I.
Molti anni sono passati da quando, nel 1984, «quaderni piacentini» cessò le pubblicazioni, mezzo secolo dal momento della sua maggiore diffusione, quel Sessantotto di cui fu parte attiva e di cui anticipò non pochi temi culturali e politici. E quali anni, ci separano da quel tempo: tali da cambiare lo scenario (sociale, culturale, economico) così in profondità, nel nostro paese come altrove, al punto che non solo le persone ma tutto un insieme di categorie, nozioni acquisite, schemi e elaborazioni di ordine intellettuale sembrano ormai non tanto invecchiati quanto irriconoscibili, come quei convitati alla matinée dei Guermantes di cui parla l’ultimo tornante della Recherche; eppure, ancora oggi, se qualcuno nomina Bellocchio non c’è scampo, è immediata l’associazione con i «quaderni piacentini».
Perché stupirsi, si dirà. La rivista non l’ha fondata e diretta lui, insieme a Grazia Cherchi? Non ne è indiscutibile l’importanza per la formazione della “nuova sinistra”, e più in generale per il rinnovamento della cultura italiana in quegli anni? E non lo è anche la sua indipendenza da partiti e conventicole, notabile eccezione tra le pubblicazioni italiane di cultura? Non vi hanno collaborato, infine, i migliori ingegni del periodo?… Tutto vero, certo: il “mito” dei «Quaderni» ha solide fondamenta, e solo chi è prevenuto può disconoscerlo; e nondimeno, quando l’intervistatore o il recensore di Bellocchio attaccano la solfa, ogni volta con la storia della rivista, con le rievocazioni di maniera, gli episodi e le polemiche e gli slogan del tempo che fu, è difficile ignorare che così facendo si prepara il lettore a consumare un “personaggio”, e che a sua volta questa operazione, con l’annesso e comodo (ora) elogio dell'”eretico”, dell'”irregolare” e “anticonformista”, è la premessa per falsare, o meglio ridurre e infine addomesticare il nucleo più vivo e urticante della scrittura di Bellocchio, la cui ironia non vuol essere né un gioco intellettuale, né un esercizio di disincanto per cinici a corto di battute, bensì una forma di denuncia e insieme un tratto intrinseco alla scrittura. Sì, perché il radicalismo di Bellocchio ha uno spessore e un albero genealogico le cui matrici si situano ben oltre il periodo in cui si è soliti fissarne i contorni. Addomesticare, infine: perché lo storicismo di stampo ebdomadario e la seduzione del ritratto (e lo stessa generica insistenza sui «quaderni»), con quel tanto di stereotipato e seriale che è di certe presentazioni, sono come i jingles che accompagnano la promozione del prodotto, sortilegio fasullo e conciliante, complice dell’oblio. Ma i libri di Bellocchio hanno un modo tutto loro di tirar dritto, e di — si può dire? — desintonizzarsi dalle facili musiche dell’industria culturale; sono consapevoli che, per questo, c’è un prezzo da pagare, una specie di tacito esilio, ma è per l’appunto dei modi dell’oblio indotto e coltivato, della faconda dimenticanza e delle sue mirate rimozioni che essi vogliono parlarci. E se riescono a farlo, sarà forse perché, quanto più sono composti di frammenti legati al tempo e rivolti al contingente, tanto più sanno di avere dalla loro quel che all’industria culturale è negato da sempre: la durata, a sua volta inseparabile dallo stile (decrepita, o meglio arcaica parola, che l’opera di Bellocchio ci richiama con ostinazione alla mente).
