«Il passo di chi porta buone notizie»
In margine a una lettera di Franco Fortini a Vittorio Sereni
Luca Lenzini

Nel carteggio tra Fortini e Sereni c’è una lunga lettera di Fortini del dicembre 1963 che in coda accoglie, a mo’ di post-scriptum o envoi, questa specie di affettuoso excursus:

Caro Vittorio; e ora vorrei farmi serio e dirti che, tante volte, pensandoti con gratitudine, credo vederti per quel che sei. Per come sei disperato. Come bastonato parte a parte. Come la rabbia e la dolcezza siano diventate in te una piccola, minima zona illuminata e dorata dentro di te, dentro un “te” che tu rifiuti come fosse carne da macello, bestia da lavoro. In quella minima zona, come nella sfera di cristallo, c’è un giovane di diciotto o vent’anni, che ti somiglia, grazia e ironia, pudore e seduzione, certezza della brevità, sensibile ai mutamenti della stagione, marzolino. Io, allora, non avrei osato parlargli. Aveva il passo di chi porta buone notizie. Fin da giovani, all’Università, non avremmo parlato più d’una volta o due. Ma il mio orgoglio, ora, è di poterti parlare e anche di intendere, dopo la prima difficoltà, dopo la prima resistenza iniziale, le tue parole scritte in versi.1

Queste parole si prestano a molte riflessioni sul rapporto tra i due, ma siccome di quel rapporto e del carteggio ho già scritto e parlato più volte,2 qui mi limiterò a due annotazioni.

La prima è che in questo brano, o meglio sullo sfondo di questo scorcio epistolare ritroviamo, sul versante fortiniano, le coordinate – per così dire: una certa postura, ovvero un contenuto emotivo-relazionale – di una poesia di Paesaggio con serpente intitolata Leggendo una poesia (datata 1977-79)3 che parla appunto di Sereni ma anche (e molto) dello stesso Fortini: l’alternarsi di distanza e vicinanza, di «resistenza» e comprensione, la «difficoltà» iniziale e infine il moto di «orgoglio» di chi ha inteso l’altro, sono tutti elementi che anticipano l’andamento della poesia di tanti anni dopo.4 «Posso anche io intendere chi noi siamo» è il verso finale di Leggendo una poesia, a conclusione dell’autoritratto di sé stesso, a tratti impietoso, che Fortini offre nei versi del 1977: dove il «noi» non riguarda solo i due, Fortini e Sereni, in quanto poeti e amici, ma implica a sua volta una comunanza e un colloquio che si situa ad un livello superiore, che investe insieme le rispettive opere e l’interpretazione, che da esse muove, del proprio tempo. Si tratta lì, in Leggendo una poesia, di una specie di consuntivo, che appartiene alla fase più tarda dell’amicizia tra i due; ma c’è anche un nesso evidente, d’altra parte, tra il brano della lettera e quell’epigramma traghettato tra le sponde del Magra, nel 1954, che poi sarà inglobato nel Posto di vacanza: «non sempre giovinezza è verità».5

L’altra annotazione riguarda invece (o meglio, sfiora) il tema del primo Sereni e di Frontiera, nonché le dibattute sue tangenze con l’Ermetismo. Infatti quel «giovane di diciotto o vent’anni» che in qualche modo resiste dentro il Sereni della maturità, come «in una sfera di cristallo», nella lettera del 1963 viene evocato e rappresentato nello scenario di un incontro ipotetico, immaginario, situato negli anni dell’Università: anni che per Fortini significano il periodo tra il 1936 e il 1940, e per Sereni invece tra il 1932 ed il 1936. Siamo, comunque, prima di Frontiera (1941) e prima di Foglio di via (1946), quindi; e l’asimmetria ovvero asincronia delle date rispecchia fedelmente l’anagrafe: Sereni infatti era del 1913, Fortini del 1917.

Tuttavia, se mettiamo da parte le distanze geografiche e temporali, non sarebbe impossibile ipotizzare un incontro reale tra i due, in quel giro di anni. Sappiamo dai carteggi, tra l’altro, che Sereni tra il 1941 e il 1943 fu più di una volta a Firenze, dove incontrò Montale, Betocchi, Parronchi, Bigongiari e quel giustamente celebre gruppo, eterogeneo concentrato di talenti, che si riuniva alle “Giubbe Rosse” in Piazza Vittorio Emanuele (come allora si chiamava l’orribile artefatto urbanistico realizzato nel cuore della vecchia Firenze, oggi Piazza della Repubblica). Ma dal carteggio di Sereni con Parronchi sappiamo anche come l’apparizione di Fortini nella Milano dell’immediato dopoguerra (1946, Congresso delle Lettere e delle Arti) avesse destato in Sereni non poca diffidenza, e non vi è nessun accenno, nella lettera, a precedenti incontri.6

