«Il passo di chi porta buone notizie»
In margine a una lettera di Franco Fortini a Vittorio Sereni
Luca Lenzini

La prima è che in questo brano, o meglio sullo sfondo di questo scorcio epistolare ritroviamo, sul versante fortiniano, le coordinate – per così dire: una certa postura, ovvero un contenuto emotivo-relazionale – di una poesia di Paesaggio con serpente intitolata Leggendo una poesia (datata 1977-79)3 che parla appunto di Sereni ma anche (e molto) dello stesso Fortini: l’alternarsi di distanza e vicinanza, di «resistenza» e comprensione, la «difficoltà» iniziale e infine il moto di «orgoglio» di chi ha inteso l’altro, sono tutti elementi che anticipano l’andamento della poesia di tanti anni dopo.4 «Posso anche io intendere chi noi siamo» è il verso finale di Leggendo una poesia, a conclusione dell’autoritratto di sé stesso, a tratti impietoso, che Fortini offre nei versi del 1977: dove il «noi» non riguarda solo i due, Fortini e Sereni, in quanto poeti e amici, ma implica a sua volta una comunanza e un colloquio che si situa ad un livello superiore, che investe insieme le rispettive opere e l’interpretazione, che da esse muove, del proprio tempo. Si tratta lì, in Leggendo una poesia, di una specie di consuntivo, che appartiene alla fase più tarda dell’amicizia tra i due; ma c’è anche un nesso evidente, d’altra parte, tra il brano della lettera e quell’epigramma traghettato tra le sponde del Magra, nel 1954, che poi sarà inglobato nel Posto di vacanza: «non sempre giovinezza è verità».5
L’altra annotazione riguarda invece (o meglio, sfiora) il tema del primo Sereni e di Frontiera, nonché le dibattute sue tangenze con l’Ermetismo. Infatti quel «giovane di diciotto o vent’anni» che in qualche modo resiste dentro il Sereni della maturità, come «in una sfera di cristallo», nella lettera del 1963 viene evocato e rappresentato nello scenario di un incontro ipotetico, immaginario, situato negli anni dell’Università: anni che per Fortini significano il periodo tra il 1936 e il 1940, e per Sereni invece tra il 1932 ed il 1936. Siamo, comunque, prima di Frontiera (1941) e prima di Foglio di via (1946), quindi; e l’asimmetria ovvero asincronia delle date rispecchia fedelmente l’anagrafe: Sereni infatti era del 1913, Fortini del 1917.
Tuttavia, se mettiamo da parte le distanze geografiche e temporali, non sarebbe impossibile ipotizzare un incontro reale tra i due, in quel giro di anni. Sappiamo dai carteggi, tra l’altro, che Sereni tra il 1941 e il 1943 fu più di una volta a Firenze, dove incontrò Montale, Betocchi, Parronchi, Bigongiari e quel giustamente celebre gruppo, eterogeneo concentrato di talenti, che si riuniva alle “Giubbe Rosse” in Piazza Vittorio Emanuele (come allora si chiamava l’orribile artefatto urbanistico realizzato nel cuore della vecchia Firenze, oggi Piazza della Repubblica). Ma dal carteggio di Sereni con Parronchi sappiamo anche come l’apparizione di Fortini nella Milano dell’immediato dopoguerra (1946, Congresso delle Lettere e delle Arti) avesse destato in Sereni non poca diffidenza, e non vi è nessun accenno, nella lettera, a precedenti incontri.6
Ora, però, l’incontro immaginario con il giovane «marzolino» – e «sensibile ai mutamenti della stagione», ovvero «metereopatico»,7 Sereni lo fu sempre –, proprio in quanto mancato nella realtà, appare in qualche modo, a posteriori, emblematico: l’esemplificazione, per così dire, di due percorsi, esistenziali e poetici che si svolgevano su piani diversi, irrelati. Ed anche dopo saranno divaricati, ma non più irrelati: saranno invece in dialogo, in un rapporto conflittuale ma proprio per questo fecondissimo, e su entrambe i versanti, non essendo tra i segnali secondari della loro statura umana e intellettuale l’apertura alle ragioni dell’altro.
Ora la divaricazione dei due percorsi, all’altezza degli anni Trenta, è un dato certo evidente, ma merita forse qualche appunto o riflessione, diciamo così, collaterale. Per esempio: è da notare che in una lettera del 1941, sempre a Parronchi, Sereni parla di una di quelle trasferte fiorentine, confessando all’amico di aver avuto, in tale occasione, «lo sciocco pensiero di essere stato, una volta tanto, poeta in mezzo a poeti».8 Si noti bene: tale pensiero è detto «sciocco», a conferma dello scetticismo sereniano, ben documentato da versi e da prose, nei confronti della categoria in quanto tale (del suo incerto e persino ambiguo status); nondimeno, ciò che affiora in quell’accenno – al di là dell’implicito rinvio al servizio militare in corso – è un momentaneo senso di appartenenza, che a sua volta suona come un riflesso della cordiale accoglienza ricevuta da Sereni fin da 1937 nelle pagine di «Frontespizio»9 (ricambiata su «Corrente» due anni dopo)10 e del rapporto di amicizia con Betocchi, Luzi, Parronchi, Bo, instauratosi in quel periodo, che viene un po’ troppo sinteticamente rubricato sotto l’insegna dell’Ermetismo.