Il libro, il sesto dell’autore lungo oltre quarant’anni, che s’intitola Al di sotto della mischia, (sottotitolo Satire e saggi), come esplicita il testo omonimo (p. 180), è una citazione da Norberto Bobbio, che in un’intervista del 1993 dichiarava appunto, a sua volta variando un titolo di Romain Rolland (Au-dessus de la melée, 1914), di sentirsi ormai «al di sotto della mischia», in quanto appartenente alla «generazione degli sconfitti». Ora Bellocchio, nato nel ’31, non appartiene alla generazione di Bobbio (anche se in lui sembra abitare da sempre un antenato di se stesso); sente però di condividerne il pessimismo di fronte alla «catastrofe» del paese. La trafila delle citazioni evoca dunque il tema civile ma, allo stesso tempo, prende atto che quel tema è sotto scacco, coniugabile solo in negativo e in termini paradossali. Titolo azzeccatissimo, perciò; e a chi osservasse che, sopra o sotto, la prospettiva è pur sempre di chi si distanzia dalla melée, andrà spiegato che in verità, anche se vi si parla senza remore di «sfiducia e stanchezza, pessimismo e acciacchi» (ibid.), in queste pagine non c’è nulla di estenuato o fiacco, né lo sguardo che le muove è di chi si tira fuori, rinuncia o abdica. Occorre piuttosto, per cogliere il piano su cui si pone quello sguardo (e la piega amara dell’humour che l’attraversa), capire il senso e la profondità della sconfitta,2 che coinvolge non una ma diverse generazioni e non è tanto del ceto intellettuale (che si sa nel nostro paese abilissimo nei travestimenti e nei galleggiamenti) ma di chi sta “in basso”; di quelli che, come scriveva Mark Twain (riprendendo il Vangelo: Mt 4, 16), «siedono nelle tenebre».3 Se il saggismo di Bellocchio presuppone l’individuo isolato, non avrebbe trovato la sua forma, il suo stile, senza un solido ancoraggio agli sconfitti, ai silenziosi e ai dimenticati: ecco perché per prima cosa, contro gli ammiratori di tanta sua ironica “cattiveria”,4 è opportuno richiamare il fondo grave di questo nostro scrittore, la sua appassionata e indocile partigianeria. Un epigramma (o si potrebbe dire “rifacimento”) che si legge in Dalla parte del torto è anch’esso di derivazione evangelica (Mt 5, 6) e recita: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno giustiziati».
II.
Ho appena parlato di “forma”, e il termine può sembrare strano o forzato per libri come quelli di Bellocchio, che accolgono frammenti diaristici di varia consistenza, prose polemiche e narrative, interventi di ambito letterario e storico, notazioni di costume, aforismi. Data anche la scarsa attenzione loro tributata — il che è illuminante, di per sé, su cosa sia la critica, oggi — merita dare un’occhiata, sia pur rapida, al modo in cui essi sono organizzati. Proprio a partire da Al di sotto della mischia, uno dei più acuti e fedeli interpreti di Bellocchio, Gianni D’Amo,6 ha osservato che è tipica dell’autore una certa resistenza alla stessa forma-libro. Non è un caso e lo testimonia il fatto che tutti i suoi libri sono raccolte di testi pubblicati in precedenza, ma — a me sembra — la diversa struttura che essi, pur sempre composti del medesimo materiale (interventi su rivista), possono assumere: per esempio, mentre L’astuzia delle passioni,7 del ’95, è interamente composto di articoli e saggi apparsi tra il 1962 e il 1983 ordinati in senso cronologico, Eventualmente8 (’93) dispone alfabeticamente in base al titolo i suoi pezzi, marcatamente miscellanei ma in larga prevalenza brevi, con il deliberato intento di sottolineare l’arbitrio della struttura complessiva, così smentendo la suggestione di «qualsivoglia intenzione o disegno», evitando al lettore «il fastidio di cercare quel che non c’è» (p. 8). Si potrebbe obiettare che proprio l’arbitrio dell’ordine comunque imposto finisce per contraddire la natura dei testi (lo status erratico del frammento), interferendo con il loro legame con il tempo, cosi come, per converso, il lettore di Dalla parte del torto che affronta a ritroso l’Astuzia può rimpiangere, in quel libro, che pur annovera tanti memorabili interventi,9 la minor presenza di dislivelli e scarti e la tipologia ortodossa, meno personale, dell’impianto. Di fatto, una sorta di fluidità sembra appartenere alle raccolte dell’autore, tanto che uno stesso testo può circolare da una all’altra: estro, occasione, discontinuità, casualità, mescolanza di generi sono gli elementi che, in una dialettica aperta, fluida di concentrazione e dispersione, ne sostanziano la forma, dando il tono all’insieme.
Il luogo in cui questa dialettica si palesa in pieno, quasi esplodendo, è Dalla parte del torto, i cui testi (pubblicati su «Diario») risalgono tutti alla seconda metà degli anni ottanta. È il periodo in cui, scrive Bellocchio nell’Avvertenza, «credevo di aver toccato il fondo del pessimismo».10 Credeva. Ma quanto al fondo, è sempre possibile, si potrebbe aggiungere dalle vette del nuovo Millennio, di andare ancora più sotto, e anche la forma deve prenderne atto, l’ironia regolarsi su un tempo diverso. A conferma dei versi di Saba (da Per una favola nuova), l’anacronismo si trasforma in principio esistenziale:
indietro. Al fine son rimasto solo.
