Giancarlo Gaeta,
In attesa del regno
Isabella Adinolfi

Giancarlo Gaeta, In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi, Macerata, Quodlibet, 2022.

«Dio è morto! […] E noi lo abbiamo ucciso!».1 Con queste parole nell’aforisma n. 125 della Gaia scienza l’uomo folle di Friedrich Nietzsche apostrofa gli uomini che si trovano sulla piazza del mercato. La morte di Dio – del Dio della tradizione giudaico cristiana – è un evento, qualcosa che è accaduto, un fatto compiuto che sta sotto i loro occhi, ma di cui gli uomini stessi che lo hanno ucciso, i suoi assassini, non sono consapevoli, non hanno contezza. Lo stesso uomo folle non sa come ciò sia potuto accadere e chiede:

Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? […] Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?2

Non sono domande retoriche quelle di Nietzsche, ed esse suonano tanto più inquietanti oggi che, come recita il titolo di un libro uscito di recente, il cristianesimo si trova a una svolta fatale, scomparire del tutto o modificarsi profondamente. Quel che in Nietzsche era infatti ancora in parte profezia, oggi è un fatto acclarato. Le chiese cristiane trasformate in musei, nei quali si entra non per raccogliersi in preghiera o incontrare Dio, ma per ammirare le opere d’arte che custodiscono, sono divenute a tutti gli effetti, come si legge nell’aforisma nietzschiano, nient’altro che i «sepolcri di Dio» Ma che cosa ha gettato il cristianesimo in una crisi che pare irreversibile? Chi è responsabile della crisi? Quali le cause? Cosa resta oggi di questa fede millenaria? Sono questi gli interrogativi intorno ai quali riflette il libro di Giancarlo Gaeta, In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi (Macerata, Quodlibet, 2022) un libro complesso, non facile da recensire per la ricchezza di temi e problemi che pone al lettore. Per presentarlo partirò dall’Istante di Søren Kierkegaard, l’ultima opera del filosofo danese, che è a un tempo denuncia di una crisi, di una frattura, di una perdita, ma anche ricerca di un suo possibile superamento, e lo stesso, sia pure in termini in parte diversi, avviene nel libro di Gaeta.

[I]l Nuovo Testamento, considerato come guida per il cristiano diventa […] un curioso oggetto storico, quasi come una guida turistica destinata a un determinato paese, quando tutto in quel paese è totalmente cambiato. Una guida del genere non possiede più la serietà per servire a chi viaggia in quel paese ma, tutt’al più, ha il valore di una lettura amena. Mentre adesso con la ferrovia si copre tranquillamente il percorso, nella guida si legge: ‘Qui si trova lo spaventoso orrido dei lupi, in cui si può precipitare a 70.000 braccia sotto terra’; mentre ora si sta seduti in un accogliente caffè, nella guida si legge: ‘Qui ha il suo rifugio una banda di briganti che assalta e malmena i viaggiatori’: qui c’è, o meglio: qui c’era, perché adesso – abbastanza divertente immaginarselo com’era – adesso non c’è nessun orrido dei lupi, ma una ferrovia, e nessuna banda di briganti, ma un accogliente caffè.3

Ora per Kierkegaard quel che ha reso il Vangelo una guida inutilizzabile per i cristiani suoi contemporanei non è un difetto, un’imperfezione del testo originario. A rendere la guida inservibile, inutilizzabile è quanto è accaduto dopo. Il passo citato – ha notato Theodor W. Adorno – polemizza non contro il “testo”, contro la guida, quanto piuttosto contro la sua depravazione storica.4 Fuor di metafora, il messaggio originario di Cristo, contenuto nel Nuovo Testamento, è stato falsato, tradito dall’istituzione che avrebbe dovuto invece conservarlo, difenderlo, diffonderlo, la chiesa, per cui il modo d’essere cristiano nella cristianità stabilita non corrisponde più al modo d’essere cristiano dell’Evangelo. È dunque cambiato il paesaggio, la morfologia del territorio, per cui la guida è divenuta inutile, non può più indirizzare i viaggiatori.

