Nessuna delle trasformazioni della realtà contemporanea è decisiva. Ognuna di esse, comunque, ha effetto sul mio lavoro. Se a distanza di un giorno o di un anno, scrivo due poesie diverse, è segno che il mondo (e me in esso) si è trasformato. Ma essendo un dato costante del mondo, la trasformazione non si trasforma mai.
2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?
Si scrivono poesie anche sui fatti propri. Scrivere poesie è a sua volta uno di questi fatti, uno dei più curiosi, un bizzarro, serissimo miracolo di “idiozia”. È normale che si provi il desiderio di scrivere poesie su questo fatto così strano e necessario. È come quando un pittore dipinge una natura morta: riflette sulla pittura stessa, su ciò che gli capita di fare, sugli strumenti con cui lo fa. Se ciò da circa centocinquant’anni avviene più spesso, è perché rispetto a prima scrivere poesie sembra un’azione più da spiegare e spiegarsi.
3. «Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto […] In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione» (Fortini, Sui confini della poesia). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa, grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti, flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro. Come entra in dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati investi le tue operazioni di formalizzazione?
La frase citata di Fortini fa capire la differenza fra l’espressione (il grido, il saluto, il pianto, il sesso) e la forma, ovvero l’arte, trasmessa, voluta, inseguita, infine consapevole. L’arte è etico-politica in sé perché rappresenta la capacità di invenzione del mondo (non parlo di “realtà”, perché il mondo non è solo reale, è anche fantasticato, sognato, rinnegato, cancellato, riemerso ecc.) e dunque una sua possibile traduzione in termini, una sua riflessione soggettivamente “spostata”. L’arte infatti è oggettiva e personale: oggettiva perché parla di ciò che c’è (a tutti i livelli di “realtà”) attraverso suoni o immagini condivise che precedono e impregnano l’individuo, personale perché educa all’hic et nunc della sua creazione, al suo essere storica e mutevole, angolare. Per questo suo eterno mutare, l’arte (vedi la prima risposta) non cambia mai. Ma chiunque la pratica e la diffonde, se ne prende la responsabilità pubblica e politica.
4. La traduzione «può essere aspirazione a ricevere da un’opera compiuta nel passato quel sussidio alla completezza che l’operare nel presente, per definizione, non ha» (Fortini, Prefazione al Faust). Ritieni valida l’idea di traduzione come tensione vitale nei confronti di una tradizione? Qual è il tuo rapporto con la traduzione e con la poesia contemporanea in lingua straniera?
Ciò che dice Fortini è valido anche per me. È vero infatti che per quanto possiamo intuire nelle nostre poesie una compiutezza dialogante col passato, è quasi impossibile che esse – nell’arco di dieci o quarant’anni – assumano gli echi e i pesi e gli alleggerimenti (delle parti caduche) di un’opera classica. Con la traduzione consentiamo alla parola altrui e alla sua storia umana di attraversarci e maturarci, o anche di rimandarci a una nostra più ricca infanzia. Sulla “tradizione”: io la penso essenzialmente al futuro, tradizione è continuità nella trasformazione, ri-esistenza di pensieri e parole, amoroso conflitto vitale fra essere già compiuti e esseri non ancora compiuti, che si continuano anche aspramente, senza idilli. Il mio rapporto con la poesia contemporanea straniera è piacevole, e dunque come nell’uso dei piaceri vede alternarsi periodi di intensità e di pigrizia malinconica. I poeti non italiani mi danno immagini e stimoli anche quando i poeti miei concittadini mi deludono. Così, se i francesi di oggi mi sembrano in buona parte tardoermetici e impaludati nella falsa frattura fra significante e significato, il gran mare della poesia anglosassone mi chiama spesso a qualche, appunto “piacevole”, navigazione. Più sporadiche sono le letture da altre lingue, ma occasionalmente importanti. E sto cominciando a tradurre io stesso. Ma in generale, essendo la poesia una musica verbale pensante, è straordinario sintonizzarsi su un altro modo di attivarla, su un’altra coerenza sonora e memoriale, su un altro pentagramma. È frustrante e creativo.
5. Mengaldo ha definito la “funzione Fortini” come «integrale politicità della poesia» (Divagazione in forma di lettera). La politicità della poesia consisterebbe sia nella scelta di rappresentare determinati contenuti politici e sociali, sia nell’uso non conciliante della forma. Riconosci una “funzione Fortini” nella poesia contemporanea? In che modo si rapporta al tuo lavoro?
Più che ai determinati contenuti politici e sociali, mi sento vicino all’uso non conciliante della forma. Attualmente, in Italia va molto in voga una poesia soggettivistica e narrativa, ombelicale, alla ricerca di una parola “innocente”. Nulla di più distante da me. Anche la mia lettura di Saba, Penna e Caproni è del tutto diversa. È come se fosse trafilata da Montale e Fortini, e dal Sereni degli Strumenti. Su un altro piano: affermare – come ho fatto sopra – che nulla si trasforma davvero è anche una dura protesta contro l’idolatria del “nuovo” imposta dal capitalismo. Assomiglia al fatalismo “indiano”, o gattopardesco, ma è anche il rifiuto di un atteggiamento mentale che si riconosce soltanto in una serie di “rivoluzioni” (industriali: la prima, la seconda, la terza…), di superamenti e fratture, di continui avanzamenti e di cattiva infinità. La quale maschera tecnologicamente il crescente esproprio della nostra malandata, entropica e disturbante, ma anche affettuosa e arcaica, fissità interiore.