Umanesimo socialista
e letteratura mondiale
nell’opera di Karl Marx
Donatello Santarone
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Le poesie perdono molto, a stamparle strette e inzeppate.
K. Marx, lettera a Joseph Weydmeyer, 16 gennaio 1852.
Leggere Marx è concedersi, anzitutto, un “alto godimento dello spirito”. Perché è come leggere un classico del pensiero e dell’arte mondiali, è come avventurarsi nei canti di Dante, nei primi piani di Masaccio, nelle analisi storiche di Machiavelli, nei ragionamenti di Bacone, nelle fughe di Bach: geroglifici umani e storici altrettanto complessi di quelli che Marx tenta di svelarci parlando della natura misteriosa delle merci, del carattere enigmatico, imprevedibile e mutevole del capitale. Nella discesa all’inferno del capitalismo Marx, a differenza di Dante, che avrà Virgilio, Beatrice e San Bernardo come guide preziose, non ha nessun trio privilegiato, a parte il suo grande amico e sodale Friedrich Engels, ma una moltitudine di scrittori, politici, storici, filosofi, economisti, operai, sarti, orologiai, falegnami e militanti del nascente movimento operaio che saranno le sue guide spirituali e scientifiche in quell’opera, Il capitale, che consiste nello svelamento dei meccanismi profondi, strutturali – quindi al di là delle singole determinazioni e forme relative a epoche tecnologiche e scientifiche diverse – che presiedono al funzionamento del capitale nei suoi processi di autovalorizzazione, di sfruttamento della forza-lavoro, di estrazione di plusvalore, di espropriazione e di privatizzazione della natura, del sapere e dell’essere umano. Un’opera titanica al pari di quella di Prometeo, «il più grande santo e martire del calendario filosofico»,1 secondo le parole di Marx che lo considerava uno dei suoi personaggi preferiti per la capacità di sfidare gli dei e restituire agli uomini il sapere e l’autocoscienza umana. Un’opera-mondo,2 Il capitale, paragonabile alla Divina Commedia, della quale Marx era un entusiasta ammiratore, che leggeva in italiano, e il cui autore, Dante Alighieri, metteva al primo posto tra i poeti di ogni tempo,3 il «poeta prediletto» che aveva assunto a modello di esule costretto a fuggire da Firenze per motivi politici come Marx era stato costretto a fuggire da tutte le capitali europee per rifugiarsi a Londra.
Queste ultime parole di Mehring sono la migliore spiegazione di quell’umanesimo socialista di cui parla il titolo di questo saggio secondo la prospettiva di György Lukács.
Questa aspirazione di Marx non era una posizione idealistica, non era un retorico auspicio un po’ filantropico e liberale. Marx sapeva che l’impedimento fondamentale per i lavoratori nell’accesso alla cultura risiedeva – e risiede – nei rapporti capitalistici di produzione che determinano l’esclusione di milioni di esseri umani sfruttati, alienati, mercificati.
«Tempo per un’educazione da esseri umani»
La tensione classica verso il pieno sviluppo della persona umana, presente in Goethe e Schiller, si scontra con la società classista del capitale nella quale la divisione del lavoro e lo sfruttamento impediscono alla grande maggioranza degli uomini e delle donne di realizzare concretamente lo sviluppo onnilaterale della persona. Per questo Marx si applica allo studio dell’economia classica e alla critica della sua presunta naturalità ed eternità. «Tutta questa merda», scriverà ad Engels a proposito dell’economia politica.11 Egli comprende lucidamente che solo il superamento del regime della proprietà privata borghese, che determina la miseria materiale e spirituale dei lavoratori, potrà consentire a questi ultimi di riappropriarsi della grande tradizione classica mondiale. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro doveva servire proprio a questo, a restituire ai produttori associati tempo e mente per fruire dei più alti prodotti dello spirito.
Sappiamo quanto per Marx abbia contato, nella sua attività instancabile di organizzatore del nascente movimento operaio internazionale, l’attività pedagogica rivolta ai lavoratori per far sì che si sedimentasse una coscienza di classe colta e matura, fondata cioè sullo studio e sulla conoscenza storico-scientifica delle vicende del secolo. Wilhelm Liebknecht (1826-1900), uno dei fondatori della socialdemocrazia tedesca e della Seconda Internazionale, padre del comunista Karl Liebknecht (1871-1919) assassinato insieme a Rosa Luxemburg, esule a Londra nel 1850 dove partecipò alle attività della Lega dei comunisti e dove conobbe Marx che frequentò assiduamente fino al 1862, ci ha lasciato un ricordo vibrante del suo maestro proprio sul tema dello studio:
Marx sollevò il problema in modo qualitativamente diverso. Egli rappresentò questa tendenza antiartistica come una accusa al capitalismo, suggerendo dei provvedimenti – una trasformazione radicale della società – per mezzo dei quali essa può essere arrestata. Le considerazioni estetiche occupano un posto molto importante nella teoria di Marx [corsivo nostro, n.d.r.]. Esse sono così strettamente intrecciate con gli altri aspetti del suo pensiero che è impossibile capire adeguatamente persino la sua concezione economica senza afferrarne le connessioni estetiche. Questo può suonare strano agli orecchi accordati sulla chiave dell’utilitarismo. […]
È inutile dire che proprio come è impossibile apprezzare il pensiero economico di Marx e ignorare la sua visione dell’arte, è ugualmente impossibile afferrare il significato delle sue espressioni in materia estetica senza tener costantemente presenti le interconnessioni economiche. Ma esse sono interconnessioni e non determinazioni meccanicistiche unilaterali.15
In questo brano è presente il riferimento al baco da seta il quale produce seta non per profitto ma perché è nella sua natura. Lo stesso riferimento lo ritroviamo in un’opera divulgativa di Marx, Lavoro salariato e capitale, apparsa nel 1849 nella “Nuova Gazzetta Renana”, in cui Marx paragona, con un’immagine molto efficace, il lavoro salariato degli operai a quello del baco da seta se questo, invece di produrre naturalmente, producesse per la propria sussistenza.
Commentando questo brano, l’illustre germanista Siegbert Salomon Prawer, così scrive:
che chiuderti in te stesso. Attorno a noi
il destino scava molti abissi,
ma il più profondo si apre qui,
nel nostro cuore e ci attira.
Ti prego: liberati da te stesso.
L’uomo guadagnerà quel che il poeta perde.
TASSO. Invano freno quest’impeto
che giorno e notte agita il mio petto.
La vita non è più vita
se non posso meditare e scrivere.