Stare di sotto è anche stare con i fantasmi, soggiornare nei pressi dell’outre-tombe. Ora come sempre, tuttavia, la scrittura non ha alcunché di scomposto; è ferma e limpida, e recalcitra a ogni forma di cooptazione da parte di chi sta sopra, poiché la cultura di cui è nutrita non prevede di opporre al discorso dominante (o meglio incombente) una retorica sgargiante, né seducenti e sfarzose metafore, bensì la chiarezza e l’asciutta intelligenza, che con poche parole bastano a smontare la trionfante sicumera dei vincitori di turno. Può sì capitare che, a questo scopo, il discorso esiga talora un più ampio respiro, come in Chi perde ha sempre torto (del ’91, sul processo contro «Lotta continua» per l’omicidio Calabresi), a fungere da testimonianza e da requisitoria contro la storia riscritta e mistificata, o che sia la figura di Pasolini, magistralmente ritratta in Disperatamente italiano, a disegnare, in controluce, il paesaggio dei nostri anni; nondimeno, il motto di Bellocchio resta quello di un suo antenato che raccomandava: «Non scrivete un libro su soggetti che possono essere esauriti in un articolo di un settimanale, e di due parole non fate un periodo. Quello che un imbecille riesce a dire in un libro sarebbe sopportabile se lo dicesse in tre parole».11 Entro questa cornice rigorosamente “economica”, un moto d’impromptu, anche quando la disposizione è frutto di selezione a posteriori, presiede allo strutturarsi dei libri in journal, diario, sketch-book e zibaldone più simile a quelli di un artista, seppure i frammenti assumano talora tonalità da pamphlet, che non alle raccolte saggistiche, più compatte e costruite, di scrittori-intellettuali come Fortini, Pasolini o Calvino (ai cui temi, e al cui spessore morale, egli è peraltro così prossimo). Proprio per questo Oggetti smarriti12 (’96) che semplicemente ripropone la sequenza degli interventi di una rubrica settimanale,13 corrisponde benissimo al vagabondare metodico e disobbediente dell’autore, che riscopre in itinere – lo spiega l’Introduzione — i passaggi costitutivi della sua formazione, realizzando cosi una delle più belle autobiografie indirette che si sono lette da molti anni.14 Sarà il diverso rapporto che il genere “rivista” – ormai, si può dire, pressoché defunto – intrattiene con il tempo, a farne lo strumento privilegiato di Bellocchio? O l’esser lui, come sostiene Cases, il «primo giornalista di idee» di un’era poi degenerata nell’«odium antiideologico»?15 Comunque sia, una renitenza, una forma di diffidenza nei confronti del libro la si può cogliere anche in quanto egli scrive nella «Prefazione» all’Astuzia delle passioni, dov’è spiegato che quel libro doveva costituire la sua prima raccolta, in quanto già pronto all’inizio degli anni ottanta (prima, quindi, di Dalla parte del torto, 1989, e di Eventualmente, 1993) e poi non pubblicato se non dopo un lustro:
C’è come un sostrato di omissis (o magari di no comment…) a far da tessuto connettivo all’affiorare episodico e discontinuo della voce dall’al di sotto; che detta beffarde epigrafi a un presente imperturbabile e indaffarato nella sua losca o semiconscia routine. Sul lungo periodo, e a prescindere dalla diversa conformazione dei libri, sia la scelta per l’attenuazione, sia l’accento sarcastico dominante in tante pagine, si possono leggere, in filigrana, come risposta istintiva ai modelli cristallizzati e pressoché connaturati, antropologicamente, alla società italiana, d’intellettuale: da una parte il letterato narcisista-elegiaco, legato a confraternite ma separato dal mondo concreto in cui si svolgono le esistenze degli uomini; dall’altro l’opinion-maker saccente e al tempo stesso servile. Il senso delle proporzioni che fatalmente affligge Bellocchio — a prender troppo sul serio certe caricature si rischia non solo di perder tempo, ma per così dire di auto-opprimersi inutilmente — non è un riflesso snobistico, quindi, ma se mai claustrofobico, in quanto ha a che fare con il dislivello tra il mondo piccolo, chiuso, prevedibile, vociante, serioso e autoreferenziale della cultura nostrale e quello vasto, aperto, inesauribile di cui la cultura vera è espressione. E proprio a questo punto, a me pare, interviene quel che si potrebbe chiamare, un po’ provocatoriamente e obliquamente, il versante “romanzesco” della sua scrittura.
