Sergio Fontegher Bologna, Tre lezioni sulla storia (Milano, Casa della cultura, 9, 6, 13 febbraio 2022), presentazione di V. Morfino, Milano-Udine, Mimesis, 2023.
“the shop floor”: the area in a factory where the goods are made by the workers
The Oxford Learner’s Dictionary
Sembrerà bizzarro e forse fuor di luogo parlare di un libro così ricco di spunti e di contenuti come
Tre lezioni sulla storia di Sergio Fontegher Bologna partendo dalla sua forma, cioè dal modo dell’esposizione e dell’organizzazione della materia trattata; ma è un aspetto, questo, che balza agli occhi del lettore e non può essere messo tra parentesi o maneggiato come secondario, in primo luogo e precisamente in relazione ai contenuti stessi, si potrebbe dire alla loro
natura. L’orizzonte temporale del libro va dai primi anni ’60 all’oggi, quello culturale e interpretativo ha le sue radici nella costellazione additata in esordio in
Tre croci. Un ergastolo, un suicidio, una fucilazione (pp. 24-25), cioè nella triade Gramsci (
Quaderni dal carcere), Benjamin (
Über den Begriff der Geschichte), Marc Bloch (
Apologie pour l’histoire ou Métier d’Historien); ed è proprio dalla sua maniera di mobilitare e rinnovare questa nobilissima
lignée di “resistenti” che originalità e taglio del testo traggono una singolare legittimazione e, insieme, una forza altrettanto tangibile, una spinta o choc conoscitivo quali derivano da una alterità nativa, irriducibile alle forme “istituzionali”. Tanto avvince la lettura, così, che si è tentati di impiegare, per il libro, un termine come
page-turner, di solito applicato alla narrativa: c’è in queste
Lezioni non solo un discorso fluido e diretto, ma un solido ancoraggio narrativo, legato al vissuto ovvero al percorso biografico ed intellettuale di chi parla, un percorso in cui le due componenti (biografia e cultura) fanno tutt’uno, inscindibilmente; di qui, anche, la totale assenza di aura accademica e di cerimoniali. Nulla a che vedere, insomma, con il “genere” stucchevole e inflazionato della
lectio magistralis (il cui tipico tono brillante ricade quasi sempre nell’ambito della bigiotteria del Mercato, come dire dell’industria culturale tanto remunerativa quanto effimera): no, qui il magistero è (brechtianamente) “dal basso” o, per usare una espressione riferita nel libro al tema operaista,
on the shop floor. L’esperienza è la base e al tempo stesso l’oggetto della riflessione, di lì nasce l’
auctoritas (mai esibita) di chi scrive; e dunque una volta che si sia sottolineato che, trattandosi di “lezioni” (fruibili anche su YouTube),
1 il racconto si svolge sul filo dell’oralità e di un dialogo “in presenza”, bisogna però subito aggiungere che questo non basta a render conto né della profonda coerenza dell’insieme, né dello stile dell’autore, della sua
militanza.
Di questo poi, per esser chiari, si tratta: tensione e coerenza delle Lezioni sono, esse stesse, forme della militanza, una militanza autoriflessiva e insieme dialogica: ascoltarle è entrare a far parte del racconto, come per un aperto invito a prendere posizione. Va ricordato che nel sottotitolo della rivista fondata da Bologna nel 1973, «Primo Maggio»,2 insieme al richiamo alla dimensione del lavoro e della lotta, si leggeva «Rivista di storia militante»: l’intenzione fondativa, in linea con l’assunzione di un punto di vista specifico (e in continuità con i lavori precedenti dell’autore),3 è sin dalla soglia e lucidamente quella di dar voce a «una storia strettamente intrecciata con i movimenti di quel tempo, scritta per i movimenti, scritta con i movimenti sociali e in particolare con le figure più rappresentative, scritta con gli operai e i tecnici» (p. 63). Il che significa calarsi nel conflitto sociale: ed a partire da dove, se non dal presente, dalle sue battaglie, dagli antagonismi che nel corso della storia, sempre diversi, riaffiorano? E significa altresì stare dentro un moto più ampio, entro una prospettiva di emancipazione che all’interno del mondo del Capitale ha negli operai e nei tecnici, appunto, gli interlocutori e gli alleati naturali (inclusi i knowledge workers dell’era più recente). La distanza dalla storia di ordine politico-istituzionale (con la ribalta monopolizzata da partiti e sindacati e loro dirigenti) non potrebbe esser più nitida, e lo si vede anche dai maestri e compagni di strada convocati nel libro (Danilo Montaldi, Cesare Bermani, Gianni Bosio, Primo Moroni, Karl Heinz Roth, Tim Mason, Ferruccio Gambino, Nicola Gallerano tra gli altri): anzi rispetto a quest’ultima è implicita una obiezione di fondo, da una parte assumendo questo tipo di militanza «come forma dialettica quella del rapporto tra spontaneità e organizzazione» (p. 78),4 dall’altra adottando l’«inchiesta» come metodo (in senso etimologico: μέϑοδος) e le «microstorie» come strumenti di analisi del rapporto individuale-collettivo. Lo stesso ricorrente riferimento alla “Labour History” sottintende un tratto empirico da collegare, specie per gli anni Settanta, alle sedi proprie della ricerca-indagine, come gli Istituti Storici della Resistenza ed i “laboratori di storia” (Geschichtswerkstätten):5 la storia è sempre storia in atto e storia di conflitti, e non c’è niente di più alieno da questo presupposto dell’applicazione ad essa di schemi astratti, preconfezionati, quali anche in campo marxista (ed anche negli anni dell’operaismo) non sono certo mancati.