La metafora kierkegaardiana suggerisce anche che il significato originario dell’insegnamento di Cristo è stato falsificato nel senso di un addomesticamento. Luoghi impervi, difficili, pericolosi come l’orrido dei lupi o il covo dei briganti sono diventati posti rassicuranti come una ferrovia o un caffè. È noto che Kierkegaard rimproverava alla chiesa danese del suo tempo – ma potremmo estendere il suo atto d’accusa alla chiesa nel suo complesso, di ieri come di oggi, luterana ma anche cattolica o ortodossa – di aver contraffatto il messaggio di Cristo, predicando un cristianesimo non più di polemica con il mondo, ma perfettamente conciliato con i valori mondani. Ed è pure noto che il filosofo danese si era assunto il compito di rendere nuovamente difficile il diventare cristiani, ritenendo che solo l’originario rigore del messaggio evangelico, liberato dalle mistificazioni religiose dell’epoca che lo riconducevano a progetti mondani, potesse rendere nuovamente sapida l’esperienza cristiana.

Ho scelto di iniziare da questa citazione perché, se c’è un fil rouge che consente di tenere insieme i saggi raccolti nel libro di Gaeta, scritti in tempi diversi e per occasioni diverse, questo filo rosso a mio avviso è costituito proprio dalla polemica con la chiesa, che in modo manifesto o sotterraneo lo attraversa dall’inizio alla fine. E questa critica, sempre a mio parere, intende assolvere a una duplice funzione, denunciare la grave situazione in cui la fede cristiana versa oggi, mostrando in che modo la predicazione della chiesa durante la sua storia bimillenaria abbia obbedito a una logica di solo potere, che di fatto ha appiattito il cristianesimo nel formalismo e ne ha fatto una forza di consolidamento della morale mondana, e, di riflesso, richiamare ai veri valori del messaggio evangelico per rendere così di nuovo possibile un’esperienza di vita cristiana autentica.

Seguendo questa ideale linea di sviluppo, il volume si articola in cinque sezioni, che sono le stazioni lungo le quali si dipana la storia del cristianesimo dai primi secoli fino ai giorni nostri. Esse ne descrivono e analizzano innanzitutto la crisi, che viene da lontano ma che è divenuta del tutto manifesta nella modernità. Questa analisi culmina nella sezione Cristianesimo in frantumi che prende il titolo da un saggio di Michel de Certeau, autore molto amato da Gaeta, segnando un confine, in quanto la crisi appare qui nella sua ambivalenza di fine irreversibile di un’esperienza e di possibilità di un nuovo inizio. Segue infine la pars construens del libro, affidata – soprattutto ma non solo – alla sezione intitolata Ciò che resta, che comprende saggi su Weil, Capitini, Bori, Boltanski, Nono e ancora Certeau. Da qui, da ciò che resta, per Gaeta occorre ricominciare per dare nuova, reale espressione alla fede cristiana nella situazione odierna.

Ma esaminiamo insieme più in dettaglio questa complessa articolazione, iniziando dalla sezione più teorica Vivere post Christum. Come si accennava, per Gaeta come già per Kierkegaard, il cristianesimo ha perso storicamente la sua fisionomia originaria. Originariamente era tensione escatologica, annuncio dell’avvento del regno, e il cristiano viveva nel tempo nell’attesa della fine del tempo secondo il principio paolino del “come se non” (1 Corinzi 7, 29-32), definito da Jakob Taubes «il passo nichilistico» dell’avere come se non si avesse. Ovvero il cristiano viveva nel mondo, avendo cura del terrestre, del profano, ma nella coscienza del suo nulla, del suo continuo e insensato trapassare, sottraendosi in tal modo alla logica dell’imperium delle potenze che lo governano imponendogli dall’esterno una stabilità che non gli appartiene.