Mi spiego. È noto, ma ciononostante sottovalutato, il fatto che l’esordio di Bellocchio sia avvenuto con un libro di racconti: I piacevoli servi, del 1966.18 Riletto oggi, è un libro che colpisce per la prensilità nei confronti dei gerghi sociali e per il modo in cui l’io narrante si mimetizza in una voce, a essa asservendo trame ed effetti di realtà: una disposizione infrequente nella tradizione italiana, e più presente, per esempio, in quella inglese (Vanity fair è un titolo che suona in qualche modo familiare al lettore di Bellocchio), che a sua volta conferisce al testo una spiccata impronta “dialogica” nel senso di Bachtin, ovvero una permeabilità alle ideologie che però non comporta un annullamento in esse. Che c’entra tutto ciò con il saggismo? Nel caso di Bellocchio c’entra non poco, perché l’ipersensibilità per la sfera ideologica s’incarna nei suoi testi in personaggi, figure, dialoghi, e l’aforisma non è che la concrezione istantanea, la fissazione del movimento che aderisce al vissuto e, nell’aderirvi, scopre il carattere sociale (socialmente necessario, direbbe Adorno) dell’apparenza, la sua irrigidita nervatura epocale. Anche in Al di sotto della mischia è dal vissuto, o anche da un modo di dire che rinvia a strati memoriali e sociali, che traggono origine gran parte dei frammenti: Pensare in grande, Il vecchio Ettore, Mazzini, Gratis, La merda in cattedra…, e senza quei mini-racconti in cui niente è di troppo e tutto è essenziale, sino a far precipitare la storia in parabola, l’accensione polemica degli altri pezzi (con le tirate e i cataloghi di nefandezze che finalmente rispondono all’insolenza del mondo) avrebbe molto minore efficacia, proprio perché quanto è limitato all’agenda culturale e al dibattito intellettuale può sempre cadere nel ricatto dell’astrattezza e nel gioco dialettico della combriccola (globalizzata) dominante. Egli — l’io come strumento di questa operazione — può limitarsi a aprire per un attimo il sipario sulla scena, per uno scambio di battute o una telefonata intercettata per caso (si legga Due voci), ma questo — una luce romanzesca, densa e abbreviata, che giunge d’un tratto sul palcoscenico — è sufficiente a far balenare una serie di quinte, per cui senza accorgercene vediamo il presente in altra luce (e il nostro passato in esso, irrisolto), ed è un po’ come se dietro a Beckett («Non ho parole», «Ben detto!») o Pinter ritrovassimo d’un tratto Cechov, sempre senza allontanarci da un orizzonte domestico o familiare. Già questo, quanti altri han saputo farlo, in Italia? E se questo affiorare di quinte, questo versante romanzesco-teatrale (che dalla stagione di «Diario» in poi diviene più evidente) assume ora un tratto malinconico, e si fa più insistente con il passare del tempo, una ragione c’è: è un modo, anche questo, per parlare, di traverso, del deserto del nostro presente.
III.
In Eventualmente, a proposito di romanzo, si leggeva un breve testo intitolato, per l’appunto, Romanzo. Come altre prose, sembra consistere in un semplice aneddoto, qualcosa che sta tra lo spunto autobiografico e l’apologo (o per usare un’espressione, naturalmente riduttiva, della prefazione al libretto: «tra la saggistica e il cabaret», p. 7). Con l’amico romanziere che, di anno in anno, con insistenza gli chiede «a che punto è il romanzo», il nostro cerca di essere rassicurante, smentisce l’ipotesi che tiene in ansia l’amico (quella di star scrivendo un romanzo); tuttavia non riesce del tutto convincente:
A veder bene, entro questa cornice di riferimenti si può situare anche, da un punto di vista più generale, il tentativo che a livello di pensiero essi presuppongono, al di là degli obiettivi polemici contingenti: salvare un’istanza di tipo “illuministico” – nel senso egualitario e dell’emancipazione – svincolandola dal progressismo, quest’ultimo essendo la bestia nera del nostro (qui il punto d’incontro con Leopardi, e nel Novecento con Timpanaro). Sul piano stilistico il comporre per frammenti, ognuno con un titolo che rimanda al concreto e a una specie di diario-enciclopedia del vissuto-alienato (Dietologia, Neppure guardano, Mangiare male…) ha i precedenti più memorabili proprio in Adorno e Horkheimer (in Italia solo Fortini ne ha dato esempi riusciti), i quali a loro volta avevano assimilato la lezione proustiana (e di Nietzsche) e sulla “dialettica dell’illuminismo” hanno pur detto qualcosa. Né importerebbe sottolineare quanto sia giusta e fondata, anzi sacrosanta, la protesta di Bellocchio nei confronti della razionalità strumentale e del dominio da essa imposto sulla natura e sugli uomini, non fosse questa una di quelle posizioni sottoposte a tabù, travolte e seppellite dall’offensiva congiunta di “destra” e “sinistra” (ma soprattutto di quest’ultima, e specie nella perniciosa variante italico-postcomunista), proprio nel momento in cui le conseguenze più evidenti, e tragiche, del “Pensiero Unico” si sono imposte in senso “globale”, dispiegando tutta l’aggressività di un progetto che ormai non ha più nemmeno da nascondere le proprie sanguinose contraddizioni. Del resto, a tratti Bellocchio sembra volerci far credere che le sue sono idiosincrasie da ritardatario, tratti caratteriali non immuni da un patologico arcaismo; ma sono, queste, astuzie della ragione passionale, che possiamo ravvisare anche in quei suoi avi prima evocati, che avevano ben visto cosa si celasse dietro la favola delle magnifiche sorti. Una salutare paura è il sentimento che molte pagine di Bellocchio sembrano consigliarci di fronte alla macchina della modernità tecnologica e ai suoi inossidabili adepti.21
IV.