Non puoi vietare al baco da seta di filare
il filo che lo conduce a morte.
Dal suo intimo ordisce
la preziosa tela e non l’abbandona
finché non si è chiuso dentro la sua bara.
Ci permettesse un dio benigno
la sorte invidiabile del bruco:
aprire in una nuova valle di sole
le ali veloci e felici.19
L’immagine del baco da seta – scrive Eugenio Bernardi – fa parte dell’emblematica rinascimentale. Qui essa si ricollega alla concezione della poesia come rinascita. Goethe conosceva la coltivazione dei bachi da seta fin dall’infanzia perché se ne dilettava il padre.20
Ma proviamo ad entrare più da vicino nel laboratorio letterario di Marx, partendo proprio dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, una serie di quaderni di annotazioni e riflessioni non destinati alla pubblicazione che il giovane ventiseienne scrisse a Parigi in uno dei periodi più belli della sua vita.
Nel capitolo dedicato al denaro, che nei Grundrisse viene definito «il Dio tra le merci»,24 Marx si serve di due tra i suo autori più amati, Shakespeare e Goethe, per spiegare la natura onnipotente del denaro. Addirittura in questo brano egli si cimenta in un commento dei brani riportati a dimostrazione di quanta importanza attribuisse alle parole dei due grandi scrittori. Ancora una volta abbiamo la conferma della profonda sensibilità di Marx verso la letteratura da lui considerata un mezzo espressivo capace di scandagliare in profondità i rapporti umani e storici e di dire cose che molto spesso l’ipocrita ideologia dominante occulta e mistifica. La letteratura, insomma, come potente strumento di conoscenza della realtà e come modello di eloquenza e stile.
“Diamine, mani e piedi, è chiaro,
testa e didietro sono tuoi
ma tutto quello che mi godo
forse è per questo meno mio?
Se io mi pago sei stalloni
Non sono mie le loro forze?
Corro, eccomi un vero uomo, come
Ventiquattro ne avessi, di gambe”
(Goethe, Faust, Mefistofele)”.25
Shakespeare nel Timone di Atene:
“Oro? Giallo, splendente, prezioso oro?
No, dèi, non infrango il mio voto.
Datemi radici, chiari cieli!
Tanto di questo renderà bianco
il nero; bello il brutto; giusto
l’ingiusto; nobile il vile; giovane
il vecchio; coraggioso il codardo…
Questo strapperà sacerdoti e servi
dal vostro fianco, ucciderà coi cuscini26
uomini vigorosi. Questo giallo verme
unirà e sfalderà religioni, benedirà
i maledetti, farà adorare la lebbra
canuta, premierà i ladri con titoli,
riverenze e lodi e con gli scanni
dei senatori. Questo è ciò
che fa rimaritare la vedova stantia:
davanti a lei vomiterebbero
l’ospedale e le piaghe ulcerose, ma costui
la imbalsama e profuma e di nuovo la dona
al giorno d’aprile. Vieni, pezzo di terra
dannata, tu puttana dell’umanità
che getti discordia tra la feccia delle nazioni…”.
E più oltre:
“… [Guardando l’oro] O tu, dolce regicida, e amato
Strumento di divorzio tra il figlio e il padre,
tu luminoso corruttore del letto
purissimo di Imene27, tu Marte28
valoroso, tu corteggiatore eternamente
giovane, fresco, amato e delicato,
il cui rossore scioglie la neve consacrata
che giace nel grembo di Diana29! Tu,
dio visibile che fissi insieme
le cose inconciliabili e le fai baciare;
che parli con ogni lingua ad ogni
fine! Tu, pietra di paragone
dei cuori, pensa che l’Uomo tuo schiavo
si ribella e con il tuo potere gettalo
nel caos della discordia sì che le bestie
abbiano l’impero del mondo!”.30
Shakespeare descrive l’essenza del denaro in modo veramente incisivo. Per comprenderlo, cominciamo dall’interpretazione del passo di Goethe.
Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo, Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario?
E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società.
Shakespeare rileva nel denaro soprattutto due caratteristiche:
1) è la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l’universale rovesciamento delle cose. Esso fonde insieme le cose impossibili;
2) è la meretrice universale31 la mezzana universale degli uomini e dei popoli.
La confusione e il rovesciamento di tutte le qualità umane e naturali, la fusione delle cose impossibili – la forza divina – propria del denaro risiede nella sua essenza in quanto è l’essenza estraniata, che espropria e si aliena, dell’uomo come essere generico. Il denaro è il potere alienato dell’umanità.
Quello che io non posso come uomo, e quindi quello che le mie forze essenziali individuali non possono, lo posso mediante il denaro. Dunque il denaro fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che esso in sé non è, cioè ne fa il suo contrario.
Quando io ho voglia di mangiare oppure voglio servirmi della diligenza perché non sono abbastanza forte per fare il cammino a piedi, il denaro mi procura tanto il cibo quanto la diligenza, cioè trasforma i miei desideri da entità rappresentate e li traduce dalla loro esistenza pensata, rappresentata, voluta nella loro esistenza sensibile, reale, li traduce dalla rappresentazione nella vita, dall’essere rappresentato nell’essere reale. In quanto è tale mediazione, il denaro è la forza veramente creatrice. […]
Se ho una certa vocazione per lo studio, ma non ho denaro per realizzarla, non ho nessuna vocazione per lo studio, cioè nessuna vocazione efficace, nessuna vocazione vera. Al contrario, se io non ho realmente nessuna vocazione per lo studio, ma ho la volontà e il denaro, ho una vocazione efficace. […]
Il denaro muta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, il servo in padrone, il padrone in servo, la stupidità in intelligenza, l’intelligenza in stupidità.
Poiché il denaro, in quanto è il concetto esistente e in atto del valore, confonde e inverte ogni cosa, è la universale confusione e inversione di tutte le cose, e quindi il mondo rovesciato, la confusione e l’inversione di tutte le qualità naturali ed umane.32
Ma il giovane Marx non fu attratto solo dalle famose citazioni dei Manoscritti. L’intera tragedia di Shakespeare, «nella sua straordinaria asciuttezza unita ad una violenza verbale che non trova riscontro altrove»34 e così profondamente pessimistica sulla natura umana e attraversata dal tema del movente economico che determina i comportamenti umani, affascinò Marx. «La storia narrata è quella della vendetta di Timone – vendetta non contro i suoi persecutori personali, ma contro una società che ha accettato un mondo di falsi valori, e in primo luogo il denaro, assunto come divinità suprema».35 E ancora una volta il ricorso alla grande letteratura mondiale, in questo caso a una tragedia di Shakespeare, ci consente di apprezzare il modo in cui il filosofo tedesco usa la letteratura mettendola in relazione con la storia, la politica, l’economia, la filosofia, facendola parlare al e del presente, e così sottraendola alla naftalina degli specialismi accademici che troppo spesso tutto ibernano e neutralizzano.