Appartenenza: ebbene, se c’è qualcosa di cui non si può certamente parlare, per Fortini e quel milieu fiorentino-epocale, è per l’appunto questo. Ne ha scritto in versi e in prosa, dalla Città nemica (in Foglio di via) fino ai Cani del Sinai, e non occorre insistere; Fortini, per giunta, negli anni universitari gravitava su Giacomo Noventa, la cui polemica anti-modernista era apertamente ostile a Montale e agli Ermetici. Lo stesso Fortini sulla «Riforma Letteraria» aveva pubblicato, tra le altre cose, un Monologo o della pazienza (1938)11 di esplicita intenzione critica verso Bo e Bigongiari, in linea con la linea “minoritaria” e anti-ermetica del maestro. In comune con l’ambiente delle “Giubbe Rosse” Fortini aveva, semmai, la frequentazione di Ottone Rosai e Piero Santi, in parte di Bonsanti (che gli aprì la porta per una collaborazione a «Letteratura» nel 1939).12 Non sarà un caso, poi, che proprio di riviste come «Frontespizio» e «Campo di Marte» nel 1993, in occasione di un’ampia intervista retrospettiva, Fortini affermi di averle lette, quelle pagine, con «appassionato rancore»:13 dichiarazione in cui riaffiora qualcosa di diverso e più complesso, in realtà, di una semplice disappartenenza o di un mero antagonismo rispetto al milieu di cui sopra, già ben accasato nella società letteraria del tempo; c’è sì l’ombra del mancato riconoscimento, ma anche, insieme, qualcosa di irrisolto, l’implicita consapevolezza di non aver allora saputo trovare, in quegli anni, la propria strada, e non aver saputo guardare oltre, come farà in Svizzera e dopo, negli anni del «Politecnico»; una immaturità, forse, che gli dettava un tono esacerbato e lo inseguiva, come un rimprovero a sé stesso, anche lungo gli anni in cui Firenze era ormai ben fuori dal suo orizzonte. Né nelle pagine autobiografiche di Sere in Valdossola (1963) mancano passaggi caustici verso i rituali della societas che si riuniva ai tavoli delle “Giubbe Rosse”; si tratta però di annotazioni svolte in occasione di un ritorno a Firenze nell’estate del 1943, nel pieno del conflitto bellico e degli sconvolgimenti che attraversavano l’Italia.
Scriveva, allora, Fortini:
Quali furono i percorsi dei due negli anni seguenti lo dicono Diario d’Algeria e Foglio di via.15 Quanto all’Ermetismo, archiviato il mancato incontro passiamo, in breve, ai comuni anni milanesi e in riva al Magra dei due, a partire dal dopoguerra. Ed è a questo punto, tenendo presente quanto appena abbozzato come retroscena del nuovo capitolo, che possiamo spostare l’attenzione su Fortini lettore di Sereni.
Ad uno sguardo di sorvolo, nei tanti interventi critici di Fortini sulla poesia di Sereni, si può facilmente notare che l’attenzione privilegiata è per la fase degli Strumenti umani e di Un posto di vacanza, molto minore per Frontiera e dintorni. E non c’è bisogno di spiegare il perché di quell’attenzione rivolta al lavoro in progress dell’amico, subito riconosciuto per quello che era, un passaggio cruciale di tutto il Novecento, non solo italiano; ma si può, forse, aggiungere un’altra e concomitante constatazione, ovvero che, per Fortini, tanto più l’opera di Sereni assume un ruolo di primo piano nel panorama novecentesco, quanto più si allontana dal suo primo tempo poetico e si precisa nei suoi termini distintivi, individuali, così disvelando, per così dire, che la liaison ermetica era in sostanza un equivoco o poco più. A dire il vero, per il Fortini interprete, nel 1966, degli Strumenti umani, anche la continuità di quest’ultima raccolta rispetto al Diario d’Algeria è «più apparente che reale»;16 ma soprattutto, per capire la posizione di Fortini, va considerato quanto si legge già nel saggio su Le poesie italiane di questi anni, apparso nel 1960 sul «Menabò»:
Sia per Sereni che per Fortini il percorso della lunga maturazione e gli esiti del superamento o ripensamento giungono a compiutezza proprio negli anni della lettera citata all’inizio, quando è la stessa loro produzione fino ad allora ad essere ripensata e riorganizzata, ovvero reinterpretata e incardinata in una nuova prospettiva. Forse è in questa luce, allora, che si dovrebbe interpretare anche l’accenno della lettera al giovane marzolino dal passo di chi porta buone notizie; entro una prospettiva di ampia portata e dentro il tema del cambiamento, quale investì tanto l’uno che l’altro. C’è in quel passo, certamente, lo spunto, l’allure proiettata sul futuro che era di quegli amici che, negli Strumenti umani, portano sulle rive del Magra «salute gioventù fierezza scatto»;21 lo slancio che ancora conserva lo spirito del rinnovamento, la speranza. Ma non ci sarà dell’altro, un altro traghettamento, che porta con sé una mimetizzata agnizione, una eco del futuro sostanziata di una più lunga utopia? Come avviene in Fortini, dietro una espressione in apparenza ordinaria, legata alla sfera della quotidianità, anche in quella lettera si cela il rinvio ad altra sfera, di inestinguibile e ardente durata: il giovane araldo della lettera, custode di una vocazione comune e radice intima della poesia, è infatti erede di quello del versetto di Isaia, 52, 7: «Quanto son belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone novelle, che annunzia la pace, ch’è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Il tuo Dio regna!».