«Come il vincitore scrive la storia, così fabbrica l’opinione». Questo si legge in Chi perde ha sempre torto, che poco sopra annota:
In base a quest’ottica e con l’occhio fisso al particolare, La guerra in francobollo si occupa di decifrare la mistificazione filatelica della storia: il pezzo ha un rilievo paradigmatico, a mio avviso, proprio in quanto ricostruisce a partire da ciò che è per definizione minuscolo un’operazione tanto abnorme quanto significativa del rapporto che il paese “ufficiale” (la “nazione” nel suo aspetto istituzionale e nei suoi ranghi dirigenti) intrattiene con la propria storia. I campi di concentramento, Anzio e Nettuno, Roma città aperta…, tutto nell’allegoria postale di una nazione celebrativa e insieme immemore subisce un trattamento equivoco e elusivo, un depistaggio. C’è qui una eco, magari, dei Miti d’oggi di Barthes, per l’abilità nella decostruzione degli ingannevoli micro-scenari in cui la storia è condensata e resa irriconoscibile, ma c’è anche e soprattutto la cognizione esatta del fine a cui tende il lavoro degli ignoti sceneggiatori: «II senso profondo di tutta la sequenza è (vuole essere) uno solo: non è successo niente».26 Mistificazione, quindi, non è il termine esatto: nelle scelte e nelle omissioni della serie di francobolli, il cui «squallore grafico», osserva Bellocchio, «fa tutt’uno con la miseria culturale, politica, morale» che ispira il manufatto, emerge un’intenzione ben più profonda, la cancellazione del senso di avvenimenti che a loro volta erano l’esito di scelte, di interessate omissioni e mistificazioni (quelle sì) per le quali persero la vita milioni di donne e uomini. Non è successo niente: un’ingiunzione, o una rassicurazione? Tutt’e due le cose, forse. L’importante è la narcosi, lo stato confusionale in cui va persa la nozione stessa delle parti in conflitto, degli interessi in gioco, dei diversi valori e fini che orientavano l’agire e della diversa posizione di chi decideva e di chi le decisioni subiva (e così oggi, che viviamo tutti in un brutto francobollo). Per questo, dietro la rassicurazione c’è un’altra affermazione, meno rassicurante, anzi minacciosa, che Al di sotto della mischia vorrebbe, senza dirlo, scongiurare: tutto quindi può ancora ripetersi.
Sempre la storia, e la sua manipolazione, sono al centro di Perché Mussolini perse il potere?, e anche qui la contestazione di Bellocchio colpisce i luoghi comuni e l’uso di generalizzare cancellando la realtà. La sua polemica non è svolta per nulla in astratto, bensì a partire da dati di fatto concreti, inoppugnabili ma quasi sempre trascurati. Allo storico che parla della «grande maggioranza degli italiani che durante il regime avevano assicurato il consenso a Mussolini» e che «glielo rifiutarono nel 1943 perché il progetto di una guerra breve e vittoriosa si era dimostrato un inganno», Bellocchio ricorda che a quell’epoca «la “grande maggioranza” del paese era del tutto esclusa dalla possibilità, non già di esprimerla, ma di formarsela, un’opinione. La “grande maggioranza” viveva a un livello pre-politico».27 È, questo dell’autore, un modo per far parlare una zona silenziosa, invisibile, senza storia: quindi per non espropriarla una volta di più. Il pezzo va letto insieme a Pensare in grande, che prende spunto non da un libro ma da un incontro casuale in treno, e arriva poi alla sua conclusione in contrappunto ad un’altra di quelle micidiali banalità di cui è infarcito il “discorso pubblico” sulla storia patria. In un dibattito televisivo (ovviamente bipartisan) all’«intellettuale di orientamento fascista» è fatto osservare che l’Italia venne gettata del tutto impreparata in guerra: «Quando si pensa in grande, si fanno anche grande errori», egli risponde. Commento di Bellocchio:
V.