A proposito di questo passo del giovanissimo “vecchio Marx”, citato in un’antologia personale «sia per il suo valore critico (e la sua qualità letteraria) che come omaggio alla totalità dell’autore», così ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, tra i massimi critici letterari e storici della lingua:
Le fonti del Timone shakespeariano sono essenzialmente Plutarco e Luciano di Samosata. Si tratta quindi di una lunga tradizione che arriva a Matteo Maria Boiardo (1441-1494) il quale, sulla scorta di un dialogo dello scrittore greco Luciano di Samosata, scrive intorno al 1490 una commedia in terzine intitolata Timone, che però quasi sicuramente né Shakespeare né Marx lessero. Anche perché non può dirsi letterariamente riuscito. Ne vogliamo dare comunque un lacerto in cui Boiardo racconta la progressiva rovina di Timone:
di abondante divenne bisognoso,
di bisognoso càde in povertade.
Venuto al fin mendico e vergognoso,
vien da color schernito e discaciato
che per lui richi vivono in riposo.
Tutto el tesor, che el patre avea lassato,
pallagi e ville e gran possessione,
donando a questo e a quello, ha consumato;
et è condutto in tal derisione,
che cum la testa e bracie discoperte
se veste una peliza di montone.40
Qualche lustro più tardi il poeta romanesco Cesare Pascarella (1858-1940) scriverà una poesia dal titolo ‘Na predica de mamma, un sonetto che è un cinico e disincantato inno al denaro, che esprime una visione pessimistica, cupa, utilitaristica del rapporto tra gli uomini, una prospettiva senza speranza in cui gli unici veri amici sono i soldi. Leggiamone la prima quartina e l’ultima terzina:
Fin che nun hai bisogno e fin che ci hai;
Ma si, Dio scampi, te ritrovi in guai,
Te sbatteno, fio mio, la porta in faccia.
[…]
Che ar monno, a ‘sta Fajola d’assassini,
Lo vòi sapé’ chi so’ l’amichi veri?
Lo vòi sapé’ chi so’? So’ li quatrini.41
Questi continui richiami espliciti o impliciti alle più diverse opere del passato e del presente ci invitano a leggere e rileggere tali opere e a interrogarci continuamente sul perché Marx estragga da un testo questa o quella fulminante citazione. E per tornare al nostro Timone shakespeariano, risulta oramai evidente che l’interesse del filosofo tedesco – come abbiamo già detto – va al di là delle singole citazioni riportate nei Manoscritti, le quali in realtà, come spesso accade in tanti altri suoi scritti, da una parte servono a sostenere e arricchire letterariamente un ragionamento, ma, dall’altra, sono spie stilistiche che ci segnalano l’interesse dell’autore verso l’intera opera presa di volta in volta in considerazione. Nel Timone d’Atene è presente, ad esempio, il tema dell’arte asservita al potere nelle figure del poeta e del pittore sorpresi da Timone, che li ascolta senza farsi scorgere, nel loro dialogo adulatorio, ipocrita, interessato solo al denaro. Anche in questa parte finale della tragedia, Timone pronuncia un’invettiva contro l’oro:
se viene adorato in un tempio più vile
del truogolo dei porci? Sei tu
che armi la nave e solchi la schiuma,
che spingi lo schiavo all’ammirata riverenza.
Sii adorato: e i tuoi santi che obbediscono
soltanto a te siano per sempre
incoronati di piaghe!46
In tutto questo accanimento contro l’«oro» c’è chi – ricorda Antonio Meo – ha «voluto vedere nel Timone anche un attacco all’usura, un quadro del caos sociale derivante dalla rovina economica della nobiltà caduta nelle mani degli usurai».47
Anche l’illustre anglista Giorgio Melchiori sottolinea questa componente economica dell’opera shakespeariana ricordando che quella di Timone non è solo un’invettiva contro tutto il genere umano in assoluto, ma una condanna contro
L’altissima considerazione che il Moro50 aveva nei confronti dei grandi classici della letteratura mondiale traspare in moltissimi luoghi della sua produzione. Le opere dei suoi scrittori prediletti si depositano nelle sue pagine e gli offrono tipi, rappresentazioni, analogie, metafore, luoghi, linguaggi che entrano in maniera organica nelle sue analisi economiche, storiche, politiche, filosofiche.
Talvolta si sdraiava sul divano e leggeva un romanzo; talvolta ne leggeva due o tre contemporaneamente, alternando la lettura; anche lui, come Darwin, era un gran lettore di romanzi. […] Al primo posto fra tutti i romanzieri poneva Cervantes e Balzac. Don Chisciotte era per lui l’epopea della cavalleria morente, le cui virtù diventavano ridicole e pazzesche nel mondo borghese nascente. La sua ammirazione per Balzac era così profonda che si era proposto di scrivere una critica della sua grande opera, La Comédie Humaine, appena avesse terminato la propria opera di economia.51
Un tratto fondamentale dello stile di Marx – ha scritto Ludovico Silva -«enunciato alla sua maniera […] si profila come una dialettica dell’espressione o […] come un’espressione della dialettica. […]». Marx «materializza la dialettica in uno stile letterario che costituisce l’espressione più perfetta del movimento logico-storico di cui è fatta la dialettica».52
Ludovico Silva ricorda poi, citando ad esempio i Manoscritti del ’44, quanta importanza avesse per Marx, proprio sul piano stilistico, questo procedimento dialettico costruito attraverso opposizioni concettuali che riflettono quelle sintattiche.