A partire da queste coordinate in movimento si capisce, inoltre, come i passaggi elettivi per l’indagine, alla luce delle Lezioni, siano i momenti di svolta del Novecento europeo ed italiano, laddove si preparano e giungono a dispiegarsi le nuove forme del conflitto sociale. È seguendo questo fil rouge che la narrazione trova i suoi punti esemplari, gli snodi più innovativi e decisivi. Sintomatico quanto osserva l’autore riferendosi alla prospettiva operaista (e della sua generazione) nei primi anni ’60:
lo stesso neofascismo era stato facile ricacciarlo ai margini nelle giornate di Genova del luglio 1960, il problema era come difendersi dal neocapitalismo del centro-sinistra. Nemmeno le famose “magliette a strisce” erano i nostri eroi ma piuttosto i 70mila elettromeccanici milanesi che scioperano per mesi e vincono.
Si cercherebbero invano, nelle
Lezioni, tracce di adesione ad un generico antifascismo che nel coltivare i suoi miti dimentica (o non vede) ciò che nel presente designa il nuovo quadro dei conflitti; ed in ciò – proprio con riferimento ai primi anni ’60 – si può scorgere una non casuale convergenza con la prospettiva di intellettuali di diversa estrazione come Raniero Panzieri (con la sua scoperta della «potenza euristica […] dell’uso capitalistico delle macchine del Primo Libro del
Capitale», p. 28), o Franco Fortini (citato insieme a Michele Ranchetti tra i «maestri», p. 122). Ciò che marca il discriminante della fase storica, nel caso, è il bivio tra l’accettazione del “riformismo” e quindi del neocapitalismo come orizzonte proprio del “progressismo”, e una visione, anzi una
cultura radicalmente e organicamente collegata alle lotte in corso, in dialogo (ed in collaborazione) con le esperienze contemporanee degli altri paesi più “avanzati” (la Germania, l’Inghilterra, gli Stati Uniti), quale va sviluppandosi nel dibattito dei gruppi di lavoro e nelle riviste, da «quaderni rossi» (scuola non di storici «ma di sociologi», p. 31), «Classe operaia», «quaderni piacentini»,
6 «Potere operaio» (ma anche «Monthly Review», «Radical America», «Socialisme ou barbarie»…): laboratori rivolti al presente e partecipi dei movimenti ma che possono concretamente assorbire e rielaborare in proprio non solo i temi più generali della Scuola di Francoforte (si vedano le osservazioni su Hans Jürgen Krahl, p. 48), ma anche l’eredità di Ernst Bloch, troppo spesso dimenticata.
7 A monte e sullo sfondo di tale passaggio, proprio perché è in corso una riformulazione della Modernità, è un antecedente storico preciso: Weimar anni ’20, con tutto quel che comporta. La dice lunga in proposito uno splendido brano di Detlev Peuckert citato nella
Prima lezione:
in una visione critica la storia di Weimar ci istruisce sulla fragilità di una democrazia fondata sul compromesso, sulle aporie della modernizzazione, sulle implicazioni catastrofiche della sua normalità e sulla miseria dell’azione e della speranza quando le possibilità di agire sono ristrette […] in una visione archeologica noi scopriamo negli anni Venti, insieme ai tratti della modernità classica, l’emergere del mondo della nostra vita attuale. Vediamo una società posta sulla linea divisoria tra un presente che ci è familiare e un passato che ci è estraneo, una società che condivise le nostre paure e le cui fantasie e fobie tuttavia ci rimandano una inquietante immagine deformata della nostra normalità quotidiana. Ma anche in questo caso, le ombre che ci guardano dallo specchio opaco della storia in fondo… siamo noi stessi.