La cocciuta lealtà di Bellocchio ai suoi silenziosi committenti – la cui assenza, dopo tutto, non è priva di una certa eleganza, visto lo spettacolo del mondo – è fondamentalmente estranea alla cultura italiana, anche nei suoi versanti più dediti all’ironia ed alla polemica, quasi sempre segnati da un che di esibizionistico, ma in compenso poveri di prospettiva storica. Ne le è meno estraneo il suo saggismo, fedele ad alcuni grandi outcasts (Kierkegaard, Simone Weil, Orwell), che trova nel vissuto e nell’esperienza il proprio terreno elettivo: ciò conferisce alla prosa – poiché Bellocchio è uno scrittore vero – una resistenza e una consistenza che, non fosse la definizione magniloquente e screditata, bisognerebbe dire di “classico”. Qualunque ne sia il nome, questo consistere e resistere – con la forza sotterranea che l’ironia nasconde e rivela ad un tempo – è del tutto coerente con il tagliar corto dello stile, come di chi operi per mantenere una zona di rispetto e d’isolamento, zona in cui il frammento possa risuonare più intensamente e liberamente, affidato al flusso casuale degli incontri e degli scontri, nel prisma effimero dei riverberi sociali ma, allo stesso tempo, dentro un tempo lungo, segretamente condiviso, accomunante (direbbe Sereni); qualcosa che aspira ad una “trasmissione orale”, citabile all’occorrenza, che ferisca come un’arma impropria passata di mano in mano, di nascosto, e d’improvviso e silenziosamente apparsa nella mischia.
C’è alla fine di Antifascismo e Resistenza una lunga citazione da Noventa in cui è racchiuso un che di fondante, dal valore esemplare, per lo stile (in senso lato: morale) e il punto di vista eterodosso di Bellocchio. Ne riporto le frasi conclusive:
Il filo che tiene insieme i frammenti, ognuno dei quali vorrebbe riflettere in sé un frammento del tempo, si accorda dunque a una scrittura che privilegia il particolare, il non-finalizzato, e si ritrae dai sistemi e dal “sapere” onnisciente ma rivolto al passato. Per questo al vero saggista è indifferente parlare di un film, di un incontro in treno o per strada, di un libro, di un caso giudiziario o di un fatto di cronaca: per lui anche i giocattoli33 hanno qualcosa da insegnare, che ci riguarda. D’altra parte, dispersi tra i frammenti troviamo pure dei saggi di più spiccato argomento letterario, che da soli basterebbero a stabilire la statura di un critico d’eccezione: mi limito a ricordare, per la poesia e quanto ai connazionali, L’itinerario poetico di Raboni (in L’astuzia delle passioni) e i due saggi su Pasolini, il primo in Dalla parte del torto (L’autobiografia involontaria di Pasolini, sulle lettere dello scrittore) ed il secondo, già citato, di Al di sotto della mischia, Disperatamente italiano (ma non son meno penetranti le pagine su Isherwood, Orwell, Celine nell’Astuzia). Quel che ci viene proposto da Bellocchio, in questi casi, è profondamente diverso (e più prezioso) di quanto possiamo ricavare da studi o discorsi che abbiano inizio e fine in luoghi come le università di oggi (per non parlare dei variopinti, affollati e complementari outlet della cultura reificata): è un ritratto che, mentre parla d’altro, parla di noi, ci costringe ad abbandonare la sponda rassicurante dei luoghi comuni, indicandoci mancanze non più percepite, storie e promesse dimenticate. Quando nel pezzo che funge da prefazione al suo libro (Essere o non essere cattivi) Bellocchio si augura «di trovare qualche giovane che legga queste cose per la prima volta e per quello che dicono» (p. 14), questo è anche il miglior augurio che possiamo fare a noi stessi.