Va ribadito, se ce ne fosse ancora bisogno, che la dimensione letteraria in Marx non è in alternativa alla dimensione argomentativa della sua prosa scientifica. Tutta la sua scrittura è attraversata da una forte compenetrazione del letterario e dell’extra letterario, del verso e del numero, dello scavo poetico e di quello economico. Non è pertanto condivisibile l’opinione di quanti, come Gabriele Pedullà, richiamandosi alle testimonianze della figlia Eleanor, del genero Paul Lafargue e del compagno di lotta e collaboratore del Moro, Wilhelm Liebknecht, sostengono che in queste testimonianze «il poliglotta appassionato di poesia ha la meglio sull’algido castigatore dell’economia politica borghese».54 Se per “algido” si intende la freddezza distaccata del borghese, il presunto oggettivismo dello specialista, la boriosa altezzosità dell’accademico, ebbene nella prosa di Marx non è presente alcuno di questi tratti, la prosa di Marx non è mai “algida”. Al contrario, essa è sempre attraversata da un profondo sdegno verso le condizioni indegne di vita e di lavoro a cui il capitale costringe gli esseri umani. Quella tra passione poetica e freddezza economica è pertanto una contrapposizione artificiale, come quella, così nefasta per i suoi dogmatici effetti, tra “struttura” e “sovrastruttura”, una contrapposizione che forza la totalità dialettica della scrittura e del pensiero di Marx, il quale è riuscito invece – rarissimo esempio per chi si occupa di economia politica – a restituire l’umanità profonda, la sofferenza, l’irriducibilità del singolo lavoratore, esponendo la sua teoria critica del capitale.
Appare invece più convincente la riflessione svolta dallo stesso Pedullà sulle tracce presenti in ogni opera letteraria del movente economico così ben rilevato da Marx:
Ricordiamo, per inciso, che questa passione letteraria lo portò a scrivere poesie in gioventù e a seguire assiduamente durante gli anni universitari corsi di argomento estetico-letterario. Ad esempio, tra i corsi frequentati nei due semestri invernale e estivo del 1835-36, seguiti, come recita il Certificato di congedo dell’Università di Bonn, «con assiduità e attenzione», ve ne sono quattro (su dieci: ricordiamo che si trattava di una facoltà di legge) dedicati alla letteratura e all’arte: “Mitologia greca e romana”, “Questioni su Omero”, “Storia dell’arte moderna”, “Elegie di Properzio”.57
Il Manifesto secondo Umberto Eco
Le radicali trasformazioni della società mondiale, determinate dall’ascesa della borghesia e dalla nascita del capitalismo, si riflettono nel Manifesto del partito comunista, pubblicato da Marx ed Engels nel 1848 ma la cui stesura ultima è frutto della penna del solo Marx. Dal punto di vista letterario il Manifesto è un vero proprio gioiello di stile e di potenza espressiva, analizzato con rara finezza da Umberto Eco il quale sosteneva che il piccolo libro andava riletto
Inizia con un formidabile colpo di timpano, come la Quinta di Beethoven: «Uno spettro si aggira per l’Europa»58 (e non dimentichiamo che siamo ancora vicini al fiorire preromantico e romantico del romanzo gotico, e gli spettri sono entità da prendere sul serio). Segue subito dopo una storia a volo d’aquila sulle lotte sociali dalla Roma antica alla nascita e sviluppo della borghesia. […] Si vede (voglio proprio dire «si vede», in modo quasi cinematografico) questa nuova inarrestabile forza che, spinta dal bisogno di nuovi sbocchi per le proprie merci, percorre tutto l’orbe terraqueo (e secondo me qui il Marx ebreo e messianico sta pensando all’inizio del Genesi), sconvolge e trasforma paesi remoti. […]
Il Manifesto cita le vie ferrate, ma pensa anche alle nuove comunicazioni di massa (e non dimentichiamoci che Marx ed Engels nella Sacra famiglia avevano saputo usare la televisione dell’epoca, e cioè il romanzo di appendice, come modello dell’immaginario collettivo, e ne criticavano l’ideologia usando linguaggio e situazioni che esso aveva reso popolari). […]
A parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica (e non solo) e dovrebbe essere studiato a scuola insieme alle Catilinarie e al discorso shakespeariano di Marco Antonio sul cadavere di Cesare. Anche perché, data la buona cultura classica di Marx, non è da escludere che proprio questi testi egli avesse presenti.59
La potente letterarietà del Manifesto fu avvertita da Bertolt Brecht, il quale nel 1945 compone circa 500 esametri dal testo Marx e Engels (poi pubblicati nel 1957 nel n° 5 della rivista «Sinn und Form») e così scrisse nel suo Diario di lavoro in data 11-2-1945: «Decido di mettere in versi Il manifesto, sul tipo del poema didascalico di Lucrezio […] Come “pamphlet” il manifesto è già di per sé un’opera d’arte; tuttavia oggi mi sembra possibile rinnovarne l’efficacia propagandistica a distanza di cento anni, e con un’autorità più moderna e armata, superando il suo carattere di pamphlet».61 Ne riportiamo i primi versi nella traduzione del 1959 di Ruth Leiser e Franco Fortini.
Guerre rovinano il mondo, uno spettro va in giro fra i ruderi.
Non nato dalla guerra: l’hanno visto anche in pace, da tempo.
Per chi comanda è tremendo; ma è amico ai ragazzi di strada.
Sbircia nelle cucine dei poveri, scuote la testa
su dispense semivuote, numera
chi sta sfinito lungo le staccionate
di sterri e di cantieri, visita amici
nelle carceri, dove anche senza permesso sa entrare.
L’hanno visto persino negli uffici; lo hanno ascoltato
negli atenei, qualche volta è salito persino
su carri armati giganti, ha volato su aerei mortali.
In molte lingue parla: in tutte. E in molte anche tace.
Ospite nei quartieri dei poveri, spavento ai palazzi,
venuto a restare per sempre: è Comunismo il suo nome.
Quanto ve ne han parlato: ma è scritto nei classici.
Se voi leggete la storia, leggete di gran personaggi,
dei loro astri che sorgono e cadono, dei loro eserciti,
dello splendore e rovina dei regni. Ma per i classici
storia è innanzi tutto storia delle lotte di classe.
Perché han veduto, divisi in classi, in se stessi far guerra
i popoli: cavalieri e patrizi, schiavi e plebei,
nobili, contadini e artigiani, oggi proletari e borghesi,
reggono lungo i tempi l’immensa struttura
produttiva e la distribuzione dei beni vitali, pur sempre
combattendo una lotta a coltello, antichissima, per il potere.
E, combattendo, i maestri grandi, che i popoli scuotono,
hanno aggiunto così alla storia dei dominatori
quella dei dominati. Ma in modi molto diversi
agiscono i dominatori: i patrizi non come i baroni,
e questi non come i borghesi delle corporazioni e questi ultimi
non come fanno i borghesi di tempi e città più recenti.
Ecco una classe, qui, che si serve del despota, ecco
altrove il dispotismo molteplice delle assemblee,
qua una classe che cerca guadagno in guerra, là in pace.
