«Io piango un io
orfano di noi»
Per ricordare Ivan Della Mea
(con un testo di Franco Fortini)

Marco Gatto

«Il de Martino», organo dell’Istituto intitolato all’etnologo italiano più importante del secolo scorso, ha dato recentemente alle stampe due numeri gemellari interamente dedicati al lavoro di Ivan Della Mea, cantautore, scrittore, giornalista e militante comunista, che dello stesso Istituto fu presidente dal 1996 al 2009. Il n. 29 (2019) ha un titolo significativo e autobiografico – Il penultimo comunista – e raccoglie, per la cura di Antonio Fanelli e Mariamargherita Scotti – che firmano inoltre i due densi e importanti saggi di accompagnamento –, una cospicua serie di scritti politici pubblicati tra il 1993 e il 2009 su diverse testate giornalistiche (da «l’Unità» a «il manifesto», fino a «Liberazione»). Il n. 30 (2020), invece, intitolato, quasi programmaticamente, E chi può affermare che un sampietrino non fa arte?, e curato da Jacopo Tomatis (anche autore del saggio introduttivo), colleziona gli scritti sulla musica editi lungo un arco di tempo più ampio, dal 1965 all’anno della morte, e comparsi su vari periodici, alcuni dei quali di vasta diffusione, come «Amica» o «Epoca».

Un utile esercizio di lettura consiste nel compulsare le due raccolte dialetticamente, lasciando emergere le continuità, le fratture, le inevitabili diversioni. Le prime riguardano l’intima coerenza ideologica di Della Mea, che rimase costantemente legato a un’idea di militanza quotidiana a favore degli ultimi, anche e soprattutto quando attorno a lui andavano liquefacendosi i soggetti politici storicamente legati alla lotta per la giustizia sociale. Il suo rapporto col Pci – ben documentato e descritto dal saggio di Scotti, che in appendice presenta un prezioso carteggio tra Della Mea e Loris Barbieri, allora incaricato (siamo nel 1974) di valutare la richiesta del cantautore di rientrare nel partito, dal quale si era in precedenza allontanato – testimonia la necessità umana di una partecipazione viva ai processi politici e di una relazione costante con quella che un tempo si chiamava la “base”, vale a dire quella collettività fatta di militanti, attivisti, donne e uomini, animata da una profonda idea di condivisione e impegno, che fu la ricchezza dell’avventura comunista in Italia. Ma la scelta di militare, dopo il ’68 e lungo gli anni Settanta, testimonia pure la necessità di dare forma e senso al sentimento condiviso di giustizia e uguaglianza, di credere cioè nella mediazione che il partito organizzato a quell’altezza riusciva ancora a garantire, nonostante l’incipiente tracollo inaugurato dagli anni del riflusso. Come scrive Fanelli, la tensione politica di Della Mea sta tutta nella necessità di «fondere l’anima solidaristica e ribellistica del sottoproletariato con l’organizzazione politica e la guida morale del Pci», accanto alla sperimentazione artistica che egli, in prima persona, mise in campo con la canzone di protesta.

È questo attaccamento alla quotidianità dell’esperienza militante a colpire negli scritti politici, dietro i quali immaginiamo sempre il frequentatore dei centri di aggregazione e delle strutture territoriali di socializzazione (come il circolo Arci Corvetto di Milano), ovvero di quei luoghi in cui la vita delle persone, i loro problemi, le loro necessità, l’insieme delle contraddizioni politiche, si rendevano evidenti, stimolando la riflessione sulla concretezza dell’agire e sulle soluzioni da formulare. Nell’attenzione all’esistenza degli ultimi e a quelle sacche di marginalità troppo velocemente dimenticate da apparati di partito sempre più distanti, si concentrava la cifra della militanza di Della Mea. La quale può essere definita come effetto di un comunismo etico, sentimentale, utopico (sono gli aggettivi utilizzati da Scotti nel suo saggio). Un comunismo che, attraverso la scrittura di testi, canzoni, volantini, comunicati, si presenta a noi, grazie ai due numeri de «Il de Martino», nelle forme di un «montaggio quasi cinematografico di frammenti di militanze passate e presenti, di compagni scomparsi e di altri ancora in piena attività, di battaglie definitivamente chiuse e di lotte ancora tutte da inventare» (ancora Scotti) e alla stregua di una permanente antropologia del sentire politico (qui richiamando l’ipotesi di Fanelli) che, volendo accogliere tutta la ricchezza del reale, pone se stesso in auto-verifica, in costante rielaborazione dei suoi presupposti. Ciò permette, in fondo, quell’anti-intellettualismo che non è rinuncia alla cultura e alla tradizione, ma allargamento della cultura stessa allo spazio esteso della società, senza tabù o preconcetti, senza snobismi aristocratici e dottrinari.

