuministico” – nel senso egualitario e dell’emancipazione – svincolandola dal progressismo, quest’ultimo essendo la bestia nera del nostro (qui il punto d’incontro con Leopardi, e nel Novecento con Timpanaro). Sul piano stilistico il comporre per frammenti, ognuno con un titolo che rimanda al concreto e a una specie di diario-enciclopedia del vissuto-alienato (Dietologia, Neppure guardano, Mangiare male…) ha i precedenti più memorabili proprio in Adorno e Horkheimer (in Italia solo Fortini ne ha dato esempi riusciti), i quali a loro volta avevano assimilato la lezione proustiana (e di Nietzsche) e sulla “dialettica dell’illuminismo” hanno pur detto qualcosa. Né importerebbe sottolineare quanto sia giusta e fondata, anzi sacrosanta, la protesta di Bellocchio nei confronti della razionalità strumentale e del dominio da essa imposto sulla natura e sugli uomini, non fosse questa una di quelle posizioni sottoposte a tabù, travolte e seppellite dall’offensiva congiunta di “destra” e “sinistra” (ma soprattutto di quest’ultima, e specie nella perniciosa variante italico-postcomunista), proprio nel momento in cui le conseguenze più evidenti, e tragiche, del “Pensiero Unico” si sono imposte in senso “globale”, dispiegando tutta l’aggressività di un progetto che ormai non ha più nemmeno da nascondere le proprie sanguinose contraddizioni. Del resto, a tratti Bellocchio sembra volerci far credere che le sue sono idiosincrasie da ritardatario, tratti caratteriali non immuni da un patologico arcaismo; ma sono, queste, astuzie della ragione passionale, che possiamo ravvisare anche in quei suoi avi prima evocati, che avevano ben visto cosa si celasse dietro la favola delle magnifiche sorti. Una salutare paura è il sentimento che molte pagine di Bellocchio sembrano consigliarci di fronte alla macchina della modernità tecnologica e ai suoi inossidabili adepti.21

IV.

«Come il vincitore scrive la storia, così fabbrica l’opinione». Questo si legge in Chi perde ha sempre torto, che poco sopra annota:

Dobbiamo prendere atto che in questi anni s’è stabilita una nuova “verità”. Una “verità” globale, su passato, presente, futuro. Per quanto riguarda il ’68, questa verità sentenzia: il movimento di contestazione giovanile è stato puramente e semplicemente la matrice, il terreno di cultura del terrorismo; ovvero, il terrorismo è il frutto, naturale e inevitabile, di quel seme.22

La fabbricazione della “doxa” richiede pazienza e mezzi, ma può disporre di una capacità di penetrazione tanto potente da produrre il naturale, il globale e l’inevitabile come attributi dell’assioma spacciato per verità. Contro questa naturalizzazione del falso, cosa può un libro di duecento pagine che nel migliore dei casi sarà venduto in qualche migliaio di esemplari? Pochissimo, certo; ma potrà sempre darsi qualcuno interessato al nostro «passato, presente, futuro» che abbia perciò voglia di scavare oltre (anzi sotto) il muro degli assiomi prefabbricati. Per quello scrive Bellocchio. Il quale ripercorre le vicende del processo a «Lotta Continua» e degli avvenimenti in esso coinvolti, non tanto per un’arringa a favore di Sofri quanto per mettere in luce la mostruosità, insieme tragica e farsesca, dei meccanismi attuati per coprire uno scandalo, l’assassinio di Pinelli, la cui ingiustizia era stata percepita immediatamente non solo dal movimento di cui «Lotta Continua» era espressione, ma da una parte significativa della «borghesia avanzata».23 Si noti che le venti pagine di Chi perde ha sempre torto (solo quelle dedicate a Pasolini sono in maggior numero) recano in epigrafe un passo dell’Ecclesiaste (13, 3:«II forte spesso commette ingiustizia, / poi grida come se fosse lui l’offeso. / II debole subisce, e deve chiedere anche perdono») e si concludono con un richiamo a Rabelais (autore il cui influsso su Bellocchio andrebbe analizzato a fondo).24 La cornice delle citazioni ha l’effetto di disporre la minuziosa rivisitazione dei passaggi che hanno portato a una condanna esemplare (per la criminalizzazione del “movimento”) entro una prospettiva di lungo periodo che — si diceva all’inizio – presuppone una visuale “dal basso”. Ecco allora che anche i tanti personaggi che sfilano nel saggio — i magistrati, i pentiti, i vari Scalfari, Zavoli e tanti altri — trovano qui la loro giusta dimensione, una lente che li collochi al loro posto, figuranti di una parata per un copione predisposto «tra Molière e il Grand Guignol» (come dice il Pasolini citato altrove da Bellocchio).25