Il loro sigillo così esse lasciano agli evi, ma solo
come può farlo la specie del loro potere e la lotta
coi dominati, continua. Dietro terribili guerre
di popoli, altre ne infuriano, all’ombra di quelle.
Fan guerra ai francesi i tedeschi, ma le città
alleate all’Imperatore, in Germania, talvolta
lottano contro i principi. A Roma, in tempi remoti
patrizi e cavalieri erano contro i plebei, mentre intanto
verso il glaciale Ponto marciavano le legioni.
C’era, talvolta, tregua. Poi le classi, alleate, lottavano
contro il nemico esterno, sospendendo quei loro conflitti.
Ma la vittoria di entrambe, da una sola classe era vinta:
una ritorna in festa, l’altra suona le campane,
cuoce la cena della vittoria, inalza colonne…
Sappiamo quanto Marx amasse moltissimo un altro romanziere, Honoré de Balzac, fino al punto da identificarsi – secondo la testimonianza del genero Paul Lafargue – nel protagonista di un suo racconto.
Tornando al Manifesto del ’48, troviamo, in un famoso e profetico passo sulla globalizzazione del capitale, un chiaro riferimento ad uno dei poeti più amati da Marx, cioè Goethe, ed alla sua nozione di letteratura mondiale.
Struttura e sovrastruttura
L’importanza che il filosofo tedesco conferisce alla «letteratura mondiale», ai prodotti spirituali ci consente di enfatizzare l’antideterminismo di Marx il quale, come abbiamo più volte ripetuto, da appassionato e colto lettore delle grandi letterature mondiali, sa quanto conti la dimensione simbolica, il bello, l’immaginazione artistica nella costruzione della coscienza umana sempre vista dialetticamente connessa alla dimensione economica.
Ma, come sempre secondo Marx, sono i concreti rapporti sociali, i rapporti tra capitale e lavoro, i rapporti di potere e di classe, i rapporti di proprietà, in una parola i rapporti di produzione, a determinarne l’esito e la qualità. Come scrisse in un memorabile discorso del 1856, fatto in occasione del quarto anniversario del giornale operaio «The People’s Paper»,
Ma la nozione di «letteratura mondiale» deriva a Marx, come si è detto, direttamente da Goethe.
“Welt”, mondo
Ma il mondo gli incute anche un profondo sgomento, dominato con faticosa e marmorea dignità classica. Goethe era persuaso di vivere una svolta radicale della storia, che stava trasformando la stessa natura dell’uomo: assisteva alla fine della millenaria civiltà imperniata sull’individuo e all’avvento di una nuova civiltà, impersonale e collettiva, nella quale l’arte – la poesia individuale, classica e perenne – forse non avrebbe avuto più senso. Senza lasciarsi irretire dalla politica, Goethe ha una consapevolezza fortissima, specialmente negli ultimi anni, dell’importanza che assumono, per la letteratura, i contenuti reali ovvero le forze del “grande mondo” della politica, le personalità o i movimenti sociali che determinano la storia mondiale.
Nei saggi sull’Adelchi e sul Conte di Carmagnola di Manzoni, per esempio, Goethe – oltre ad analizzare con attenzione e a celebrare con fervore la bellezza poetica dei testi – apprezza «la materia da magnificare», che ha offerto all’autore grandi possibilità di poesia. Avrebbe certo approvato la risposta amabile e modesta di Manzoni a Longfellow: quando il poeta americano gli diceva la sua ammirazione per Il cinque maggio, Manzoni schermiva replicando che, in quella poesia, «era il morto che portava il vivo» e cioè che la grandezza di quell’opera derivava soprattutto dal suo tema, da Napoleone.
Nella sua lunga vita [1749-1832] Goethe è contemporaneo dei grandi eventi politici, sociali e culturali che presiedono alla nascita del mondo contemporaneo: l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, l’impero napoleonico e la restaurazione, l’ascesa della borghesia e la Rivoluzione industriale, lo sviluppo della scienza, la filosofia hegeliana, la poesia e il nichilismo dei romantici. Di tutti questi fenomeni, che sconvolgono l’ordine tramandato e modificano radicalmente l’esistenza individuale, mettendone in difficoltà la reale autonomia creativa, Goethe – che si considera uno degli ultimi grandi individui – vuol fare la sostanza di una poesia capace di salvare l’individuale dicendone l’eclissi o il tramonto. Il secondo Faust, la sua opera suprema, vuol essere, nelle sue stesse strutture stilistiche e nella sua ambigua dissoluzione delle forme tradizionali, l’«incommensurabile» rappresentazione poetica di questa incommensurabile trasformazione che investe alle radici il secolare retaggio europeo, esautorando il soggetto e mettendo in crisi la stessa sopravvivenza della poesia.
Nei suoi ultimi anni Goethe parla spesso della “Weltliteratur”, della letteratura universale che si sta sviluppando sotto i suoi occhi, rendendo anacronistici i confini letterari nazionali. Il termine “Weltliteratur” è ambiguo: talora indica il crescente scambio culturale fra i popoli, talvolta designa opere poetiche il cui spirito abbraccia problemi e motivi d’ampiezza cosmopolita e, più spesso, si riferisce a una rete di rapporti internazionali che non riguarda tanto la letteratura, quanto altre sfere dell’attività umana: il commercio, l’industria e in generale l’economia, le nuove linee e i nuovi strumenti di comunicazione.
“Weltliteratur” indica, anche e soprattutto, quelle trasformazioni delle strutture sociali cui è connesso il carattere universale della nuova letteratura che sta formandosi. […]
Sul piano meramente letterario, “Weltliteratur” indica, com’è stato più volte ed egregiamente sottolineato, sia l’interesse di Goethe per le varie letterature straniere sia il ruolo straordinario ch’egli gioca su scala mondiale. Goethe fa propri i classici francesi, inglesi, italiani, spagnoli; guarda a Voltaire, ama Sterne, trasferisce la lezione di Goldsmith nel racconto del suo amore per Friederike, si sofferma sulla genialità ebraica e infonde al suo classicismo la moralità di Racine, traduce Benvenuto Cellini e si riconosce nella poesia persiana sino quasi alla reticente identificazione, legge i grandi spagnoli e si interessa delle letterature più varie, appartate e periferiche; ciò che significano per lui Shakespeare e gli antichi non occorre ricordarlo.