[intervento all’incontro di studi online Ottant’anni di Frontiera (e dintorni), 9 maggio 2021, a cura dell’Archivio Vittorio Sereni di Luino e del Centro di Ricerca Franco Fortini, Università di Siena]
1 F. Fortini, lettera a Vittorio Sereni del 10 dicembre 1963, Archivio Vittorio Sereni, Luino, S, n. 56.
2 Vd. L. Lenzini, Due sponde. Sul carteggio Sereni-Fortini, in Vittorio Sereni, un altro compleanno, a cura di E. Esposito, Milano, Ledizioni, 2014, pp. 299-315 (poi in L. Lenzini, Verso la trasparenza. Studi su Sereni, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 139-160; Id., Una voce fuori campo. Ancora su Sereni e Fortini, in «L’ospite ingrato», 28 marzo 2017; vd. anche il bel saggio di Francesco Diaco, «Venivano spifferi dall’altra riva»: riflessioni sul carteggio Fortini-Sereni, in Dall’altra riva. Fortini e Sereni, a cura di F. Diaco e N. Scaffai, Pisa, ETS, 2018, pp. 79-114.
3 Vd. L. Lenzini, Una voce fuori campo cit.
4 Si può anche annotare, in margine a queste notazioni, che «eleganza naturale», «misura intellettuale e urbana» sono precisamente le doti che Fortini, quanto a lui, riconosceva di non possedere. «Una ingiustizia strana e indecifrabile / mi ha reso stolto e forte per sempre», dice un verso di Leggendo una poesia, e poco prima: «la cortesia e la grazia non so bene che siano».
5 Vd. anche l’Apparato critico di V. Sereni, Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1995, pp. 783-787.
6 Vd. A. Parronchi, V. Sereni, Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi, a cura di B. Colli e G. Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 113.
7 Vd. V. Sereni, Autoritratto, in Id., Gli immediati dintorni, ora in Id., Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013, p. 670.
8 A. Parronchi, V. Sereni, Un tacito mistero cit., p. 22.
9 Sulla rivista apparvero nel n. 11, IX, novembre 1937, con la presentazione di Carlo Betocchi, Inverno a Luino e Concerto in giardino.
10 Cfr. «Corrente», n. 11, 15 giugno 1939.
11 F. Fortini, Monologo o della pazienza, in «La Riforma Letteraria» 23-24, novembre-dicembre 1938, pp. 77-94, che polemizzava con l’articolo di Piero Bigongiari, Ragionamento sulla civiltà, in «Campo di Marte», 15 settembre 1938.
12 Vd. F. Fortini, Poesie (Dedicando poesie future; Canto d’amore; Senza preghiera; Sei elegie brevi: 1-3 Infedeltà; 4-5 Ignoranza; 6 Gli anni morti), in «Letteratura», III, 4, ottobre 1939, pp. 73-75.
13 F. Fortini, P. Jachia, Fortini. Leggere e scrivere, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 30.
14 Cito da F. Fortini, La guerra a Milano: Estate 1943, a cura di A. La Monica, Pisa, Pacini, 2017, pp. 68-69.
15 Si veda l’ottimo studio di Bernardo De Luca, «Uno condanna l’altro. / Uno giustifica l’altro». Forma lirica e guerra in Franco Fortini e Vittorio Sereni, in «Filologia e critica», 3, 2012, pp. 404-430.
16 F. Fortini, Il libro di Sereni, in «Quaderni piacentini», 26, marzo 1966, p. 63 (poi con il titolo Di Sereni. «Gli strumenti umani», in Id., Saggi italiani, Bari, De Donato, 1974, pp. 158-172; ora in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 629-646).
17 F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni, in «Il Menabò», 2, 1960, pp. 103-142; poi in Id., Saggi italiani cit., pp. 88-137; ora in Id., Saggi ed epigrammi cit., p. 589 (da cui cito).
18 F. Fortini, Prefazione, in Id., Foglio di via e altri versi, Torino, Einaudi, 1967, ora in Id., Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2017, p. 64
19 Vd. n. 12. Ma anche gli esordi del 1935-36 su «Poesia», «La Gazzetta di Messina», «Lo Squillo» (e vedi Versi primi e distanti, in Id., Tutte le poesie cit., pp. 748-780).
20 F. Fortini, I poeti del Novecento [1977], a cura di D. Santarone, Roma, Donzelli, 2017, p. 180.
21 V. Sereni, Gli amici [1960], in Id., Gli strumenti umani, ora in Id., Poesie cit., p. 139.