Poche settimane fa, alla Casa della Cultura di Milano, si è tenuto un incontro dal titolo Lirica e Società – Poesia e Politica. Rino Genovese, Paolo Giovannetti, Italo Testa tra gli organizzatori; alcuni noti studiosi di letteratura, critici e poeti di diverso orientamento hanno discusso, a partire da un celebre saggio di Adorno, del rapporto tra poesia e politica nei nostri giorni. Al di là dei singoli interventi, è stato un appuntamento di non poco rilevo: se non altro per aver offerto la possibilità di discutere di una questione ancora molto urgente (ed altrettanto rimossa) come il nesso letteratura-politica. Fatto singolare ma significativo, la discussione si è aperta con un intervento di Guido Mazzoni dal titolo La poesia non muta nulla – preso da un famoso verso di Fortini – mentre Antonio Loreto ha letto e commentato, sul finire dell’incontro, Gli alberi, sempre di Fortini (da Questo muro).
Un richiamo, dunque, quello dell’incontro, a tutto il sommerso mezzo secolo di interlocutori che, come Adorno, hanno guardato alla letteratura come il deposito di qualcos’altro, e da quella si sono mossi per riflettere criticamente sulla contemporaneità in chiave politica. La cosa non interesserà probabilmente a nessuno e tutto succede nel silenzio generale, senza una vera discussione pubblica; il disinteresse verso quelle domande non è per nulla nuovo, così come è peraltro “normale” il vuoto di riflessione sul tipo di elaborazione ideologica che si va producendo in alcune zone importanti della nostra cultura. D’altronde, per molto tempo – e spesso ancora oggi – al nome di Adorno e a ciò che esso evoca si reagisce o col silenzio, o con malcelato imbarazzo.
Storia complessa e contradditoria, quella della circolazione del pensiero di Adorno in Italia. Diversa ma avvicinabile, per certi versi, a quella di Gramsci: oggetto da almeno un ventennio dell’attenzione di studiosi in tutto il mondo, mentre in Italia torna forse solo oggi a occupare la riflessione di critici anche giovani. Ricordandoci quanto ancora poco lo si sia da noi letto e interpretato alla luce della storia. Per questo motivo è necessario parlare di Il presente di Gramsci, una raccolta di saggi curata da Paolo Desogus, Mimmo Cangiano, Marco Gatto e Lorenzo Mari che tenta di riprendere, attraverso una rilettura dei punti cruciali dell’opera gramsciana, una discussione seria su Letteratura e ideologia oggi, come avverte già il sottotitolo del libro. La prospettiva dei curatori e degli autori di questi saggi, va detto esplicitamente, è quella di dieci studiosi che guardano all’opera gramsciana come «forma di resistenza»; meglio ancora: non soltanto a quel modello, bensì al tipo di funzione critica da questa incarnata. Da qui il proposito dichiarato, già nelle pagine introduttive, di riappropriarsi delle categorie concettuali al centro dei Quaderni del carcere per riabilitare il nesso tra teoria e prassi in chiave politica; e ciò a partire dalla critica serrata al proprio lavoro di produttori di cultura. Fine che mette in evidenza la precisa volontà di riallacciarsi all’elaborazione teorica portata avanti della tradizione dialettica marxista novecentesca.
Il dialogo con la figura e l’opera di Gramsci rappresenta per gli autori del volume una presa di posizione radicale – e ciò merita molta attenzione, soprattutto oggi. Come per Edward Said, infatti – uno dei riferimenti critici più presenti agli autori di questi saggi –, l’interesse per Gramsci è rivolto a quel suo esser stato «promotore di un certo tipo di coscienza critica» che, dai margini nei quali è stata confinata, aspetta ancora di essere reinterrogata. Ancora con Said, allora, il problema di superare Gramsci, ma attraversandolo criticamente e verificandone l’utilità; conclusione ribadita nella postfazione di Mauro Pala alla raccolta. Non è sempre stato così.