“Weltliteratur” indica, inoltre, il suo rapporto personale diretto con i più grandi e celebri autori contemporanei – da Scott a Madame de Staël, da Byron, a Nerval, a Carlyle – e il suo ruolo di centro ideale della cultura europea, la sua casa di Weimar […] “Weltliteratur” significa anche l’irradiazione e diffusione internazionale delle sue opere, che vengono tradotte ed imitate in tutta Europa. […] [Letteratura mondiale è] “libero commercio delle idee e dei sentimenti”, come Goethe stesso chiama la “Weltliteratur”.77
La tensione goethiana verso una letteratura mondiale e quella marxiana verso l’internazionalismo sono due matrici importantissime dell’odierno discorso educativo che si vuole “interculturale” e che si propone la disseminazione di una cultura pedagogica e disciplinare cosmopolita, capace di accogliere e valorizzare le differenze, aperta alle storie e alle culture del mondo.
Per ciò che concerne, nello specifico, la letteratura e il suo insegnamento, si tratta di assumere la prospettiva goethiana e marxiana di un coraggioso “internazionalismo letterario” che possa consentire nelle scuole e nelle università lo studio non occasionale dei maggiori rappresentanti delle letterature mondiali.78 Uno studio, però, che sia capace di far dialogare le diverse tradizioni letterarie (quindi non solo quelle dell’occidente), nella prospettiva dinamica e dialettica del «contrappunto» di cui ha parlato il grande critico palestinese-statunitense Edward Said.79 Lo slogan “prima gli italiani” negli studi letterari suona ridicolo (come d’altronde in tutti gli ambiti della vita civile). Perché nessuna opera nazionale è mai soltanto “nazionale”. Ogni grande autore è attraversato da sollecitazioni e modelli stranieri e italiani che riesce, per dir così, a “centrifugare” nella sua opera. Senza parlare della grande poesia classica greca e latina: Omero e Virgilio non sono “italiani”. Che ne facciamo?
La grande passione letteraria di Marx non è naturalmente un’eccezione per i giovani studenti figli dei ceti benestanti europei dell’Ottocento. Una solida cultura classica, come ad esempio saper leggere in greco e latino gli autori antichi, era comune in tutti i licei europei dell’epoca. Così come altri pensatori prima di Marx avevano trattato temi letterari e problemi di estetica. Ricordiamo solo che Hegel dedicherà un’opera specifica proprio all’estetica. Ma la particolarità di Marx risiede nel fatto che egli si applica ad uno studio “matto e disperatissimo” di tutta l’economia politica, maggiore e minore, attraverso una ricerca meticolosa e seria nei meandri delle teorie economiche, dei computi matematici, delle definizioni di salario, prezzo, valore, nella storia dell’industria, della tecnica e della scienza moderna, e di tutto questo fa materia delle sue opere le quali, però, non sono mai aride compilazioni apologetiche per accademici esangui – come ce n’erano anche allora – ma proposte teoriche rivoluzionarie innervate di passione, di indignazione, di denuncia, di ironia e sarcasmo nei confronti di quella che, con un’immagine ripresa dall’antica mitologia indiana, chiama la ruota di Juggernaut del capitale.81
Per dare voce alle sue denunce – non moralistiche ma storico-politiche – Marx ha bisogno anche della letteratura perché molto spesso romanzi e poesie penetrano in profondità, condensano ed evocano concetti, idee, espressioni, tesi e temi che rendono più vicina la materia trattata – «svelare la legge economica del movimento della società moderna», come è scritto nella Prefazione alla prima edizione tedesca del Capitale – e danno ad essa una forma preziosa e colta, una solidità estetica di tipo classico. Marx ne era così convinto che decide di terminare la prefazione citata con un verso di Dante che, secondo la testimonianza di Wilhelm Liebknecht, era «la sua massima favorita»:83
Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!84
disse ’l maestro, “che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla”.
(Purg. V, vv. 10-18)85
È interessante che Marx – ha scritto Daniele Maria Pegorari – abbia ricordato questo passo […] proprio quando sta per varare il cammino della critica scientifica al processo capitalistico, associando implicitamente ma eloquentemente la «cosiddetta “opinione pubblica”» ai pigri, naturalmente con un’accezione che in questo caso si fa tutta intellettuale: lo scetticismo, la superficialità o addirittura l’indifferenza di molti dinanzi alle tesi economiche di Marx equivalgono a una negligenza ideologica, a un’inerzia del pensiero che non si preoccupa di contestare le ragioni dell’avversario attraverso argomentazioni altrettanto analitiche, ma si accomoda al conformismo del già noto, nella placida immutabilità degli assetti socio-economici e politico-culturali determinati dalla modernità.
Ciò che attira l’attenzione del dantista, però, è la strana circostanza del riporto testuale manipolato nel primo emistichio, con quel «Segui il tuo corso» che sostituisce il corretto «Vien dietro a me», ricostituendo però perfettamente l’unità metrica dell’endecasillabo a minore;86 considerando che il passo è riportato in italiano (e, dunque, non è conseguenza di un errore di traduzione dal toscano antico al tedesco) e che la variante riportata non è attestata nella tradizione manoscritta della Commedia, costituisce ancora un problema filologico ed esegetico di non poco conto comprendere come Marx abbia potuto rielaborare quel verso, rimanendo fedele a quella natura sentenziosa, gnomica, che alcuni passi dell’opera dantesca conservano nella memoria collettiva.
L’articolo di Marx, scritto in inglese, compare nella «New-York Daily Tribune» del 4 aprile 1853, il giornale statunitense al quale egli lungamente collaborò dal 1852 al 1861 come corrispondente dall’Europa e su cui scrisse, tra le tante corrispondenze, alcuni fondamentali articoli di politica estera sulla Russia, l’India e la Cina, veri e propri saggi di approfondimento storico, politico, sociale ed economico in cui l’autore del Capitale mostra il carattere globale e interdipendente del capitalismo, la ferocia del colonialismo britannico, il nesso inestricabile tra la rivoluzione in Occidente e la rivoluzione in Oriente.90
In questo articolo contro il «Times», esempio della brillante e caustica polemica giornalistica di Marx, un posto di prim’ordine spetta proprio a Dante esiliato da Firenze91 ma fortunatamente – ricorda Marx con piglio irridente – risparmiato da un editoriale del «Times»!
Molto caustica è infine la parte in cui il filosofo tedesco ricorda che le vendite e i relativi guadagni del giornale londinese sono in gran parte dovute proprio alle vicende continentali legate agli odiati “stranieri” senza i quali le pagine del giornale si ridurrebbero alle anguste cronache locali. O anche le crociate reazionarie dell’autorevole quotidiano fondato nel 1785 contro Napoleone o gli Stati Uniti d’America.