8
Di qui – da questo specchiarsi nella storia, ma avendo dinanzi il presente – al successivo snodo del Sessantotto la strada non è ovvia né a senso unico, eppure se a traguardarla con gli strumenti calibrati “dal basso” è lo studioso di Public History, è possibile accedere a sintesi finalmente disallineate rispetto al “senso comune” diffuso dai media, pertanto non disponibili alle semplificazioni degli storici da talk show o giornale mainstream, le quali poi non rappresentano altro che forme di rimozione, anzi di esorcismo. Riporto per esteso alcuni passaggi sul Sessantotto perché è appunto nell’articolazione del discorso, nel va e vieni dal campo lungo al dettaglio, dall’apertura grandangolare allo zoom sullo specifico esempio locale, che sentiamo agire una memoria attiva, innervata di esperienza e non irrigidita dalle forzature della “doxa”:
Nel 1967 quando gli studenti cominciano a protestare e a manifestare, tutte le grandi fabbriche italiane sono in ebollizione, al punto che ancora oggi la questione è controversa se le lotte studentesche abbiano o no svolto il ruolo di “detonatore” degli scioperi del 1968-69 oppure se l’organizzazione sindacale in fabbrica fosse già sufficientemente agguerrita per cui, anche senza gli studenti, l’autunno caldo si sarebbe verificato lo stesso. È un problema storiografico di non poco conto al quale mi sentirei di rispondere con una terza ipotesi, che ho espresso in varie occasioni. Il movimento studentesco è nato con una forte spinta antiautoritaria rivolta contro il sistema gerarchico dell’accademia e contro una didattica che non trasmetteva capacità critiche ma tradizioni di pensiero, contro un sistema della formazione che sembrava ignorare il vento di rivolta antimperialista e anticapitalista delle lotte di liberazione nei paesi in via di sviluppo. Era un movimento che raccoglieva il messaggio potente che veniva da Berkeley, dal movimento contro la guerra in Vietnam, dal movimento degli afroamericani. Ma il personale del movimento studentesco italiano – in particolare a Pisa, a Torino, a Padova, a Trento, a Genova, a Roma – conosceva e in parte aveva seguito la vicenda dell’“operaismo” iniziata con i «Quaderni Rossi», aveva familiarità con i problemi di fabbrica. Per cui, quando nel 1968 in Francia scoppia il cosiddetto “maggio francese”, studenti e operai francesi si trovano uniti sullo stesso fronte e le problematiche del lavoro industriale riacquistano una loro centralità, il movimento studentesco italiano non ha difficoltà a “riconvertirsi” in movimento di appoggio e di comunicazione delle lotte degli operai comuni, sollecitato anche dall’entrata in campo delle facoltà tecnicoscientifiche, interessate al rapporto con le tecnologie e preoccupate del futuro dei tecnici e dei professionisti (ingegneri, biologi, chimici, medici, architetti, urbanisti…).
Leggendo queste considerazioni non si può non chiedersi, per inciso, se non sia stata esattamente la convergenza studenti-operai e la “riconversione” di cui qui si parla ad aver spaventato «chi sta in alto» (
Die Oberen) ed i loro seguaci, donde la tenace determinazione nel deformare la memoria, selezionare l’informazione, definire palinsesti tendenziosi e creare mitologie di facile spaccio, smantellare scuola e università. Ma altra cosa è il “mestiere” (
Beruf)
9 dello storico, e l’essenza più preziosa di queste
Lezioni sta nel dimostrarlo dal vivo, senza alcun riguardo per gli stereotipi correnti.