In base a quest’ottica e con l’occhio fisso al particolare, La guerra in francobollo si occupa di decifrare la mistificazione filatelica della storia: il pezzo ha un rilievo paradigmatico, a mio avviso, proprio in quanto ricostruisce a partire da ciò che è per definizione minuscolo un’operazione tanto abnorme quanto significativa del rapporto che il paese “ufficiale” (la “nazione” nel suo aspetto istituzionale e nei suoi ranghi dirigenti) intrattiene con la propria storia. I campi di concentramento, Anzio e Nettuno, Roma città aperta…, tutto nell’allegoria postale di una nazione celebrativa e insieme immemore subisce un trattamento equivoco e elusivo, un depistaggio. C’è qui una eco, magari, dei Miti d’oggi di Barthes, per l’abilità nella decostruzione degli ingannevoli micro-scenari in cui la storia è condensata e resa irriconoscibile, ma c’è anche e soprattutto la cognizione esatta del fine a cui tende il lavoro degli ignoti sceneggiatori: «II senso profondo di tutta la sequenza è (vuole essere) uno solo: non è successo niente».26 Mistificazione, quindi, non è il termine esatto: nelle scelte e nelle omissioni della serie di francobolli, il cui «squallore grafico», osserva Bellocchio, «fa tutt’uno con la miseria culturale, politica, morale» che ispira il manufatto, emerge un’intenzione ben più profonda, la cancellazione del senso di avvenimenti che a loro volta erano l’esito di scelte, di interessate omissioni e mistificazioni (quelle sì) per le quali persero la vita milioni di donne e uomini. Non è successo niente: un’ingiunzione, o una rassicurazione? Tutt’e due le cose, forse. L’importante è la narcosi, lo stato confusionale in cui va persa la nozione stessa delle parti in conflitto, degli interessi in gioco, dei diversi valori e fini che orientavano l’agire e della diversa posizione di chi decideva e di chi le decisioni subiva (e così oggi, che viviamo tutti in un brutto francobollo). Per questo, dietro la rassicurazione c’è un’altra affermazione, meno rassicurante, anzi minacciosa, che Al di sotto della mischia vorrebbe, senza dirlo, scongiurare: tutto quindi può ancora ripetersi.

Sempre la storia, e la sua manipolazione, sono al centro di Perché Mussolini perse il potere?, e anche qui la contestazione di Bellocchio colpisce i luoghi comuni e l’uso di generalizzare cancellando la realtà. La sua polemica non è svolta per nulla in astratto, bensì a partire da dati di fatto concreti, inoppugnabili ma quasi sempre trascurati. Allo storico che parla della «grande maggioranza degli italiani che durante il regime avevano assicurato il consenso a Mussolini» e che «glielo rifiutarono nel 1943 perché il progetto di una guerra breve e vittoriosa si era dimostrato un inganno», Bellocchio ricorda che a quell’epoca «la “grande maggioranza” del paese era del tutto esclusa dalla possibilità, non già di esprimerla, ma di formarsela, un’opinione. La “grande maggioranza” viveva a un livello pre-politico».27 È, questo dell’autore, un modo per far parlare una zona silenziosa, invisibile, senza storia: quindi per non espropriarla una volta di più. Il pezzo va letto insieme a Pensare in grande, che prende spunto non da un libro ma da un incontro casuale in treno, e arriva poi alla sua conclusione in contrappunto ad un’altra di quelle micidiali banalità di cui è infarcito il “discorso pubblico” sulla storia patria. In un dibattito televisivo (ovviamente bipartisan) all’«intellettuale di orientamento fascista» è fatto osservare che l’Italia venne gettata del tutto impreparata in guerra: «Quando si pensa in grande, si fanno anche grande errori», egli risponde. Commento di Bellocchio:

Dove era implicito che “pensare in grande” è comunque un pregio e gli errori, se “grandi”, diventano nobili. E quindi Mussolini è stato un “grande politico”, dato che “pensava in grande”… Il contenuto concreto di questi “grandi pensieri”, se cioè erano pensieri buoni o cattivi, giusti o sbagliati, se si trattava di pensieri o non invece di sogni o deliri, il sangue e le sofferenze che erano costati… tutto ciò è secondario. Applicando un normale metro umano alle scelte del Duce, la conclusione non è dubbia: un criminale. E anche un coglione. Anzi (Grandeur oblige): un grande criminale e un grande coglione.28

Una battuta a effetto? No, il lettore di Oggetti smarriti rammenta invece, a questo punto, le pagine di Antifascismo e Resistenza, che iniziano con una citazione da Kierkegaard e proseguono discorrendo delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (Torino, Einaudi, 19521), libro di fondamentale importanza per la formazione di Bellocchio29 (ma libro, anche, ascrivibile alla categoria degli “oggetti smarriti”). Lì, nelle lettere dei partigiani come in quelle dei prigionieri di guerra raccolte e studiate da Spitzer,30 è il rifiuto della dimensione alto-grandiosa, è la voce degli esclusi che parla (che fornisce la misura); e tenersi da questa parte della storia senza demagogia né illusioni, ma con coerenza e senza conceder nulla a dogmi e dottrine “salvifiche”, è un’impresa estremistica e di buon senso, che nessun intellettuale professionista può concedersi, salvo suicidarsi in quanto esponente della categoria. Il modo in cui sono guardati Gli uomini superiori in Dalla parte del torto, dov’è un’attualissima lettura a contropelo di Carl Schmitt, conserva questo punto di vista “perdente”, empirico ma vitale e sovversivo, così poco tollerabile per l’audience da relegare a loro volta i libri di Bellocchio tra gli oggetti smarriti.

V.

La cocciuta lealtà di Bellocchio ai suoi silenziosi committenti – la cui assenza, dopo tutto, non è priva di una certa eleganza, visto lo spettacolo del mondo – è fondamentalmente estranea alla cultura italiana, anche nei suoi versanti più dediti all’ironia ed alla polemica, quasi sempre segnati da un che di esibizionistico, ma in compenso poveri di prospettiva storica. Ne le è meno estraneo il suo saggismo, fedele ad alcuni grandi outcasts (Kierkegaard, Simone Weil, Orwell), che trova nel vissuto e nell’esperienza il proprio terreno elettivo: ciò conferisce alla prosa – poiché Bellocchio è uno scrittore vero – una resistenza e una consistenza che, non fosse la definizione magniloquente e screditata, bisognerebbe dire di “classico”. Qualunque ne sia il nome, questo consistere e resistere – con la forza sotterranea che l’ironia nasconde e rivela ad un tempo – è del tutto coerente con il tagliar corto dello stile, come di chi operi per mantenere una zona di rispetto e d’isolamento, zona in cui il frammento possa risuonare più intensamente e liberamente, affidato al flusso casuale degli incontri e degli scontri, nel prisma effimero dei riverberi sociali ma, allo stesso tempo, dentro un tempo lungo, segretamente condiviso, accomunante (direbbe Sereni); qualcosa che aspira ad una “trasmissione orale”, citabile all’occorrenza, che ferisca come un’arma impropria passata di mano in mano, di nascosto, e d’improvviso e silenziosamente apparsa nella mischia.