«Molti membri del gabinetto credono che il nostro paese sia felice di ospitare un vero serraglio di rifugiati, individui feroci di tutti i paesi, rotti a ogni delitto… Gli scrittori stranieri che denunciano la presenza in Inghilterra dei loro compatrioti proscritti, credono forse che l’esistenza di un rifugiato sia una sorte invidiabile? Si disilludano. Questa infelice classe di esseri vive, per la maggior parte, in squallida povertà, si ciba del sale dello straniero, quando può procurarselo, sballottata come è nei torbidi flutti di questa vasta metropoli… La sua punizione è l’esilio nella sua forma più aspra».
Su questo punto il «Times» ha ragione: l’Inghilterra è un paese delizioso per chi ci vive fuori.
Nel “cielo di Marte” Dante incontra il suo avo Cacciaguida degli Elisei, che gli predice il futuro esilio da Firenze con queste parole:
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui e com’è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.93
Felice Dante, un altro di quegli “esseri appartenenti a quella sciagurata classe detta dei rifugiati politici”, che i suoi nemici non poterono minacciare con la vergogna di un editoriale del «Times»! E più felice il «Times», cui la sorte ha evitato un “posto riservato” nell’Inferno dantesco.94
L’opera di Marx è un oceano infinito – come, d’altra parte, le sue letture: un «oceano senza fondo»95 – in cui si rischia di naufragare se non si ha la pazienza di studiare e ristudiare i suoi testi, se non si ha la necessaria calma e il tempo lungo per riflettere su di essi, per farli, come il buon vino, decantare affinché possano sprigionare, tra le tante cose, quel ricchissimo repertorio di materiali letterari, di scrittori classici e contemporanei che per Marx erano un nutrimento indispensabile per affrontare il duro viaggio nell’inferno del capitale. Tale ricchezza di riferimenti letterari avvicina il lettore – e qui è già presente una suggestione metodologica – ai grandi classici della letteratura mondiale e lo stimola ad una lettura integrale delle opere maggiori di questi autori: l’Odissea, il Prometeo incatenato, l’Eneide, le Metamorfosi, la Divina Commedia, il Mercante di Venezia, il Don Chisciotte, il Faust e tantissimi altri. Il plurilinguismo di Marx, il suo «cosmopolitismo interculturale» (Merker) rappresentano oggi un modello, un metodo, un orientamento fecondo e aperto utile a misurarsi con la complessità del nostro tempo che il capitale vorrebbe sfuggente, indecifrabile, immodificabile. La prospettiva di Marx risulta oggi attuale in un mondo in cui i «prodotti spirituali» (Manifesto) sono sempre più globali e interdipendenti, in cui le letterature dei diversi paesi dialogano in forma «contrappuntistica» (Said), in cui sembrerebbe affermarsi l’ideale goethiano di una «letteratura mondiale». Uso il condizionale perché sono percorsi lunghi e contraddittori, segnati da profondi dislivelli di cultura, da accentuate disuguaglianze nell’accesso al sapere, da continue risorgenze di prodotti culturali segnati dal nazionalismo, dal razzismo, dal militarismo.
1 Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, in K. Marx – F. Engels, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma 1972-1990, vol. I, p. 25. Nella Prefazione alla sua tesi di laurea (1840-41) Marx riporta, in greco, anche la risposta di Prometeo al servitore degli dèi Ermete: «Questa sventura non la cambierei / con la tua servitù, sappilo bene. / Meglio essere schiavi a questa pietra / che i messi di fiducia di Zeus Padre». (Eschilo, Prometeo incatenato, a cura di E. Mandruzzato, Rizzoli, Milano 2017, p. 137).
2 Riprendo questa definizione da F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal «Faust» a «Cent’anni di solitudine», Einaudi, Torino 1994. Moretti, a sua volta, dichiara che la sua ricerca «si richiama, e non è solo un calco verbale, all’“economia-mondo” di Braudel e Wallerstein» (p. 4).
3 Confessioni, in Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XLII, p. 650.
4 N. Mehring, Vita di Marx, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 501.
5 G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1973, pp. 36-37.
6 Ivi, p. 58.
7 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1978, pp. 156-57; 118-19.
8 «Ha raccontato una volta Goffredo Fofi che uno dei compagni di “Quaderni Rossi”, non ricordo ora quale, chiese un giorno a Panzieri, con qualche insofferenza, perché desse tanto ascolto a Fortini, che era in fin dei conti un poeta. Panzieri allora prese tra i suoi libri la Vita di Marx di Franz Mehring e lesse il passaggio in cui si parla dei rapporti tra Marx e Heine. Si tratta del capitolo sull’Esilio a Parigi e vi si dice come per Marx i poeti non potessero essere misurati “con la misura degli uomini comuni e anche non comuni”, e inoltre che egli vedeva in Heine non solo il poeta “ma anche il lottatore” e uno spirito libero, per questo capace di intendere i “più profondi nessi della vita storica”» (Luca Lenzini in A. Prunetti, A proposito di Franco Fortini. Intervista a Luca Lenzini, «carmillaonline.com», 6 gennaio 2015). Cfr. Mehring, Vita di Marx, cit., p. 80.
9 L. Silva, Lo stile letterario di Marx, Bompiani, Milano 1973, p. 19. «Varrebbe la pena di ristamparlo», scrisse Umberto Eco a proposito di questo libro (U. Eco, Uno spettro (di Marx) si aggira nella globalizzazione, in «La Stampa TuttoLibri», 3 ottobre 2015).
10 H.M. Enzensberger, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino 1977, p. 5.
11 «Sono tanto avanti che entro cinque settimane sarò pronto con tutta la merda economica», 2 aprile 1851 (Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XXXVIII, p. 249); «Tutta questa merda sarà distribuita in sei libri», 2 aprile 1858 (Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XL, p. 329).
12 Enzensberger, Colloqui con Marx e Engels, cit., p. 178.
13 K. Marx, Il capitale. Libro I, trad. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 300.
14 Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XXIX, p. 218.
15 I. Mészáros, La teoria dell’alienazione in Marx, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 233-234.
16 K. Marx, Teorie sul plusvalore, vol. I, trad. e prefazione di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 599-600. Scritte tra il gennaio 1862 e il luglio 1863, le Teorie sul plusvalore sono dei quaderni di carattere storico-critico che Marx definì come il «Libro quarto del Capitale».