Strutturato in due parti il libro offre nel suo insieme un modello di critica di stampo gramsciano tutto declinato al presente. Con questo preciso intento, i curatori concentrano nella prima parte del libro una attenta ricostruzione storico-critica della rimozione di tutta una parte del pensiero gramsciano dalla riflessione dei principali gestori della cultura in Italia. Presentando la storia di questa contraddittoria assimilazione, emerge qui in parallelo anche quella della evoluzione degli istituti culturali della sinistra italiana – quella rete che, col Pci al vertice, ha organizzato ideologicamente gran parte della cultura negli anni tra dopoguerra e miracolo economico. Si rende in questo modo esplicita la volontà di discutere, alla luce odierna, il tema dell’autonomia disciplinare nella quale gli studi letterari hanno a poco a poco disciolto il legame tra politica e cultura. Ancora più criticamente sono poi riletti i presupposti teorici dei principali antagonismi sorti all’interno di tutto il movimentismo anni ’50-’60, cioè quelle posizioni che – a partire dalla linea operaista Tronti-Asor Rosa – hanno interpretato la lotta sul terreno politico e culturale lasciandosi alle spalle, o travisando, concetti chiave come egemonia, mediazione, blocco storico, organizzazione della cultura, nazionalpopolare, solo per richiamarne alcuni. I saggi della seconda parte si concentrano invece sul debito di alcuni scrittori italiani (Fortini, Pasolini, Volponi) verso l’opera di Gramsci; mentre un saggio dedicato al cinema chiude il libro e prova a indicare la reale ampiezza del campo d’analisi: la sfera della produzione ideologica dell’industria culturale.
Se l’impostazione di questi saggi resta di natura accademica, va però sottolineata la particolare tensione agonistica che si rileva in molte di queste pagine, e già a partire dal saggio d’apertura di Gatto, Essere gramsciani oggi. Tentando di sintetizzare la densissima teorizzazione al centro del suo scritto – in cui sono sviluppate le tesi principali del libro – direi che qui il senso dell’essere gramsciani è presentato per via oppositiva: attraverso una agguerrita critica agli aspetti di fondo della complessa antropologia occidentale – con attenzione agli esiti nel campo culturale – che hanno reso possibile il travisamento e la marginalizzazione del pensiero dialettico marxista; e, con esso, dell’elaborazione gramsciana. A questo si affianca la proposta di ridefinire il senso di un approccio nuovo al campo culturale; da cui nasce anche l’occasione per sviluppare una teoria che sappia rimettere al centro, in maniera originale, il problema della costruzione di un nuovo senso comune e di una soggettività consapevole del conflitto interno alla mutevole totalità capitalistica. Con i saggi successivi di Desogus, Dainotto e Cangiano, si rende poi chiara l’ambizione dei curatori: proporre una metodologia di lavoro critico di lunga durata che, attraverso Gramsci, riattivi la funzione della critica all’ideologia su base storico-dialettica. Insistendo su di una impostazione volutamente multidisciplinare, che chiama in causa più campi culturali, tale metodo intende insomma inaugurare una prassi critica in continua ridefinizione. Non si tratta solo di riconnettere il proprio lavoro all’orizzonte della politica, ma di gettare le basi per un sapere nuovo e in grado di opporre, all’egemonia ideologica postmoderna, l’egemonia di un sapere in costante formazione. Ed è qui che l’appello a un lavoro di gruppo, inteso come «pedagogia generalizzata» – riflesso nella stessa natura del volume – trova un suo primo riscontro pratico. Con i saggi della seconda parte poi, il senso dell’operazione inaugurata da questa raccolta si fa ancora più esplicito: indicare le mosse per una antropologia storicamente orientata nella direzione di una precisa tradizione di pensiero, da grammaticalizzare e verificare, senza dunque rimanere progetto ideale. Ed è a questa necessità di verifica che rispondono i saggi di Mari, Tricomi, Piccioni e Fichera. Pagine che illustrano, in maniera decisiva, come l’ombra di Gramsci abbia agito in intellettuali come Fortini, Pasolini e Volponi nel mantenere sempre alta l’attenzione verso le proprie responsabilità politiche. Forme di resistenza, anche queste, alle trasformazioni che hanno portato a compimento quella marginalizzazione che è anche lo stato attuale della cultura all’interno della forma di vita occidentale.
Nel suo insieme – perché ad ogni saggio andrebbe dedicato un più ampio commento – colpisce di questa raccolta l’intento di confrontarsi frontalmente con un campo di tensioni ricco di contraddizioni, cioè il circuito accademico a cui è principalmente destinata la pubblicazione. Alla neutralizzazione del discorso critico e letterario degli ultimi vent’anni, Il presente di Gramsci ha il merito di rispondere opponendo un preciso percorso di educazione al conflitto in divenire. Tasselli di un habitus che potrà ritrovare consistenza e autorità soltanto se, come mostra bene il libro, sarà in grado di farsi senso comune o – con Gramsci – egemonia. Pare insomma che alcuni momenti offrano l’opportunità per una discussione finalmente di parte. Che a inaugurarla sia un libro non è cosa nuova, soprattutto quando è spinto da quelle correnti sotterranee che da anni lavorano per ottenerla.