VI.
Di quel lettore, quando verrà, mi piace immaginare che indugi su uno degli ultimi frammenti del libro, intitolato La felicità. E mi domando se gli passerà per la mente, al giovanotto, che un titolo del genere solo un libro di Bellocchio, nel nostro infelice paese e nel nostro tempo, può permetterselo. Leggendo quel titolo, forse gli verrà in mente Tolstoj, e magari (sbagliando) penserà poi d’aver sbagliato, che non c’entra niente. In effetti non è un romanzo, né un racconto, e non ci vuole molto spazio per citarlo.
[«Il ponte», 65, 4, Aprile 2009, pp. 165-183]
1 Vedi quanto scrive lo Stesso Bellocchio in Essere o non essere cattivi, testo d’apertura di P. Bellocchio, Al di sotto della mischia. Satire e saggi, Milano, Libri Scheiwiller, 2007, p. 11.
2 Di sconfitta parla il finale del libro, l’ultima pagina del saggio Disperatamente italiano. Pasolini e la politica. «La “fine della nostra storia”, cioè della speranza politica, annunciata da Pasolini vent’anni prima, e ora davvero finita, doveva coincidere con quella della sua privata esistenza» (p. 231). Scritte nel ’99, queste parole (se ne legga il commento di Fortini in Attraverso Pasolini) rinviano il lettore al 1975, e l’orizzonte del discorso di Bellocchio comprende qui il fatale ’78 per sporgersi fino al presente: «Poco più di due anni dopo la sua morte, ci sarebbero stati il rapimento e l’assassinio di Moro, la Dc già data per spacciata che risorge e governa per un altro decennio, l’avvento del craxismo, il crollo dell’Urss e del comunismo, lo spappolamento ideologico, la continua degenerazione della moralità e del gusto, i romanzi di Eco, l’irresistibile e felice corsa all’involgarimenro e all’istupidimento… Pasolini che aveva già visto nella televisione lo strumento del “genocidio culturale”, che cosa avrebbe ancora potuto dire contro la mostruosa telecrazia dell’ultimo ventennio?» (ibidem).
3 To the Person Sitting in darkness, 1901: la traduzione italiana si legge in Mark Twain, Alla persona che siede nelle tenebre. Scritti sull’imperialismo, a cura e con introduzione di A. Portelli, Santa Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2003, pp. 45-69.
4 Cfr. ancora P. Bellocchio, Essere o non essere cattivi cit., pp. 8-9.
5 P. Bellocchio, Dalla parte del torto, Torino, Einaudi, 1989, p. 55.
6 G. D’Amo, «Ciò che dobbiamo pur chiamare fraternità. Satire e saggi di un moralista ostinato», in Dieci libri dell’anno. Letteratura e critica, presentazione di A. Berardinelli, Milano, Libri Scheiwiller, 2008.
7 P. Bellocchio, L’astuzia delle passioni. 1962-1983, Milano, Rizzoli, 1995. Il titolo, come annotava Cesare Cases in una recensione («Indice dei libri del mese», 9 ottobre 1995) è «l’inversione di una famosa espressione hegeliana»: «Bellocchio è infatti contro Hegel e per Kierkegaard, contro la ragione e per la passione, contro l’universale e per il particolare» (ibidem).
8 P. Bellocchio, Eventualmente, Milano, Rizzoli, 1993.
9 Basti ricordare in chiave politica Perché è stato condannato Aldo Braibanti (1968), Riflessioni ad alta voce su terrorismo e potere (1980); o in chiave critica A proposito di Barry Lindon (1977), pezzi che ancor oggi colpiscono per la lucidità e l’ampiezza d’orizzonte critico.
10 P. Bellocchio, Dalla parte del torto cit., p. VIII.
11 G. C. Lichtemberg, Osservazioni e pensieri, scelta, introduzione e traduzione di N. Sàito, Torino, Einaudi, 1975, p. 71.
12 P. Bellocchio, Oggetti smarriti, Milano, Baldini & Castoldi, 1996.
13 I pezzi erano usciti sul supplemento libri de «l’Unità» tra il gennaio 1992 e il luglio 1993 (cfr. «Introduzione», p. 7).
14 Voglio qui rammentare anche Incipit. Cinquant’anni cinquanta libri (1953-2003) di Pier Cesare Bori (Genova-Milano, Marietti, 2005).