Quest’ultimo aspetto permette di leggere e valutare le oscillazioni più evidenti che emergono dagli scritti sulla musica. Come nota Tomatis, certe pagine possono apparire spiazzanti. Perché dove ci si aspetterebbe una critica ideologica del consumismo culturale, si finisce per trovare, al contrario, empatia e curiosità, entrambe probabilmente dovute anche alle strettoie e alle necessità del lavoro giornalistico. Ma parlare di Vasco Rossi, della World Music o di MySpace diventa, alla luce della particolare postura militante di Della Mea, un modo per interrogare la realtà delle cose senza cedere a facili ideologismi: lo sguardo si fa allora più nettamente antropologico, più chiaramente orientato alla comprensione di forme sociali nuove, nelle quali scorgere il significato della mutazione in corso. Ed è in fondo, anche questo, il contrassegno di una necessità: abbracciare criticamente la totalità dell’esistere, purché di quella stessa totalità si faccia reale esperienza (con inevitabili riflessi sullo stile di scrittura, teso radicalmente all’accumulo, all’ipotassi, alla frequentazione, seppure non pasticciata, di diversi registri: uno stile che può certamente disturbare). L’irresolutezza degli scritti musicali può essere dunque pensata accanto alla riflessione sulla dissoluzione della sinistra e al tentativo di cercare un significato unitario allo sfilacciamento pervasivo di valori, questioni, problemi. Della Mea si trovò a ragionare sulla perdita dei riferimenti politici e sul disorientamento collettivo, che egli vedeva come terreno di conquista per la destra. Riuscì a osservare la penetrazione dell’ideologia consumista negli stessi militanti con cui si intratteneva e con cui aveva costruito un’ideale condivisione politica, e riuscì a scorgere il fascino esercitato da imprenditori di successo di lì a poco pronti a scendere in campo. E ciò fu possibile in nome di una capacità di interrogazione diretta di quei processi. Un verso può condensare questa esperienza di vita e di militanza, e comunicarne le incertezze, le sconfitte, le speranze e le “disperanze”: «Io piango un io orfano di noi» (lo si legge come explicit di La sboccata: de Martino 3, scritta a Sesto Fiorentino il 6 settembre 1996 e poi raccolta in La cantagranda, edita nel 1998 da Bandecchi & Vivaldi; e Carlo Alberto Madrignani, autore di un’estesa introduzione a questa silloge, ritenne questo verso giustamente esemplare e indicativo).

Negli scritti sulla politica compare più volte il nome di Franco Fortini, compagno di strada e interlocutore diretto, nonché autore della famosa Internazionale cantata e incisa da Della Mea (la troviamo anche nel cd allegato al n. 29 de «Il de Martino»). Su «l’Unità» del 30 novembre 1994 il cantautore firmò un ricordo assai penetrante del poeta appena scomparso e della sua «solidarietà critica». Una solidarietà «sempre scomoda […], mai accomodante, mai di maniera perché sempre consonante al ruolo, suo, e che lui si era dato: quello dell’intellettuale davvero compagno perché davvero critico». Fortini aveva scritto, nel 1992, una densa nota di commento a un testo poetico di Della Mea, la Cantata ambrosiana, una sorta di magmatico poemetto articolato in diciannove momenti e caratterizzato da aspre tensioni stilistiche, ma anche da un rimando iperletterario a schemi metrici e formali della tradizione. Ne diamo un piccolo assaggio in appendice. Ritroviamo la nota fortiniana e la Cantata nella raccolta del ’98, accanto al testo del già citato Madrignani, a uno scritto di Antonio Resta e alle belle tavole illustrative di Simonetta Melani. Ma Fortini è una presenza viva negli stessi versi. Lo vediamo sfilare accanto a Panzieri, Bosio, Pirelli e ad altri protagonisti della sinistra radicale nelle poesie che Della Mea scrive a Sesto Fiorentino intorno al 1996, legate alla sua esperienza di presidente dell’Istituto de Martino (si veda il secondo testo in appendice) e costola importante della Cantagranda. Le considerazioni critiche di Fortini sulla Cantata, che riproponiamo integralmente di seguito, rappresentano senza dubbio il sigillo di un confronto empatico fra compagni di idee e sono arricchite da un commento di Della Mea (firmato col nome anagrafico, Luigi, accanto a quello acquisito successivamente, Ivan), che è opportuno riportare, non solo per dovere si completezza:

Non ricordo più di preciso, inverno di fine ’90 credo, mi vidi con Franco Fortini al Circolo Arci Corvetto di Milano. Parlando della Cantata ambrosiana, d’una sua prima lettura veloce, la sua parola più frequente fu “curiosità”.

Mi disse che aveva una sensazione di “non finito”. Era vero e glielo confermai e gli dissi d’una discesa dal piano generale al particolare soggettivo costretta più che indotta dalla solitudine di quell’“io” a chiusura della decima lassa.

Mi sollecitò a proseguire e si disse convinto che qualsiasi “poi” avrebbe dato maggior luce a qualsiasi “prima” anche senza meccanicistica corrispondenza.

Ora, io ho concluso: dieci lasse ancora per dire di un’impossibile fine del mio sentire e del mio narrare.

C’è più luce? Davvero non lo so.

Appendice di testi

I. Ivan Della Mea, Cantata ambrosiana

10.
a porta meridione
già selce trancia l’aria del desìo
che solo dà giustizia alla ragione:
ambrogio santo muore
ambrodio addio
addio a mitra e tiara e spada e manto
Addio o santo
diverso inver versus da Tagaste:
che l’adria ti riporti a proda ippona
poiché
è d’obbligo il morir di troppo dare
per mano d’una selce dritta e buona
Il ruolo della storia
Travalica memoria
e il suo ronzare d’ape secolare
in bugno vuoto per potere e gloria:
ai sàtrapi dell’Uno
la pietra dei dannati senzastoria
addio ambrogio
agostino addio
poiché + che l’amor poté nessuno
e in riva d’adria è nessuno.

Io.1

15.
Vidi la donna trecciare fuscelli
cantando
le mani ombrate d’aurora
cantando
la voce alla stesa per echi spezzati
sul mondo marame amari bruscelli
stornelli di pena negli occhi rossati
Lei disse:
ho un mare di cose che non voglio dire
son fatta di cose che non voglio dire
sono piena di cose che non voglio dire
io sono le cose che non voglio dire
Lei disse:
avere una rosa può dire l’amore?
ho perso un dolore che non voglio dire
e non so chi sono e non so chi sei
sarà nostro un giorno?
Oh yeah
Il giorno sarà quello: pantarei2

II. Ivan Della Mea, La cantagranda

Sesto fiore: de Martino 1
A Franco Coggiola

Le rondini a gioco tra memori coppi
gli strusci da vespro gli amori razzenti
ruzzante tra felci l’eterna frullana
ha vita predata negli occhi ridenti

mi chiedo s’eccome sentiste la sorte
vestita di cedro? bussò vostre porte
io so questo cielo né sesto né solo
né franco sorride di pietra lo svolo

si è uno d’in/canto se al chicco di riso
risponde l’avviso d’un ultimo bando
la penna graffita – i neri già persi –
s’intigna nel coro di grilli conversi

a fare futuro saggiaste le reti
calate da folli su lete di veti
con gioia tenace pulita da vischio
creaste cultura: fu vita, fu rischio

panzieri daffini poi bosio e pirelli
bandelli fortini e il coggiola d’asti
fan rondini a trillo su picco d’abete
morir è di poco: è mia questa sete

(Sesto Fiorentino, 11 giugno-22 settembre 1996, 5 maggio 1997)3

III. Franco Fortini, La cantata ambrosiana

Questa cantata o antifona ha come tema la radice cristiana di Milano e dell’io parlante. C’è una situazione storica, quella di Ambrogio (e di Agostino, sepolto in Pavia), la comunale (Legnano, Ariberto), non senza cenni anche all’età preromana e alle ere geologiche, quando la piana era mare. C’è la ‘città fenice’, ‘massona gretta puttana’ dell’immediato jeri e dell’oggi. Ma, in tensione con la storia, c’è la fine della storia, l’Apocalisse e l’annuncio del Giudizio, ci sono i ‘dannati (della terra) senza storia’, l’amore paterno immediato e il trionfo dell’assoluto nella Trinità.