C’è alla fine di Antifascismo e Resistenza una lunga citazione da Noventa in cui è racchiuso un che di fondante, dal valore esemplare, per lo stile (in senso lato: morale) e il punto di vista eterodosso di Bellocchio. Ne riporto le frasi conclusive:

L’antifascista tipico è colui che il 25 luglio o 1’8 settembre esclamava: «L’avevo detto io!». Mentre l’uomo della Resistenza e il popolo confessavano di non capire. L’antifascismo procede da un sapere, da una certezza. La Resistenza, da un non sapere, da un dubbio. L’antifascismo conosce tutte le cause, mortali e veniali, del disastro. L’uomo della Resistenza si domanda invece come mai tale disastro sia stato possibile. Come mai i fascisti ne siano stati capaci, e gli antifascisti e gli italiani in generale capaci di prevederlo, non di impedirlo; e appunto perché l’antifascismo sa tutto, è tutto rivolto al passato, ma la Resistenza all’avvenire.31

Poco prima Bellocchio aveva sottolineato come il «fenomeno» della Resistenza non fosse paragonabile, quanto agli effetti, con eventi della storia europea come la Riforma protestante, o la Rivoluzione francese ma, d’altra parte, costituisse un evento «della stessa natura e qualità». Priva di un «progetto politico determinato», la Resistenza era stata infatti (ancora Noventa) «l’inizio o quanto meno il presagio di un rinnovamento profondo del pensiero e dei costumi, e non solo del pensiero e dei costumi politici».32 Sono parole poco roboanti e fuori squadra sia rispetto a tanta apologetica repubblicana, sia al volgare revisionismo tracimante dai media. Ma, per esempio, l’ospite ingrato Franco Fortini (in quegli anni collaboratore del «Politecnico») le ha sempre tenute a mente, e oggi ci sembrano infine tanto remote quanto attuali nel porre l’accento sulla necessità di un ricominciamento, qualcosa che finalmente coinvolga le aspirazioni e le stesse esistenze di chi ha di fronte a sé il disastro. Tale, infatti, è il paesaggio che, con sempre maggiore chiarezza e non senza una riconoscibile nota d’inconciliata angoscia, i libri di Bellocchio, composti di frammenti (di macerie), ci mostrano.

Il filo che tiene insieme i frammenti, ognuno dei quali vorrebbe riflettere in sé un frammento del tempo, si accorda dunque a una scrittura che privilegia il particolare, il non-finalizzato, e si ritrae dai sistemi e dal “sapere” onnisciente ma rivolto al passato. Per questo al vero saggista è indifferente parlare di un film, di un incontro in treno o per strada, di un libro, di un caso giudiziario o di un fatto di cronaca: per lui anche i giocattoli33 hanno qualcosa da insegnare, che ci riguarda. D’altra parte, dispersi tra i frammenti troviamo pure dei saggi di più spiccato argomento letterario, che da soli basterebbero a stabilire la statura di un critico d’eccezione: mi limito a ricordare, per la poesia e quanto ai connazionali, L’itinerario poetico di Raboni (in L’astuzia delle passioni) e i due saggi su Pasolini, il primo in Dalla parte del torto (L’autobiografia involontaria di Pasolini, sulle lettere dello scrittore) ed il secondo, già citato, di Al di sotto della mischia, Disperatamente italiano (ma non son meno penetranti le pagine su Isherwood, Orwell, Celine nell’Astuzia). Quel che ci viene proposto da Bellocchio, in questi casi, è profondamente diverso (e più prezioso) di quanto possiamo ricavare da studi o discorsi che abbiano inizio e fine in luoghi come le università di oggi (per non parlare dei variopinti, affollati e complementari outlet della cultura reificata): è un ritratto che, mentre parla d’altro, parla di noi, ci costringe ad abbandonare la sponda rassicurante dei luoghi comuni, indicandoci mancanze non più percepite, storie e promesse dimenticate. Quando nel pezzo che funge da prefazione al suo libro (Essere o non essere cattivi) Bellocchio si augura «di trovare qualche giovane che legga queste cose per la prima volta e per quello che dicono» (p. 14), questo è anche il miglior augurio che possiamo fare a noi stessi.

VI.