15 C. Cases, recensione cit. e G. D’Amo, Ciò che dobbiamo pur chiamare fraternità cit. La definizione, anche qui, non va accolta in senso ristretto, cioè riferita ai sessanta, ma in senso ampio, a comprendere l’epoca che dall’llluminismo si spinge, nel Novecento, fino a figure d’intellettuali come Kraus o Tucholsky.
16 P. Bellocchio, L’astuzia delle passioni cit., p. VII.
17 Vedi quanto auspica Bellocchio in chiusa a Essere o non essere cattivi: «”Essere lasciati in pace”: desiderio profondo, serio proposito, la miglior condizione per lavorare a proprio talento» (p. 14). Quanto alla pigrizia, chissà che non appartenga al genere sperimentato da Baudelaire, quale si evince da una prefazione inedita alle Fleurs, e strettamente connessa allo strepito delle gazzette: «mais j’ai eu l’imprudence de lire ce matin quelques feuilles publiques; soudain, une indolence, du poids de vingt atmosphères, s’est abattue sur moi, et je me suis arrétè devant l’épouvantable inutilité d’expliquer quoi que ce soit a qui que ce soit…» (C. Baudelaire, Oeuvres complète, I, Paris, Gallimard,1975, p. 182 [Projects de préfaces]).
18 P. Bellocchio, I piacevoli servi, Milano, Mondadori, 1966. Il titolo fu suggerito da Franco Fortini.
19 In margine alla parola “colleghi”, un ricordo personale. Una volta arrivai a casa di Franco Fortini mentre stava ascoltando un programma radiofonico. Era un dialogo a più voci su un romanzo che al tempo stava suscitando grandi discussioni, e due intervistati erano critici letterari molto noti, che Fortini conosceva bene e stimava. Il programma era appena iniziato e dopo le presentazioni i due cominciarono a farsi i complimenti, in una tonalità affettuosa e insieme signorile, che denotava distinzione e familiarità. Il preludio, che pareva deliziare il curatore del programma, andò assai per le lunghe; quando ebbe termine, e stavano iniziando gli interventi sul tema, Fortini spense la radio. «Questi sono i miei colleghi», disse; e senza ulteriori commenti cominciò a conversare con il suo meravigliato ospite.
20 Th.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, introduzione di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1954, pp. 11-12.
21 II tema era già presente in Astuzia delle passioni (Licenza di uccidere. II camion assassino) e torna in I doni di Arimane (con richiamo esplicito a Leopardi), raccolto tanto in Eventualmente che in Al di sotto della mischia. Per una posizione non dissimile si vedano per esempio i due pezzi sulle Macchine (1960-69) di G. Anders in L’uomo è antiquato. II. sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 99-115.
22 In P. Bellocchio, Al di sotto della mischia cit., p. 80.
23 Ivi, p. 95.
24 Sul piano tematico e dei contenuti, all’universo di Rabelais rimanda l’accento spiccatamente materialistico di molte pagine, in cui si tratta per esempio di cibi e riti gastronomici (ma anche, con una certa frequenza, di merda); su quello stilistico, l’impostazione satirico-paradossale, con il ricorso a elenchi e enumerazioni iperboliche che gremiscono la pagina come per “rincarare la dose” di fronte alla saturazione del reale-negativo, tratto ricorrente specie in Dalla parte del torto (cfr. Un’eco è un’eco è un’eco è un’eco…, p. 67 e passim; Bianco e nero, p. 169).
25 P. Bellocchio, Disperatamente italiano. Pasolini e la politica cit., p. 229.
26 P. Bellocchio, La guerra in francobollo, in Id., Al di sotto della mischia cit., p. 166.
27 P. Bellocchio, Perché Mussolini perse il potere?, ivi, p. 135.
28 P. Bellocchio, Pensare in grande, ivi, p. 123.
29 Vedi quanto osserva egli stesso nel saggio Antifascismo e Resistenza, in Id., Oggetti smarriti cit., pp. 133-134.
30 Vedi P. Bellocchio, La guerra nelle parole del popolo (ivi, pp. 127-131) che tratta di L. Spitzer, Lettere dei prigionieri di guerra italiani 1915-18, Torino, Boringhieri, 1976. Nell’attenzione ai “senza storia” si può cogliere una affinità non generica con un intellettuale come Danilo Montaldi.
31 P. Bellocchio, Antifascismo e Resistenza, cit., p. 136.
32 Ivi, p. 135.
33 Vedi ad vocem in P. Bellocchio, Eventualmente cit., pp. 23-26.
34 P. Bellocchio, La felicità, in Id., Al di sotto della mischia cit., p. 195.