Storia e controstoria, contrazione di dieci lasse di un amplissimo universo, dunque alluso e necessariamente oscuro, a tratti impenetrabile. La rete è fittissima: accenno solo al tema dei gabbiani delle discariche urbane, segno tanto del mare come positività e libertà quanto di degradazione e melma del mondo; o quello del bimbo, che è coniugio di ‘amore con ragione’ e ‘mano piccina’ ma anche implica la leggenda del santo Agostino in riva al mare cui il Divino Bimbo, nell’atto di vuotare il mare con una conchiglia, risponde la sua impresa non essere diversa da quella che tentasse sondare il mistero della Trinità. E, come dice un inserto in dialetto in forma di filastrocca: ‘semm tucc gesù bambin’, siamo tutti Gesù Bambino.

Questo proposito è tanto ampio che non può non richiamare certe imprese di linguaggio in età romanico-gotica, fra Sant’Ambroeus e il Dòmm. Quindi cadenze iacoponiche e dantesche, soprattutto nei ritmi e nel lessico (‘tigne’, ‘arrocchi’, ‘inscisso’, ‘bordone’) perché nel metro prevalgono sì gli endecasillabi, però si alternano molto spesso a quinari (piuttosto che, come nella canzone canonica, al settenario, tuttavia qui ben presente); né rare sono le rime aaa. E questo – lo sappia Della Meo o lo recuperi d’istinto – è lo schema del sirventese del XIII secolo, epico e narrativo e, beninteso, nord-italiano.

Dunque (si vedano le parti 8 e 9) da questo intrico sembra emergere, senza risoluzione, un conflitto fra il ‘vecchio stretto dio’ della Chiesa e la libertà dell’individuo, conflitto dominato dalla Trinità (il ‘Trio Demente’) e dalla terza delle virtù teologali (il penultimo verso suona: ‘poiché + che l’amor poté nessuno’). Però non mi dico certo della interpretazione.

La voce profonda è sempre – rammento per chi sa che ruolo abbia avuto Ivan Della Mea nello scorso ventennio; ruolo che qui non evoco; per evitare commozioni, reducismi o auguri, ma anche perché questo testo pone il suo onore nel presentarsi quale è e basta; tutt’al più con una significativa aggiunta, come per battesimo, nella firma: Luigi Ivan Della Mea – la voce profonda, ripeto, è sempre quella dei ‘dannati della terra’ ossia della passione di coloro che Loi chiamò la ‘bandera russa leninista / di sanfranzesch’, ‘la bandiera rossa leninista / dei sanfranceschi’, l’immediato e mistico comunismo anarchico. Per questo l’autore coniuga il Duecento degli ‘spirituali’ col Novecento degli ‘spirituals’; e tutto l’attrezzaggio delle avanguardie, dai grafismi agli incastri plurilinguistici, dai versi a gradino agli sfaldamenti della parola, dalla assenza di interpunzione agli etimologismi (e a riferimenti occulti a questo o quel luogo della metropoli) è convocato perché questo cristianesimo sia figurale, corporale e rauco. Vien fatto di dire subito: Testori. Alle spalle, naturalmente, ci sono Tessa e ‘tutti quanti’.

È stolto tentare di dare un giudizio di valore poetico su di una scrittura che vuol essere ‘altro’. Ma spero che l’attenzione e lo stupore, con cui mi sono avvicinato e che ho ricavato, valgano più di ogni discorso. Qui è in gioco e in versi – non senza lo sprezzante gusto antico odiernissimo del ‘centone’ – qualcosa che vuol parlare del ‘paese reale’, degli avvolgimenti contraddittori, disperati e catastrofici del ventennio che abbiamo alle spalle e di cui il segno cristiano è, nello stesso tempo, segno di tradimento e di redenzione, come il canto del gallo per Pietro.

Non ricordo se fu Péguy a dirlo; ma certo in questi versi risuona, ai confini dell’eresia e forse della bestemmia, una parola straordinaria: “Non vogliamo essere salvati senza i nostri compagni”.4

Note

1 I. Della Mea, La cantagranda, Pontedera, Baldecchi&Vivaldi, 1998, p. 80.

2 Ivi, pp. 83-84.

3 Ivi, p. 36.

4 F. Fortini, La cantata ambrosiana, in ivi, pp. 65-66.