Di quel lettore, quando verrà, mi piace immaginare che indugi su uno degli ultimi frammenti del libro, intitolato La felicità. E mi domando se gli passerà per la mente, al giovanotto, che un titolo del genere solo un libro di Bellocchio, nel nostro infelice paese e nel nostro tempo, può permetterselo. Leggendo quel titolo, forse gli verrà in mente Tolstoj, e magari (sbagliando) penserà poi d’aver sbagliato, che non c’entra niente. In effetti non è un romanzo, né un racconto, e non ci vuole molto spazio per citarlo.

Esco dall’ospedale, dove T. sta lottando col cancro e la chemioterapia. Devi essere contento e grato già solo di poter camminare, bene o male, con le tue gambe… Lavarsi e radersi senza aiuto è un privilegio, cosi come urinare senza catetere… Correre, sciare, andare in barca, viaggiare, far l’amore… la felicità…: cose d’un altro mondo. Basta e avanza mangiare alla propria tavola, dormire nel proprio letto, fare il proprio lavoro, prendere l’autobus, leggere il giornale, guardarsi intorno, osservare la gente, le nuvole e l’acqua… Poter decidere in tutta libertà di raggiungere la piazza per bere un caffè.34

Di cosa parla questo io che parla a se stesso? Dice quello che dice, da solo e quasi in un a parte: fare una parafrasi ne tradirebbe lo spirito, il clima nativo che è quello dell’istante. Nel breve monologo tutto è ridotto ad un orizzonte minimale, circoscritto e consegnato a uno spazio-tempo ordinario e minuto, precario e revocabile. Tutto parla di finitezza e pare approssimarsi a un grado zero di vitalità: quel che basta a fare la differenza rispetto alla malattia, alla sofferenza e alla morte. Il monologo interiore procede per sottrazione, appena accennando alle «cose d’un altro mondo» (qualcosa d’inconcepibile, inaudito): le parole «libertà», «privilegio», l’essere «contento e grato» ci danno notizia di un rischio scampato o di una dilazione, di una concessione; di un resto e non certo di una pienezza. Poco o niente, ma ancora qualcosa. Quanto al titolo, non era dunque che una specie di scherzo amaro? Un modo di dire che, nello stile dell’autore, si ritorce contro se stesso, un’iperbole da ricondurre a più miti consigli? E la Storia, e il Progresso…? Dalla stanza d’ospedale non s’intravedono. D’altronde qui, all’aperto, non sarebbe del tutto esatto dire che la vita è non essere ancora morti, e solo questo. Qualcosa nel frammento c’è, che en passant dice di più di quanto è detto. Per un giovane, con i suoi pensieri immensi, convinto di essere padrone del tempo, non sarà facile intendere subito quel che, qui, suona più familiare a chi giovane non è più, a chi è sconfitto; ma forse non si tratta, finalmente, neanche di capire, quanto di sentire, di orecchiare (come da un’altra stanza) l’eco di quei gesti minuti – nulla di prometeico: guardarsi intorno, lavorare, prendere un caffè –, di quei semplici pensieri in controcanto. Sono come un breve accordo, un fraseggio o una cadenza di pianoforte che accenna una romanza o una sonata, poi subito si ferma, svanisce, ma in quell’attimo trattiene ancora l’impronta di qualcosa di non banale, il segno di un normale metro umano. Come sul rovescio, in solitudine, d’accordo. Ma quel «potere», quella libertà che è «tutta» anche se è poca cosa, non è per i piacevoli servi ed i nuovi squali, a cui nulla importa della «gente, le nuvole e l’acqua». Quel resto («e avanza») è forse solo per loro, per le figure di attardati, di sconfitti e invisibili, di cui chi scrive così non teme d’essere uno. Il lontano ma distinto brillio di «un altro mondo», di cui i frammenti portano il riflesso, è un po’ come la volpe rubata del ragazzo di cui ci hanno parlato nei loro libri Sereni e Plutarco, ed è parte indissolubile del lascito di Piergiorgio Bellocchio.

[«Il ponte», 65, 4, Aprile 2009, pp. 165-183]

Note

1 Vedi quanto scrive lo Stesso Bellocchio in Essere o non essere cattivi, testo d’apertura di P. Bellocchio, Al di sotto della mischia. Satire e saggi, Milano, Libri Scheiwiller, 2007, p. 11.