Sempre a proposito del Sessantotto e degli anni Settanta, si noti bene, vi è qui una doppia presa di distanza, sia dalla tesi che sbrigativamente identifica quel passaggio con l’etichetta degli “anni di piombo”, sia dalla «“controstoria” dei militanti fedeli al loro passato», in quanto «adottano ambedue il punto di vista della storia come storia del personale politico, delle sue ideologie e delle sue pratiche»; e dunque quel che «per gli uni sono pratiche criminali e basta, per gli altri sono componenti di un “assalto al cielo” fallito ma comunque eroico e glorioso. Per gli uni gli anni ’70 sono stati follia spaventosa, per gli altri sogno utopico luminoso. Due visioni contrapposte ma nate dallo stesso ceppo della storia delle élites» (p. 165). La verità, scrive Bologna, è «che gli anni ’70 sono stati un periodo di emancipazione di massa di proporzioni mai viste e proprio in questo sta la loro eccezionalità». Le «dimensioni»: l’occhio che non perde mai di vista le misure dei fenomeni trattati è uno dei punti di forza del discorso complessivo e della sua struttura; il che non significa affatto, nel caso, passare sotto silenzio fatti come la violenza e le stragi, bensì trovare «una corretta dimensione in cui collocare “il piombo” delle Brigate Rosse e gli esplosivi della Banca dell’Agricoltura o della stazione di Bologna» (pp. 165-166):
Perché se gli anni ’70 non sono stati solo anni di piombo, occorre dire che sono stati anche anni di piombo e guai dimenticarlo. Ma proprio nel quadro di quel processo di emancipazione di massa e di ribellione allo sfruttamento il piombo e gli esplosivi trovano sia la loro ragione che la loro dimensione. Messa a confronto con quel processo di emancipazione di massa e con lo sforzo di apprendimento che ha comportato, con la straordinaria ricchezza di situazioni in cui si è incarnato, con la complessità delle problematiche che ha affrontato, anche la cosiddetta “strategia della tensione” appare come un fenomeno secondario e la lotta armata come un dettaglio poco significativo. Ben altre sono le forze e le dinamiche che si sono scatenate tra il 1967 e il 1980, quella è la “grande storia”.
D’altra parte e di conseguenza, una volta adottata quest’ottica anche la tesi per cui «il Sessantotto è stato essenzialmente un processo di modernizzazione del capitale e di sostituzione del personale dirigente» appare fallace e depistante, di mera superficie. Così scrive Bologna (p. 167):
Per prima cosa va detto che un processo di trasformazione capitalistico, tale da mettere in moto quella che Marx chiamava “la rivoluzione dall’alto” come risposta, non viene mai attivato da semplici spostamenti del personale politico ma solo da modificazioni strutturali nel consenso, nella disciplina e nella produttività della forza lavoro. Perché? Perché cambiare assetto e strategia per orientamenti contrari del personale politico rientra nel campo delle opzioni, cambiarli per alterazioni della disciplina della forza lavoro rientra nelle necessità. Quindi che una modernizzazione fosse necessaria di fronte al combinato disposto di una classe intellettuale che si ribella e di una classe operaia che alza la testa, era inevitabile, semmai possiamo dire che questa modernizzazione è stata debolissima e che si è trattato piuttosto di un aggiustamento. La “rivoluzione dall’alto” è arrivata con la crisi petrolifera e il capitalismo italiano l’ha subita non l’ha certo prodotta. Quindi quando qualcuno tira fuori la storia della modernizzazione scopre l’acqua calda.
Per ripensare il passato fuori dai luoghi comuni e capire il «punto chiave» di quel periodo, allora, occorre affrontare prima di tutto «il problema della sconfitta»; ciò che presuppone il mantenimento di un punto di vista di parte, non neutrale ma, al tempo stesso, esige di «rifiutarsi di ragionare solo in termini di vincitori e vinti» (p. 167), poiché
Tutto ciò che è accaduto si è verificato nelle fibre della società, nelle sue mille stratificazioni, il confronto tra due poteri non c’è mai stato, tutto si è svolto con una serie continua di scosse telluriche che possono aver dato luogo a trasformazioni ma il binomio non è tra vincitori e vinti ma tra trasformazioni durature e trasformazioni transitorie, là dove le prime hanno prevalso il Sessantotto ha segnato dei punti a suo vantaggio, ha vinto (p. 168).
Lo sguardo mobile del militante si allea ad una visione fluida del farsi della storia, dove possono darsi tempi plurali e differenti per le molteplici «stratificazioni» della società. La stessa memoria è attivata e messa in moto entro questo “multiverso”, fuori da ogni teleologia. Un esempio. Un altro passaggio “epocale” è al centro del capitolo dal titolo eloquente L’Ottantanove come spartiacque: Vive le roi!:
Quello che esplode nel 1989 […] è ormai un “revisionismo storico” diventato nuova verità, ostentato insulto ai valori della rivoluzione (uguaglianza, fratellanza, libertà) come se la società borghese volesse ripudiarli con un gesto plateale, ripudiando quindi la sua storia liberale e il suo senso del diritto. La società borghese era, doveva essere, la società del più forte, non la società dell’uguaglianza. E quando cadde il Muro di Berlino non ci si limitò a dire che era fallito il comunismo ma anche che l’état prévoyance non poteva reggere, che uno stato che redistribuisce risorse era destinato anch’esso al fallimento. Era un rifiuto implicito della tradizione e del pensiero socialdemocratico, non solo del pensiero giacobino.