Ora, però, l’incontro immaginario con il giovane «marzolino» – e «sensibile ai mutamenti della stagione», ovvero «metereopatico»,7 Sereni lo fu sempre –, proprio in quanto mancato nella realtà, appare in qualche modo, a posteriori, emblematico: l’esemplificazione, per così dire, di due percorsi, esistenziali e poetici che si svolgevano su piani diversi, irrelati. Ed anche dopo saranno divaricati, ma non più irrelati: saranno invece in dialogo, in un rapporto conflittuale ma proprio per questo fecondissimo, e su entrambe i versanti, non essendo tra i segnali secondari della loro statura umana e intellettuale l’apertura alle ragioni dell’altro.

Ora la divaricazione dei due percorsi, all’altezza degli anni Trenta, è un dato certo evidente, ma merita forse qualche appunto o riflessione, diciamo così, collaterale. Per esempio: è da notare che in una lettera del 1941, sempre a Parronchi, Sereni parla di una di quelle trasferte fiorentine, confessando all’amico di aver avuto, in tale occasione, «lo sciocco pensiero di essere stato, una volta tanto, poeta in mezzo a poeti».8 Si noti bene: tale pensiero è detto «sciocco», a conferma dello scetticismo sereniano, ben documentato da versi e da prose, nei confronti della categoria in quanto tale (del suo incerto e persino ambiguo status); nondimeno, ciò che affiora in quell’accenno – al di là dell’implicito rinvio al servizio militare in corso – è un momentaneo senso di appartenenza, che a sua volta suona come un riflesso della cordiale accoglienza ricevuta da Sereni fin da 1937 nelle pagine di «Frontespizio»9 (ricambiata su «Corrente» due anni dopo)10 e del rapporto di amicizia con Betocchi, Luzi, Parronchi, Bo, instauratosi in quel periodo, che viene un po’ troppo sinteticamente rubricato sotto l’insegna dell’Ermetismo.

Appartenenza: ebbene, se c’è qualcosa di cui non si può certamente parlare, per Fortini e quel milieu fiorentino-epocale, è per l’appunto questo. Ne ha scritto in versi e in prosa, dalla Città nemica (in Foglio di via) fino ai Cani del Sinai, e non occorre insistere; Fortini, per giunta, negli anni universitari gravitava su Giacomo Noventa, la cui polemica anti-modernista era apertamente ostile a Montale e agli Ermetici. Lo stesso Fortini sulla «Riforma Letteraria» aveva pubblicato, tra le altre cose, un Monologo o della pazienza (1938)11 di esplicita intenzione critica verso Bo e Bigongiari, in linea con la linea “minoritaria” e anti-ermetica del maestro. In comune con l’ambiente delle “Giubbe Rosse” Fortini aveva, semmai, la frequentazione di Ottone Rosai e Piero Santi, in parte di Bonsanti (che gli aprì la porta per una collaborazione a «Letteratura» nel 1939).12 Non sarà un caso, poi, che proprio di riviste come «Frontespizio» e «Campo di Marte» nel 1993, in occasione di un’ampia intervista retrospettiva, Fortini affermi di averle lette, quelle pagine, con «appassionato rancore»:13 dichiarazione in cui riaffiora qualcosa di diverso e più complesso, in realtà, di una semplice disappartenenza o di un mero antagonismo rispetto al milieu di cui sopra, già ben accasato nella società letteraria del tempo; c’è sì l’ombra del mancato riconoscimento, ma anche, insieme, qualcosa di irrisolto, l’implicita consapevolezza di non aver allora saputo trovare, in quegli anni, la propria strada, e non aver saputo guardare oltre, come farà in Svizzera e dopo, negli anni del «Politecnico»; una immaturità, forse, che gli dettava un tono esacerbato e lo inseguiva, come un rimprovero a sé stesso, anche lungo gli anni in cui Firenze era ormai ben fuori dal suo orizzonte. Né nelle pagine autobiografiche di Sere in Valdossola (1963) mancano passaggi caustici verso i rituali della societas che si riuniva ai tavoli delle “Giubbe Rosse”; si tratta però di annotazioni svolte in occasione di un ritorno a Firenze nell’estate del 1943, nel pieno del conflitto bellico e degli sconvolgimenti che attraversavano l’Italia.