Sotto il segno della fine della storia, annota Gaeta, il cristiano viveva un’esistenza storica spoglia dei progetti mondani di dominio:

Passa, dunque, “la scena di questo mondo”, ovvero esso declina per lasciar posto al regno prossimo di Dio; ma non ancora sparisce, semmai si fa più incombente e tragico. Cosicché il cristiano sta sul palcoscenico del mondo pur sapendo che ciò che vi è rappresentato sparisce continuamente nel nulla, perché è nulla. Per questo, per questa sua coscienza nichilistica, la presenza del cristiano è insopportabile, e doppiamente insopportabile: perché nega significato alla radicale volontà di esserci e, dunque nega la volontà di potenza, ma allo stesso tempo patisce in sé stesso la passione del mondo. Egli non si sottrae all’aspirazione del mondo alla felicità, perché il Regno non è ‘altro’ da questo mondo; e perciò egli vuole e si adopera per la felicità nell’ordine profano che continuamente trapassa, ma sa che nella felicità non è possibile permanere, poiché essa stessa aspira a trapassare. È il punto in cui il cuore si spezza: nella felicità estrema come nell’estremo dolore.5

La chiesa ha presto abbandonato l’iniziale prospettiva escatologica. Oggi, che l’escatologia giudaico cristiana è stata secolarizzata, i cristiani vivono in e per questo mondo, solo nel presente, un presente dilatato che è il loro unico orizzonte di vita.

Originariamente la primitiva forma di vita evangelica era sequela, discepolato, per cui essere cristiani implicava l’assunzione di una forma di vita, l’imitazione della vita di Gesù, nella quale decisivo era il rapporto con il prossimo, inteso come l’altro non legato da alcun obbligo (di famiglia, di clan) nei nostri confronti. Ora, alla fine della storia bimillenaria del cristianesimo, tutto ciò è stato via via sempre più trascurato, dimenticato, cancellato. La chiesa, scriveva Blaise Pascal nei Pensieri, ci ha dispensati dall’amare Dio e il prossimo, dandoci «dei sacramenti che operano tutto senza di noi».6

Ma se per Pascal e Kierkegaard, che lo stesso Gaeta ricorda nel suo libro, per ritornare alla purezza dell’origine era sufficiente riformare l’istituzione che l’aveva corrotta e tradita (si pensi alle Lettere a un provinciale di Pascal o ai fascicoli dell’Istante di Kierkegaard), per Gaeta questo non è più possibile. Significativo, in tal senso, è il confronto fra Giuseppe Dossetti e Michel de Certeau. Se il primo pensava ancora praticabile l’esperienza cristiana in ecclesia, mediante una sua radicale “conversione”, il secondo ritiene invece che sia necessaria una forma di vita cristiana radicalmente nuova e un nuovo tipo di santità, iscritti ancora una volta nello “scarto” che il Cristo ha compiuto nei confronti delle istituzioni religiose e politiche del suo tempo, ai suoi occhi oramai non riformabili, con la loro eliminazione e definitiva cancellazione. Dossetti e Certeau, sono dunque le due figure che esemplificano, secondo Gaeta, l’alternativa dinnanzi alla quale il cristianesimo oggi è posto: da una parte, l’alternativa che conduce a una riforma delle Chiese, dei loro sacramenti e del loro credo; dall’altra, quella che induce a ripetere il gesto stesso di Gesù, che non implicava una riforma della sinagoga, una correzione dell’ordine vigente, ma il congedo dall’istituzione, dalla sua liturgia e dalla sua dottrina, e l’instaurazione di un nuovo ordine, di un ordine messianico.

Gaeta sembra optare per Certeau, per la seconda soluzione, ritenendo che la crisi della chiesa sia oramai irreversibile. Come per Simone Weil, autrice cui pure si ispira, anche per lui non si danno religioni perenni. A condizione che si dia una nuova, più pura ispirazione, da una religione oramai sterile se ne può generare una nuova, più vitale. E nelle attuali condizioni del cristianesimo, osserva lo studioso, ci si può solo augurare che questo accada, convenendo con la diagnosi di Weil secondo cui: «In ogni modo occorre una nuova religione. Oppure un cristianesimo modificato al punto da essere diventato altro; o altra cosa».7 Questo significativo cambiamento di direzione, rispetto agli autori finora citati, per cui occorre non più riformare la chiesa, ma modificare radicalmente il cristianesimo, annuncia e prepara l’ultima sezione del libro di Gaeta, la più interessante, forse.