È davanti a questo cambio di paradigma che la memoria è chiamata in causa, una memoria come reagente corrosivo del falso e dell’ideologia (in quanto apparenza socialmente necessaria, direbbe Adorno); e la memoria – che è poi uno dei principali temi del libro intero, anzi quello cardinale – si esercita efficacemente e non per caso in un contesto ben noto all’autore nel caso dell’annessione della DDR alla Germania Ovest dopo la caduta del Muro (la “riunificazione” a senso unico). A parlare è il ricordo del «mio primo viaggio» (1992) in quei luoghi, con «l’impressionante senso di smarrimento che si respirava in città come Lipsia. Un intero sistema economico-sociale era crollato di colpo, disoccupazione e disperazione si notavano a vista d’occhio» (p. 96). Si tocca con mano, in questi passaggi, la violenza che caratterizza lo scenario dominato dal Mercato e dal “pensiero unico”. Nessuna nostalgia dunque, ma anche qui la percezione precisa del dimensionamento della mutazione in corso; e si capisce, dunque, come a chi frequenti lo shop floor della storia la vicenda della celebre “svolta” della Bolognina appaia sotto una luce farsesca, intrattabile senza un’appropriata e sferzante ironia:
La concitazione con cui la borghesia francese aveva cercato di liberarsi dal peso dei valori della rivoluzione dell’89 sembra quasi un atteggiamento flemmatico se si pensa alla concitazione, all’impazienza con cui i comunisti italiani si precipitarono a liberarsi del fardello del comunismo. Nemmeno i soldati italiani dopo l’8 settembre buttarono via le divise con tanta fretta. Almeno si procurarono degli abiti civili per rivestirsi, i comunisti italiani si spogliarono dei loro abiti politici così in fretta da restare in mutande (p. 121).
Nella
Terza lezione un giusto spazio è perciò dedicato al tema del revisionismo (pp. 123-128), che mette a frutto la collaborazione con Pier Paolo Poggio
10 e la Fondazione Micheletti di Brescia (uno dei luoghi più vivaci della ricerca storiografica nel nostro paese), ma è sempre il cambiamento a tenere il campo: l’attenzione è quindi rivolta alle trasformazioni del mondo del lavoro tra vecchio e nuovo millennio. Dato che «con la fine della “centralità operaia” e della centralità della fabbrica che hanno caratterizzato gli studi degli anni ’70, è venuto meno il baricentro attorno al quale si organizzava gran parte della ricerca» (p. 137), lo sguardo si sposta ora sul «lavoro autonomo di seconda generazione»:
11 è un ambito di ricerca che non manca di spiazzare sociologi ed economisti, ma che conferma le potenzialità ermeneutiche dell’analisi del cambiamento a partire dalle metamorfosi, alterazioni e innovazioni che portano allo scoperto l’impatto delle nuove tecnologie non solo nel lavoro ma nel vissuto dei singoli, dentro il tessuto sociale.
La necessità di questo scavo nelle «fibre della società» è ribadita, in via implicita, dal commento critico svolto da Bologna su un altro passaggio in genere ritenuto epocale, quello di Genova 2001. Sono una specie di drammatico test generazionale, quelle giornate, che fa risuonare nella memoria l’eco di Genova 1960 ma, proprio così, si rivela come un’apertura di fase a vuoto, come per un controcanto senza futuro e, in quanto tale, tuttora latore di domande inevase:
Dal luglio ’60 a Genova è scaturita una riflessione e una produzione di pensiero politico, è scaturita una cultura che non solo segnerà i vent’anni successivi ma darà un segno indelebile anche alla storiografia. Il luglio 2001 a Genova terrà a battesimo una nuova, seppure ristretta, generazione anticapitalista ma non produrrà alcun sistema di pensiero, il suo lascito cultural-politico è zero. Ed anche se mi chiedessi quali segni, quali tracce, ha lasciato il G8 di Genova nel dibattito sul fare storia, nel modo di fare storia, non saprei dare una risposta. Perché? Perché il presente era scomparso dal radar degli storici? Oppure perché il presente era riapparso con l’incommensurabilità dell’attacco alle Torri gemelle, 50 giorni dopo il G8 di Genova? Perché lo sguardo degli storici non sapeva, non voleva, più riconoscere il presente o perché la luce del presente era così violenta, così accecante, da costringere gli storici a distoglierne lo sguardo?