Scriveva, allora, Fortini:

Come negli articoli delle riviste letterarie è di buon gusto non discorrere della guerra, se non per ambagi e vaghi accenni, così è di buon gusto nelle brevi conversazioni parlare degli avvenimenti – l’avanzata russa, l’occupazione di Palermo, il bombardamento di Roma – come di cose lontanissime, rumorosi fatti di bruta materia. Se qualcuno vi pensa più a lungo, non ne parla, anche perché sarebbe inutile.14

Quella Firenze resterà sempre, per Fortini, un esempio paradigmatico dell’incapacità della cultura liberale umanistica, ermetica o meno, di fronteggiare con strumenti adeguati la catastrofe europea; ma resterà anche, com’è testimoniato da tante poesie, il luogo della prima fascinazione verso l’arte, di una tensione all’assoluto quasi ossessiva, segnata da una forma oltranzistica di spiritualismo, come risulta sempre da I cani del Sinai e da altri testi di ordine autobiografico. Ma quanto a Vittorio Sereni: fatto prigioniero a luglio a Paceco, proprio in quei giorni del 1943 di cui narra La guerra a Milano veniva trasportato nel Nord Africa: delle «voci soavi» dei letterati al caffè, della loro «invincibile noia disegnata sui volti» e della «universale stanchezza» è da credere non gli importasse granché, in quei momenti.

Quali furono i percorsi dei due negli anni seguenti lo dicono Diario d’Algeria e Foglio di via.15 Quanto all’Ermetismo, archiviato il mancato incontro passiamo, in breve, ai comuni anni milanesi e in riva al Magra dei due, a partire dal dopoguerra. Ed è a questo punto, tenendo presente quanto appena abbozzato come retroscena del nuovo capitolo, che possiamo spostare l’attenzione su Fortini lettore di Sereni.

Ad uno sguardo di sorvolo, nei tanti interventi critici di Fortini sulla poesia di Sereni, si può facilmente notare che l’attenzione privilegiata è per la fase degli Strumenti umani e di Un posto di vacanza, molto minore per Frontiera e dintorni. E non c’è bisogno di spiegare il perché di quell’attenzione rivolta al lavoro in progress dell’amico, subito riconosciuto per quello che era, un passaggio cruciale di tutto il Novecento, non solo italiano; ma si può, forse, aggiungere un’altra e concomitante constatazione, ovvero che, per Fortini, tanto più l’opera di Sereni assume un ruolo di primo piano nel panorama novecentesco, quanto più si allontana dal suo primo tempo poetico e si precisa nei suoi termini distintivi, individuali, così disvelando, per così dire, che la liaison ermetica era in sostanza un equivoco o poco più. A dire il vero, per il Fortini interprete, nel 1966, degli Strumenti umani, anche la continuità di quest’ultima raccolta rispetto al Diario d’Algeria è «più apparente che reale»;16 ma soprattutto, per capire la posizione di Fortini, va considerato quanto si legge già nel saggio su Le poesie italiane di questi anni, apparso nel 1960 sul «Menabò»:

I versi di Sereni emergono lentamente dalla poesia scritta fra il 1935 e il 1940. Se guardo a quelli del suo secondo libro (il solo dove abbia lasciato, finora, il meglio di sé) debbo dire che certo vi era, nel giovane poeta anteguerra, qualcosa di più di quanto vi scorgessero, pur nella solidarietà affettuosa, gli amici suoi di quegli anni. Ma senza la guerra e la sconfitta difficilmente Sereni sarebbe uscito dai confini di una educata letteratura. L’annuvolarsi delle stagioni sui laghi, il ricordo di una morte, il senso della propria fugacità, il presentimento di una minaccia alle cose e agli esseri più cari, tutto questo era fin dal principio in lui come in molti altri giovani della sua generazione. Era la nube entro la quale muovevano, senza contatto alcuno con altre verità. Tuttavia qualcosa impedì, per fortuna, a Sereni di costruirsi una difesa ideologica contro gli eventi, quale si andavano apprestando i suoi amici dell’ermetismo fiorentino che erroneamente videro in lui, in quegli anni, un loro rappresentante in terra cisalpina. Quella difesa sarebbe stata lo spiritualismo cattolico, la letteratura come vita “totale”, il rifiuto della “mondanità”. Sereni invece, l’elegiaco, l’autobiografico Sereni, sembrava allora più disarmato, spoglio di metafisiche superbie.17

