Sono contemporaneo della stanchezza del pianeta e della tracciabilità di vite innaturalmente lunghe, come le nostre. La scrittura – che io non considero più un’arte – accompagna il fatto che tutto è in tutto, per tutti: prima di una spaccatura – interpretabile anche come santità naturale e necessaria – che renderà diversa la comunicazione, domani. Non esiste più una sola realtà, come non è mai esistita una sola lingua sotto un solo clima. Tutto è in tutto, e la scrittura non è libera di liberarsene.
2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?
La riduzione del poeta a giocatore non è umile. Il giocatore conosce e ostenta le regole del gioco: dunque anche la «forte componente metapoetica» o la profondità etica del suo lavoro. Di questa profondità autocritica io non rido; cerco di praticarla il più possibile; ma vale come virtuosità interna al collettivo italofono (e italografo), del tutto marginale nel mondo. Quanto a me: io non scrivo per fare poesia. Se dicessi che la poesia si serve di me direi o una cosa ridicola – ma vera – o un koan indimostrabile. In realtà, la metapoesia è la morte della poesia, e anche questa pagina di risposte è sia morte sia metapoesia. È molto meglio che la poesia muoia liberamente, senza gabbie e tavole autogestite. La sua morte non è futura, ma presente: si distrugge il Tempio (dell’uso della lingua, della lingua dell’uso), che sarà riedificato – molto diversamente, e per scopi diversi dalla sperimentazione di un nuovo verso o dalla riesumazione di una vecchia forma. La poesia uscirà dal dominio dell’arte: per il suo stesso bene, e non solo per il suo bene.
3. «Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto […] In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione» (Fortini, Sui confini della poesia). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa, grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti, flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro. Come entra in dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati investi le tue operazioni di formalizzazione?
La formalizzazione può riguardare tanto le sillabe contate in un verso quanto la struttura di un libro. La questione della forma-libro è sempre fondamentale: o canzoniere o Liederbuch, come da sempre. Ma la poesia in versi non è tutta la poesia; e non tutta la poesia è poesia scritta; e non è solo verbale. Perché un gesto non dovrebbe essere poesia? Lo è. Lo sforzo e il progetto di cui parla Fortini sono caratteri universali: applicabili sia ad un arazzo di Alighiero Boetti sia ad una pagina ben scritta (e soprattutto ad un libro di poesia.
4. La traduzione «può essere aspirazione a ricevere da un’opera compiuta nel passato quel sussidio alla completezza che l’operare nel presente, per definizione, non ha» (Fortini, Prefazione al Faust). Ritieni valida l’idea di traduzione come tensione vitale nei confronti di una tradizione? Qual è il tuo rapporto con la traduzione e con la poesia contemporanea in lingua straniera?
La traduzione di un inedito è l’immissione del nuovo in ciò che è meno nuovo: quasi un virus, come furono virali i Canti pisani di Pound. Ogni giorno la nostra mente traduce, così come censura e tace. Quanto al mio «rapporto con la poesia contemporanea in lingua straniera», considero una lingua straniera anche l’italiano scritto: perché non è una lingua veramente – e spontaneamente – parlata e perché i soli poeti contemporanei che abbia veramente amato e studiato sono Rosselli e Pasolini (la prima non era italiana, né per formazione né per origine; il secondo non era più un poeta nel senso tradizionale). «Il futuro è tolto ai nostri giorni»: sussurri tra Leopardi e un’assente di cui si può solo toccare la mano, solo per un istante, e solo in sogno. Intendo come allegorie sia la donna sia la mano.
5. Mengaldo ha definito la “funzione Fortini” come «integrale politicità della poesia» (Divagazione in forma di lettera). La politicità della poesia consisterebbe sia nella scelta di rappresentare determinati contenuti politici e sociali, sia nell’uso non conciliante della forma. Riconosci una “funzione Fortini” nella poesia contemporanea? In che modo si rapporta al tuo lavoro?
L’ardore intellettuale crea formule, compresa quella di una «funzione Fortini». Queste formule non guardano l’idea più semplice – il pubblico –, senza il quale una forma non è una forma, ma un’ombra o un embrione disseccato, in una «cieca stanza». Il pubblico non è considerato un problema critico o intellettuale: infatti il pubblico non c’è, in mancanza di una vera vocazione pubblica (del poeta nei confronti del pubblico, non del pubblico nei confronti del poeta). Così Fortini è vivo e già morto; ancora vivo e non ancora morto del tutto; e morto, rispetto ad istanze che il mondo – non fatto solo di particelle italiane, e minimamente italofono – ha creato nuove, insieme ad una moltitudine di giovani, per i quali la nostra tradizione non è niente. [Di questa commistione, a dire il vero, Fortini è stato un emblema vivo, come Saulo: ebreo e protestante, rigoroso fino all’eccesso – dunque straniero, per molti motivi, nella patria in cui era profeta. Ma per Fortini, prima di tutto italiano, la tradizione italiana era qualcosa: oggetto dell’amore, prima che dello studio].