L’interrogativo intorno al quale si raccolgono i saggi di quest’ultima parte si può riassumere così: posto che per il cristiano contemporaneo è divenuto impraticabile esprimere la propria fede in Gesù Cristo, conformandosi semplicemente alle prescrizioni della chiesa, seguendo il suo catechismo, in che altro modo egli può esprimere la propria fede nel mondo? Quali pensieri, parole, quali atti possono testimoniarla? Nel volume i testimoni del cristianesimo sono sia credenti sia quei non credenti, che, come si legge nella dedica a Goffredo Fofi, hanno fede «anche senza credere ». Sono questi a esprimere con la loro vita e la loro opera il «modo impossibile di stare al mondo», proprio del cristiano.

Mi soffermerò qui brevemente solo sul lavoro artistico di Christian Boltanski, sulle installazioni di questo artista “esistenzialista”, sul loro paradossale tentativo di rendere visibile l’assenza. Il lavoro di Boltanski, scrive Gaeta, è pervaso dal tema della morte, della perdita e della memoria come necessità di preservare la traccia di quel che è transeunte, di passaggio e non è più. Una traccia evanescente, destinata, come tutto, a scomparire, che però è testimonianza non soltanto del fatto che la sostanza ultima di tutte le cose è il nulla (nell’installazione gli abiti appesi non vestono più i corpi che li hanno indossati), ma anche che, per l’appunto, proprio il nulla è paradossalmente ciò che, svelando la comune appartenenza, custodisce ogni vivente nella sua singolarità (ogni abito è l’abito di un singolo corpo, quello che lo ha indossato).

Nel voler preservare la traccia di tutto ciò che è passato nel continuo, inarrestabile divenire del mondo e non solo la traccia del passaggio dei grandi come accade nella memoria storica, le opere di questo artista sono quindi testimonianza del credo escatologico di Paolo così come viene interpretato da Taubes e da Gaeta, ossia del principio del “come se non”. Esse serbano l’eco del modo impossibile di stare al mondo che è proprio del cristiano, della sua compassione e del suo prendersi cura del terrestre, pur sapendo del suo continuo trapassare, senza mai distogliere lo sguardo dal nulla, nella coscienza di quel nichilismo che Kierkegaard e Nietzsche tra i primi hanno posto in rapporto con il cristianesimo.

Nella situazione in cui la modernità si è oramai emancipata dal religioso, al punto che l’essere cristiani può apparire «moralmente ridicolo alle persone istruite o semi-istruite», dunque ciò che resta vivo sotto il cumulo di macerie della cristianità è per Gaeta, come si suggerisce nel più bel saggio del libro, dedicato a Leszek Kolakowskij e alla sua apologia di Gesù, la predicazione dell’oscuro falegname di Galilea, che in un’altra decisiva svolta dei tempi si è sorprendentemente imposta «come il simbolo spirituale per eccellenza», determinando la nascita di un nuovo universo. E questo insegnamento, letto sine glossa (teologica o scientifica), in definitiva altro non predicava che «l’atto col quale l’amore è stato seminato e s’insedia nel mondo, un amore incondizionato che costituisce l’essenza dell’essere divino e rende inutile la legge».9 E dunque quel che resta del cristianesimo, come si legge nella Postilla che chiude il volume, è «ciò da cui esso ha preso origine, la fede in un mutamento… Resta lo sguardo che redime nel presente l’immane cumulo di dolore del passato. […] Resta l’invocazione che il tempo giunga a compimento e sia manifesto il giudizio».10

Note

1 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Id., Opere di Friedrich Nietzsche, vol. 5, tomo II, La gaia scienza. Idilli di Messina. Frammenti postumi 1981-1982, trad. it. di F. Masini e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1991, p. 151.

2 Ibidem.

3 S. Kierkegaard, L’istante, trad. it. di A. Gallas, Genova, Marietti, 2001, p. 103.

4 T.W. Adorno, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Milano, Longanesi, 1983, p. 73.

5 G. Gaeta, In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi, Macerata, Quodlibet, 2022, pp. 42-43.

6 B. Pascal, Pensieri, fr. L. 287 / S. 319.

7 S. Weil, Quaderni, IV, trad. it. di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 2005, p. 352.

8 G. Gaeta, In attesa del Regno cit., p. 7.

9 Ivi, p. 175.

10 Ivi, p. 279.