Qui noterò che l’accenno alla «educata letteratura», l’«annuvolarsi delle stagioni sui laghi» e il senso della fugacità, se ha riscontri nei versi giovanili di Sereni (ed una eco a distanza nei versi della maturità che non è semplice reminiscenza, bensì rivisitazione in senso profondo), tocca in realtà una zona rispetto alla quale sarebbe errato dare per scontata l’estraneità di Fortini, come se quest’ultimo nascesse alla poesia immune da tratti comuni a «molti altri giovani» di allora. Il quale, nella prefazione del 1967 alla nuova edizione di Foglio di via, insieme a tante altre cose afferma di sé, in terza persona: «L’elegia d’adolescenza aveva mormorato d’un giardino d’amore e riparo».18 È un rapido accenno, che lascia subito il campo ad un ragionamento più ampio e storicizzante, ma non per questo meno significativo (in questa chiave sono in primo luogo da citare le poesie pubblicate proprio su «Letteratura» nel 1939).19 Tralasciando altri passaggi, osserveremo ora che un distinguere e argomentare analogo a quello del saggio del «Menabò» lo si può trovare infine nel capitolo su Sereni di I poeti del Novecento, del 1980, qui in forma estremamente sintetica:

Ai suoi inizi (Frontiera, 1941), la poesia di Vittorio Sereni poté venir confusa con quella del minore modernismo (influenzata soprattutto da Ungaretti e da Quasimodo) o dall’ermetismo fiorentino; ma la sua tonalità discorsivo-elegiaca già proponeva oggetti altrimenti concreti, sentimenti, situazioni. La guerra e la prigionia avrebbero mutato in rovello, in perplessità e in aridità, stupefatta di sé e del tranquillo orrore del mondo, quella che era, e continuava a essere, eleganza naturale, misura intellettuale e urbana.20

Si rammenti che nella citata prefazione a Foglio di via una medesima funzione decisiva di quella qui messa in rilievo in Sereni è attribuita alla guerra nella propria storia di uomo e di poeta. I due brani critici citati, tra i quali corrono vent’anni, sono pertanto coerenti nell’indicare in quel momento la svolta decisiva per l’evoluzione della poesia sereniana: dove, è ora da precisare, non si tratta soltanto dell’irrompere di una dimensione tragica nell’ambito dell’esperienza umana, quale fu la guerra in effetti per entrambi, Fortini e Sereni; ma del riconoscimento che gli avvenimenti avevano messo radicalmente in discussione le fondamenta della cultura con cui, da giovani, si erano affacciati alla letteratura e all’arte; ed è questo, a mio modo di vedere, il punto essenziale. E se è così, a questo livello importa relativamente stabilire le tangenze e le differenze tra la poesia sereniana (e fortiniana) e l’Ermetismo; importa di più riconoscere il salto che si determina nella stessa concezione della poesia, il radicale cambio di passo (che coinvolse in pieno, del resto, anche uno dei maggiori protagonisti della stagione ermetica, Mario Luzi, che con Nel magma mostra di muovere ben oltre le premesse della stagione giovanile, pur consacrata e canonizzata così per tempo), cambiamento che porta, non senza vicende complesse e lungamente sofferte, alle opere della maturità.

Sia per Sereni che per Fortini il percorso della lunga maturazione e gli esiti del superamento o ripensamento giungono a compiutezza proprio negli anni della lettera citata all’inizio, quando è la stessa loro produzione fino ad allora ad essere ripensata e riorganizzata, ovvero reinterpretata e incardinata in una nuova prospettiva. Forse è in questa luce, allora, che si dovrebbe interpretare anche l’accenno della lettera al giovane marzolino dal passo di chi porta buone notizie; entro una prospettiva di ampia portata e dentro il tema del cambiamento, quale investì tanto l’uno che l’altro. C’è in quel passo, certamente, lo spunto, l’allure proiettata sul futuro che era di quegli amici che, negli Strumenti umani, portano sulle rive del Magra «salute gioventù fierezza scatto»;21 lo slancio che ancora conserva lo spirito del rinnovamento, la speranza. Ma non ci sarà dell’altro, un altro traghettamento, che porta con sé una mimetizzata agnizione, una eco del futuro sostanziata di una più lunga utopia? Come avviene in Fortini, dietro una espressione in apparenza ordinaria, legata alla sfera della quotidianità, anche in quella lettera si cela il rinvio ad altra sfera, di inestinguibile e ardente durata: il giovane araldo della lettera, custode di una vocazione comune e radice intima della poesia, è infatti erede di quello del versetto di Isaia, 52, 7: «Quanto son belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone novelle, che annunzia la pace, ch’è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Il tuo Dio regna!».