Tali sono le questioni che non possiamo, ancora oggi, fare a meno di porci. Possono darsi antagonismo e pensiero critico senza un «baricentro»? Come ricalibrare la ricerca se si perdono di vista dimensioni e stratificazioni del cambiamento, temi e aspetti della riorganizzazione del lavoro? Eppure l’intero libro delle
Lezioni insegna che esistono tradizioni di pensiero e modalità di ricerca che non si fanno accecare dalla violenza del presente; così come ci ricorda «quella specie di bussola infallibile che è il paradigma dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo» (p. 123). Il
Militanter Optimismus a cui in una breve nota si richiama l’autore delle
Lezioni nulla ha a che fare con un attivismo senza bussola o con proteste benintenzionate ma effimere; credo invece che, come nel
Principio speranza di Ernst Bloch da cui proviene, quel sobrio
Optimismus sia «fondato» e «in pace con il processo che fa il contropelo alla stessa staticità mortale». Una forma, forse, di quella «speranza materialisticamente concepita» che per Bloch «si occupa del passato, cioè del futuro ancora non liquidato racchiuso nel passato».
12
Note
1 S. Bologna, Tra professione e vocazione: modi di fare storia, Tra professione e vocazione: modi di fare storia. Lezione II, Tra professione e vocazione: modi di fare storia. Lezione III, Casa della Cultura Via Borgogna 3 Milano, 9, 16 e 23 febbraio 2022.
2 Se ne veda la storia e la riproduzione integrale in «Primo maggio» (1973-1989). Saggi e documenti per una storia di classe, a cura di Cesare Bermani, Roma, DeriveApprodi, 2010.
3 Mi limito a ricordare due titoli ristampati negli ultimi anni, tuttora circolanti: S. Bologna, G. Daghini, Maggio ’68 in Francia, Roma, DeriveApprodi, 2008 (in origine su «Quaderni piacentini», VII, 35, luglio 1968, pp. 2-41); S. Bologna, La Chiesa confessante sotto il nazismo. 1933-1936, Milano, Shake, 2022 (la tesi di laurea pubblicata inizialmente da Feltrinelli nel 1967).
4 Da notare quanto riguardo alla “spontaneità” osserva l’autore: «alla base della concezione operaista della spontaneità non sta un principio di regolazione ma l’idea di una “intelligenza collettiva” ossia di una capacità di raccolta d’informazioni e di loro organizzazione in grado di produrre una scelta, un comportamento antagonista» (p. 38).
5 Nella Seconda lezione è rammentato che «il termine Werkstatt indica una forma di produzione artigianale» (p. 103).
6 Il libro è significativamente dedicato a Piergiorgio Bellocchio.
7 Si veda l’importante richiamo a Rudi Dutschke (p. 46) ed all’«aureo libretto che De Donato pubblicò subito dopo l’attentato con il titolo Dutschke a Praga» (p. 48). L’anno è il 1968.
8 La citazione è da D. Peukert, Storia sociale del Terzo Reich, trad. it. di F. Bassani, Firenze, Sansoni, 1989, p. 12. Più avanti Bologna ricorda per quegli anni la «riscoperta […] dell’immenso serbatoio culturale weimariano, nella filosofia, nel teatro, nella sociologia, e a quello altrettanto ricco della Vienna dei primi due decenni del Novecento (dallo Steinhof a Karl Kraus, da Adolf Loos al Karl-Marx-Hof, da Schönberg a Mahler, da Klimt a Schiele, da Freud all’austro-marxismo» (pp. 117-118).
9 Nella Prima lezione l’autore osserva che il termine tedesco Beruf «nella sua doppia accezione di professione e di vocazione non ha un corrispettivo italiano» (p. 22).
10 Vedi in particolare P. Poggio, Per un’analisi critico-storica del revisionismo, in Lezioni sul revisionismo storico, Milano, Fondazione Micheletti/Cox 18 Books, 1999.
11 Vedi l’ormai classico Il lavoro autonomo di seconda generazione: scenari del posfordismo in Italia, a cura di S. Bologna e A. Fumagalli, Milano, Feltrinelli, 1997.
12 E. Bloch, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2005, p. 235.