2 Di sconfitta parla il finale del libro, l’ultima pagina del saggio Disperatamente italiano. Pasolini e la politica. «La “fine della nostra storia”, cioè della speranza politica, annunciata da Pasolini vent’anni prima, e ora davvero finita, doveva coincidere con quella della sua privata esistenza» (p. 231). Scritte nel ’99, queste parole (se ne legga il commento di Fortini in Attraverso Pasolini) rinviano il lettore al 1975, e l’orizzonte del discorso di Bellocchio comprende qui il fatale ’78 per sporgersi fino al presente: «Poco più di due anni dopo la sua morte, ci sarebbero stati il rapimento e l’assassinio di Moro, la Dc già data per spacciata che risorge e governa per un altro decennio, l’avvento del craxismo, il crollo dell’Urss e del comunismo, lo spappolamento ideologico, la continua degenerazione della moralità e del gusto, i romanzi di Eco, l’irresistibile e felice corsa all’involgarimenro e all’istupidimento… Pasolini che aveva già visto nella televisione lo strumento del “genocidio culturale”, che cosa avrebbe ancora potuto dire contro la mostruosa telecrazia dell’ultimo ventennio?» (ibidem).

3 To the Person Sitting in darkness, 1901: la traduzione italiana si legge in Mark Twain, Alla persona che siede nelle tenebre. Scritti sull’imperialismo, a cura e con introduzione di A. Portelli, Santa Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2003, pp. 45-69.

4 Cfr. ancora P. Bellocchio, Essere o non essere cattivi cit., pp. 8-9.

5 P. Bellocchio, Dalla parte del torto, Torino, Einaudi, 1989, p. 55.

6 G. D’Amo, «Ciò che dobbiamo pur chiamare fraternità. Satire e saggi di un moralista ostinato», in Dieci libri dell’anno. Letteratura e critica, presentazione di A. Berardinelli, Milano, Libri Scheiwiller, 2008.

7 P. Bellocchio, L’astuzia delle passioni. 1962-1983, Milano, Rizzoli, 1995. Il titolo, come annotava Cesare Cases in una recensione («Indice dei libri del mese», 9 ottobre 1995) è «l’inversione di una famosa espressione hegeliana»: «Bellocchio è infatti contro Hegel e per Kierkegaard, contro la ragione e per la passione, contro l’universale e per il particolare» (ibidem).

8 P. Bellocchio, Eventualmente, Milano, Rizzoli, 1993.

9 Basti ricordare in chiave politica Perché è stato condannato Aldo Braibanti (1968), Riflessioni ad alta voce su terrorismo e potere (1980); o in chiave critica A proposito di Barry Lindon (1977), pezzi che ancor oggi colpiscono per la lucidità e l’ampiezza d’orizzonte critico.

10 P. Bellocchio, Dalla parte del torto cit., p. VIII.

11 G. C. Lichtemberg, Osservazioni e pensieri, scelta, introduzione e traduzione di N. Sàito, Torino, Einaudi, 1975, p. 71.

12 P. Bellocchio, Oggetti smarriti, Milano, Baldini & Castoldi, 1996.

13 I pezzi erano usciti sul supplemento libri de «l’Unità» tra il gennaio 1992 e il luglio 1993 (cfr. «Introduzione», p. 7).

14 Voglio qui rammentare anche Incipit. Cinquant’anni cinquanta libri (1953-2003) di Pier Cesare Bori (Genova-Milano, Marietti, 2005).

15 C. Cases, recensione cit. e G. D’Amo, Ciò che dobbiamo pur chiamare fraternità cit. La definizione, anche qui, non va accolta in senso ristretto, cioè riferita ai sessanta, ma in senso ampio, a comprendere l’epoca che dall’llluminismo si spinge, nel Novecento, fino a figure d’intellettuali come Kraus o Tucholsky.

