
Era d’accordo con Roland Barthes: «Il critico non è semplicemente un lettore che scrive o che scrive per gli altri […], è colui che legge “solo per scrivere”, in obbedienza all’impulso che era stato già prima dello scrittore». Delle attività cui Luigi Baldacci (1930-2002) si dedicò quella del critico militante fu la prediletta ed è questa scelta che più risalta nel numero monografico di «Antologia Vieusseux» (n. 84, settembre-dicembre 2022) uscito a vent’anni dalla scomparsa. L’imponente Fondo Baldacci, già da tempo ordinato e catalogato, è consultabile all’Archivio contemporaneo Bonsanti del Vieusseux. Nell’editoriale la direttrice Gloria Manghetti mette in luce di Baldacci «la forza innovativa di un assoluto non conformismo» e richiama la sua statura di «recensore assiduo e onnivoro». Ed è il suo ruolo di critico che qui è appropriato ricordare, non dimenticando il rigore del suo seguitissimo insegnamento di Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere di Firenze e la mole dei lavori scientifici sui lirici del Cinquecento alto, sugli autori dell’Ottocento, nonché i non minori titoli su musica e pittura. Si era laureato nel giugno 1953 con Giuseppe De Robertis, che insieme a Luigi Russo fu il maestro che lo formò nei suoi passi iniziali. Il fervore eclettico dell’allievo prodigio fu attratto in prevalenza dall’approccio stilistico derobertisiano. E lo praticò in interventi personali, che non lasciavano mai – ha notato Giovanni Raboni – le cose come stavano, per il gusto dissacratore di scombinare canoni e gerarchie. Rita Guerricchio rammenta che Baldacci era orgoglioso di sminuirsi a «cronista senza ombra di metodo». Confidò la frenetica curiosità che alimentava il lato più eccitante del suo mestiere con una punta di nostalgia: «Il ritmo ebdomadario accompagnava il piacere della lettura e della scrittura; ma forse la convinzione più segreta, il piacere più sottile era di credere a una circolazione comune d’idee tra i lettori del mondo, senza perdere di vista la singolarità e l’autonomia degli oggetti, cioè il libro – fisicamente diverso da tutti gli altri – che si era posato per ultimo sul tavolo» (2001). Un autoritratto che fissa i tratti eleganti e la furia battagliera di una professionalità allergica a disciplinati accademismi e obbligati ossequi.
Nella rivista sono raccolti pezzi di stretti collaboratori e di esperte collaboratrici, tutti permeati da affetto e rimpianto. Non poteva che spettare a Marco Marchi riferire dell’entusiasmo di Baldacci del condiviso attraversamento di Federigo Tozzi, considerato «il più grande scrittore italiano del Novecento». Sentenza sproporzionata e generosa epperò sintomatica nel privilegiare autori tesi all’autenticità di un narrare puro, attaccato all’incomprensibile vitalità dei personaggi e al cupo mistero delle situazioni. Onestamente Baldacci ammise di avere sbagliato nell’interpretare il Tozzi del sessennio senese in chiave di una freschezza sorgiva separata del tutto dal successivo sessennio romano. Giuseppe Nicoletti si sofferma sull’insistenza che Gigi costantemente mostrò nel valorizzare la modernità, esemplificabile in sommo grado nel suo smodato apprezzamento per Moravia: «Scrittore moderno è lui, non Carlo Emilio Gadda, proprio per la sua aderenza esatta al sentimento della propria epoca». Frase che sembra confliggere con la poetica enunciata a margine di Tozzi, qualificato anche lui come un moderno in crisi, desideroso di ancorarsi a una solida ideologia. Conviene precisare che Baldacci usa la categoria di «modernità» non per alludere alle programmate rotture delle avanguardie o all’ardita sperimentazione di nuovi valori, ma per quanti ambiscono con disagio a uscire dal recinto, affrontando mutamenti imprevedibili. E non di rado se n’usciva, burbero e ironico, in perfidi giudizi o in boutades da conversazione: «Tozzi non è un dandy di città né un parroco di campagna». Non soggiaceva a definitive classificazioni storicistiche. In un saggio del 1993 su Arturo Loria confermò che, invecchiando, gli piacevano gli autori «che non lasciano traccia d’ideologie o semplicemente di pensiero, perché la loro tragedia non gli ha consentito di occuparsi d’altro che della propria biologia». Né Baldacci evitava palesi oscillazioni o contraddizioni. Gadda gli apparve penalizzato dall’Ottocento che portava con sé e gli antepose Dossi e Imbriani. Di Italo Calvino apprezzò soprattutto Le cosmicomiche e Ti con zero più che le successive costruzioni combinatorie. Scandalizzò quando prese le distanze da Tomasi di Lampedusa etichettando Il Gattopardo «romanzo decadentistico ritardatario» e lodando a confronto il crudo e schietto De Roberto. La rivalutazione di Aldo Palazzeschi fu più convincente del rispescaggio di Papini, che non si può certo dire immune da furori ideologici. Giovanni Falaschi, che di Baldacci fu amico tra i più cari, sostiene che a Gigi giovarono «intelligenza e solitudine» ed il suo spirito di perpetuo «militante in tutto». Benedetta Centovalli ha antologizzato in libri densi come breviari, saggi estesi e svelte recensioni: gran parte di un’opera della quale vien voglia di disporre nella sua integralità. Qui annota che solo lui poteva permettersi di aggettivare pascoliana La Storia di Elsa Morante senza sollevare irate sorprese. I suoi accostamenti talvolta lasciano senza fiato. Poi ci rifletti…
Adele Dei, sulla scorta di un rapporto epistolare con Giorgio Caproni, osserva quanto Baldacci fosse conquistato dalla chiusura con la tradizione petrarchesca del grande livornese. Al montalismo imperante opponeva un dettato chiaro e scarno. Rimarrebbe da discutere la collocazione che Baldacci assegnò a Leopardi, il più grande dei moderni: «La macchina nichilistica – sintetizzò –, come forma di una mente che crea per distruggere, è solo nello Zibaldone, non è nei Canti». Ma fino a che punto è lecito togliere al «pensiero poetante» di Giacomo le filosofiche e sistematizzanti nervature? Fino a che punto negare la pervasività del suo «pensiero doloroso»? Matteo Marchesini acutamente afferma che la cultura di Baldacci esprime «un interno e incomponibile dissidio»: il critico è costretto a non rifiutare la «maledizione» della modernità, con i concetti e le partizioni necessitate, ma non può accantonare o attenuare l’impegno che la sua «sensibilità d’eccezione» consiglia: la puntuale lettura dei testi al fine di cogliere nella loro «pelle» minimi movimenti, illuminazioni, oscurità, e la vibrante autonomia di parole e figure.
[una versione diversa di questo saggio è stata pubblicata nel «Corriere Fiorentino», 13 aprile 2023, p. 10]