[intervento all’incontro di studi online Ottant’anni di Frontiera (e dintorni), 9 maggio 2021, a cura dell’Archivio Vittorio Sereni di Luino e del Centro di Ricerca Franco Fortini, Università di Siena]

Note

1 F. Fortini, lettera a Vittorio Sereni del 10 dicembre 1963, Archivio Vittorio Sereni, Luino, S, n. 56.

2 Vd. L. Lenzini, Due sponde. Sul carteggio Sereni-Fortini, in Vittorio Sereni, un altro compleanno, a cura di E. Esposito, Milano, Ledizioni, 2014, pp. 299-315 (poi in L. Lenzini, Verso la trasparenza. Studi su Sereni, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 139-160; Id., Una voce fuori campo. Ancora su Sereni e Fortini, in «L’ospite ingrato», 28 marzo 2017; vd. anche il bel saggio di Francesco Diaco, «Venivano spifferi dall’altra riva»: riflessioni sul carteggio Fortini-Sereni, in Dall’altra riva. Fortini e Sereni, a cura di F. Diaco e N. Scaffai, Pisa, ETS, 2018, pp. 79-114.

3 Vd. L. Lenzini, Una voce fuori campo cit.

4 Si può anche annotare, in margine a queste notazioni, che «eleganza naturale», «misura intellettuale e urbana» sono precisamente le doti che Fortini, quanto a lui, riconosceva di non possedere. «Una ingiustizia strana e indecifrabile / mi ha reso stolto e forte per sempre», dice un verso di Leggendo una poesia, e poco prima: «la cortesia e la grazia non so bene che siano».

5 Vd. anche l’Apparato critico di V. Sereni, Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1995, pp. 783-787.

6 Vd. A. Parronchi, V. Sereni, Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi, a cura di B. Colli e G. Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 113.

7 Vd. V. Sereni, Autoritratto, in Id., Gli immediati dintorni, ora in Id., Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013, p. 670.

8 A. Parronchi, V. Sereni, Un tacito mistero cit., p. 22.

9 Sulla rivista apparvero nel n. 11, IX, novembre 1937, con la presentazione di Carlo Betocchi, Inverno a Luino e Concerto in giardino.

10 Cfr. «Corrente», n. 11, 15 giugno 1939.

11 F. Fortini, Monologo o della pazienza, in «La Riforma Letteraria» 23-24, novembre-dicembre 1938, pp. 77-94, che polemizzava con l’articolo di Piero Bigongiari, Ragionamento sulla civiltà, in «Campo di Marte», 15 settembre 1938.

12 Vd. F. Fortini, Poesie (Dedicando poesie future; Canto d’amore; Senza preghiera; Sei elegie brevi: 1-3 Infedeltà; 4-5 Ignoranza; 6 Gli anni morti), in «Letteratura», III, 4, ottobre 1939, pp. 73-75.

13 F. Fortini, P. Jachia, Fortini. Leggere e scrivere, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 30.

14 Cito da F. Fortini, La guerra a Milano: Estate 1943, a cura di A. La Monica, Pisa, Pacini, 2017, pp. 68-69.

15 Si veda l’ottimo studio di Bernardo De Luca, «Uno condanna l’altro. / Uno giustifica l’altro». Forma lirica e guerra in Franco Fortini e Vittorio Sereni, in «Filologia e critica», 3, 2012, pp. 404-430.

16 F. Fortini, Il libro di Sereni, in «Quaderni piacentini», 26, marzo 1966, p. 63 (poi con il titolo Di Sereni. «Gli strumenti umani», in Id., Saggi italiani, Bari, De Donato, 1974, pp. 158-172; ora in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 629-646).

17 F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni, in «Il Menabò», 2, 1960, pp. 103-142; poi in Id., Saggi italiani cit., pp. 88-137; ora in Id., Saggi ed epigrammi cit., p. 589 (da cui cito).

18 F. Fortini, Prefazione, in Id., Foglio di via e altri versi, Torino, Einaudi, 1967, ora in Id., Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2017, p. 64

19 Vd. n. 12. Ma anche gli esordi del 1935-36 su «Poesia», «La Gazzetta di Messina», «Lo Squillo» (e vedi Versi primi e distanti, in Id., Tutte le poesie cit., pp. 748-780).

20 F. Fortini, I poeti del Novecento [1977], a cura di D. Santarone, Roma, Donzelli, 2017, p. 180.

21 V. Sereni, Gli amici [1960], in Id., Gli strumenti umani, ora in Id., Poesie cit., p. 139.