16 P. Bellocchio, L’astuzia delle passioni cit., p. VII.

17 Vedi quanto auspica Bellocchio in chiusa a Essere o non essere cattivi: «”Essere lasciati in pace”: desiderio profondo, serio proposito, la miglior condizione per lavorare a proprio talento» (p. 14). Quanto alla pigrizia, chissà che non appartenga al genere sperimentato da Baudelaire, quale si evince da una prefazione inedita alle Fleurs, e strettamente connessa allo strepito delle gazzette: «mais j’ai eu l’imprudence de lire ce matin quelques feuilles publiques; soudain, une indolence, du poids de vingt atmosphères, s’est abattue sur moi, et je me suis arrétè devant l’épouvantable inutilité d’expliquer quoi que ce soit a qui que ce soit…» (C. Baudelaire, Oeuvres complète, I, Paris, Gallimard,1975, p. 182 [Projects de préfaces]).

18 P. Bellocchio, I piacevoli servi, Milano, Mondadori, 1966. Il titolo fu suggerito da Franco Fortini.

19 In margine alla parola “colleghi”, un ricordo personale. Una volta arrivai a casa di Franco Fortini mentre stava ascoltando un programma radiofonico. Era un dialogo a più voci su un romanzo che al tempo stava suscitando grandi discussioni, e due intervistati erano critici letterari molto noti, che Fortini conosceva bene e stimava. Il programma era appena iniziato e dopo le presentazioni i due cominciarono a farsi i complimenti, in una tonalità affettuosa e insieme signorile, che denotava distinzione e familiarità. Il preludio, che pareva deliziare il curatore del programma, andò assai per le lunghe; quando ebbe termine, e stavano iniziando gli interventi sul tema, Fortini spense la radio. «Questi sono i miei colleghi», disse; e senza ulteriori commenti cominciò a conversare con il suo meravigliato ospite.

20 Th.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, introduzione di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1954, pp. 11-12.

21 II tema era già presente in Astuzia delle passioni (Licenza di uccidere. II camion assassino) e torna in I doni di Arimane (con richiamo esplicito a Leopardi), raccolto tanto in Eventualmente che in Al di sotto della mischia. Per una posizione non dissimile si vedano per esempio i due pezzi sulle Macchine (1960-69) di G. Anders in L’uomo è antiquato. II. sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 99-115.

22 In P. Bellocchio, Al di sotto della mischia cit., p. 80.

23 Ivi, p. 95.

24 Sul piano tematico e dei contenuti, all’universo di Rabelais rimanda l’accento spiccatamente materialistico di molte pagine, in cui si tratta per esempio di cibi e riti gastronomici (ma anche, con una certa frequenza, di merda); su quello stilistico, l’impostazione satirico-paradossale, con il ricorso a elenchi e enumerazioni iperboliche che gremiscono la pagina come per “rincarare la dose” di fronte alla saturazione del reale-negativo, tratto ricorrente specie in Dalla parte del torto (cfr. Un’eco è un’eco è un’eco è un’eco…, p. 67 e passim; Bianco e nero, p. 169).

25 P. Bellocchio, Disperatamente italiano. Pasolini e la politica cit., p. 229.

26 P. Bellocchio, La guerra in francobollo, in Id., Al di sotto della mischia cit., p. 166.

27 P. Bellocchio, Perché Mussolini perse il potere?, ivi, p. 135.

28 P. Bellocchio, Pensare in grande, ivi, p. 123.

29 Vedi quanto osserva egli stesso nel saggio Antifascismo e Resistenza, in Id., Oggetti smarriti cit., pp. 133-134.

30 Vedi P. Bellocchio, La guerra nelle parole del popolo (ivi, pp. 127-131) che tratta di L. Spitzer, Lettere dei prigionieri di guerra italiani 1915-18, Torino, Boringhieri, 1976. Nell’attenzione ai “senza storia” si può cogliere una affinità non generica con un intellettuale come Danilo Montaldi.

31 P. Bellocchio, Antifascismo e Resistenza, cit., p. 136.

32 Ivi, p. 135.

33 Vedi ad vocem in P. Bellocchio, Eventualmente cit., pp. 23-26.

34 P. Bellocchio, La felicità, in Id., Al di sotto della mischia cit., p. 195.