17 Lavoro salariato e capitale, in Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. IX, pp. 208-209.
18 S.S. Prawer, La biblioteca di Marx, trad. di Marco Papi, Garzanti, Milano 1978, p. 161. Siegbert Salomon Prawer (Colonia, 1925 – Oxford, 2012), tedesco, figlio di genitori ebrei emigrati in Gran Bretagna nel 1939 per fuggire dal nazismo, è stato professore di Lingua e Letteratura Tedesca nelle Università di Oxford e Cambridge. Tra i suoi interessi critici, Heine, E.T.A. Hoffman e il Romanticismo tedesco. Nel 1976 Prawer pubblica in lingua inglese, presso la Oxford University Press, Karl Marx and World Literature (ristampato dall’editore Verso di Londra nel 2011), uno studio analitico di carattere storico-filologico che attraversa l’intera opera del filosofo tedesco (dalle opere minori al ricco epistolario e servendosi sempre dei testi originali), uno «studio cronologico» – come scrive il germanista di Oxford – «dei rapporti di Marx con la letteratura» (p. 7), in cui rintraccia la presenza palese o occulta dei grandi autori della letteratura mondiale del presente e del passato utilizzati da Marx in maniera, per utilizzare un termine della teologia, “consustanziale” alle sue argomentazioni di carattere filosofico, storico, politico, economico. Non, quindi, un uso ornamentale, retorico, sussidiario, ma necessario a Marx per dare “carne e sangue” e profondità estetico-concettuale alle sue idee. Il libro di Prawer non vuole essere, come egli stesso scrive nella presentazione, «un libro sul marxismo, né un tentativo di elaborare un’ennesima teoria marxista della letteratura. L’autore si propone, invece, di spiegare […] ciò che Marx ha detto della letteratura in vari momenti della sua vita, quale usi egli fece di tutti i romanzi, le poesie e le opere teatrali che lesse per diletto o per istruzione, e come egli introdusse, in opere non riguardanti direttamente la letteratura, la terminologia e i concetti della critica letteraria» (p. 7). Il libro di Prawer venne ottimamente tradotto da Marco Papi (traduttore di Joyce, Gordimer, Henry James, Asimov e tanti altri) nella serie blu dei saggi Garzanti nel 1978. Mentre le ricerche bibliografiche furono curate da Alberto Aiello, storico redattore della MEOC (Marx-Engels, Opere Complete, di Editori Riuniti). Solo il titolo fu infelice: La biblioteca di Marx, probabilmente perché a quell’epoca in Italia non suonava familiare la nozione goethiana di «letteratura mondiale». Quando uscì nel 1978 il libro di Prawer fu totalmente ignorato (forse perché scritto da un riservato filologo oxoniense anglo-tedesco estraneo ai clamori politico-culturali di quel tempo e per giunta neanche dichiaratamente “marxista”). Gli studi su Marx erano volti verso altre direzioni. A tutt’oggi, inoltre, esso rappresenta ancora, a livello internazionale, la più esauriente e autorevole trattazione del rapporto di Marx con la letteratura mondiale.
19 W.J. Goethe, Torquato Tasso, a cura di E. Bernardi, trad. di C. Lievi, Marsilio, Venezia 1988, p. 231-233.
20 Ivi, p. 262.
21 Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 131.
22 Id., Introduzione alla critica dell’economia politica, commento storico critico di M. Musto, trad. it. di G. Backhaus, Quodlibet, Macerata 2010, p. 46.
23 D. Harvey, Marx e la follia del capitale, Feltrinelli, Milano 2018, p. 8.
24 Grundrisse, cit., p. 152.
25 W.J. Goethe, Faust, intr., trad. e note a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1970, Parte I, scena IV, vv. 1820-1827. Qui si riporta la traduzione di Fortini e non quella riportata da Bobbio.
26 «Letteralmente: “togliere i cuscini… da sotto le teste”, che era un metodo per uccidere facendo mancare il fiato alle vittime» (nota di Agostino Lombardo, in W. Shakespeare, Timone d’Atene, intr. di Nemi D’Agostino, prefazione, trad. e note di A. Lombardo, Garzanti, Milano 2009, p. 201).
27 Il dio greco degli sposi.
28 Dio romano della guerra. Per i greci, Ares, figlio di Zeus e di Era.
29 Nome romano della dea greca Artemide, tra le massime del pantheon ellenico. Protettrice dei parti, delle mandrie, dei torrenti e dei fiumi e dea della caccia.
30 «Marx riproduce la traduzione di Schlegel e Tieck […] Il corsivo è di Marx» (nota di Norberto Bobbio, ndr]. Abbiamo qui utilizzato non la versione riportata da Bobbio ma la traduzione che Agostino Lombardo fece in occasione della messa in scena dell’opera con la regia di Luigi Squarzina, andata in scena al Teatro Argentina di Roma il 21 aprile 1983. Cfr. Shakespeare, Timone d’Atene, cit., pp. 125; 151-53).
31 Tito Livio: «meretrix universalis».
32 Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., pp. 151-156.
33 A. Meo, Introduzione, in W. Shakespeare, Timone d’Atene, Troilo e Cressida, trad. e note di A. Meo, Garzanti, Milano 1977, p. XVIII.
34 G. Melchiori, Introduzione al «Timone d’Atene», in W. Shakespeare, Teatro, Mondadori, Milano 2008, p. 551.
35 Ivi, p. 552.
36 P.V. Mengaldo, Antologia personale, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 110-111.
37 Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. III, p. 156.
38 Shakespeare, Timone d’Atene, cit., p. 33.
39 F. Kermode, Il linguaggio di Shakespeare, Bompiani, Milano 2000, p. 278.
40 M.M. Boiardo, Timone, a cura di L. Serra, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1994, p. 27.
41 C. Pascarella, La scoperta dell’America e altri sonetti, Mondadori, Milano 1968, p. 53. Diamo la parafrasi italiana del testo: «Gli amici? Ti aprono le braccia / Fino a quando non hai bisogno e fino a quando hai disponibilità economica; / Ma se, e Dio ci scampi, ti ritrovi nei guai, / Ti sbattono, figlio mio, la porta in faccia. // […] Perché nel mondo, in questa faggeta di assassini [probabile riferimento ai boschi di faggi nei Colli Albani vicino Roma dove si nascondevano i briganti], / Lo vuoi sapere chi sono gli amici veri? / Lo vuoi sapere chi sono? Sono i soldi». Riportiamo per completezza il sonetto intero: «L’amichi? Te spalancheno le braccia / Fin che nun hai bisogno e fin che ci hai; / Ma si, Dio scampi, te ritrovi in guai, / Te sbatteno, fio mio, la porta in faccia. // Tu sei giovene ancora, e ‘sta vitaccia / Nu’ la conoschi; ma quanno sarai / Più granne, allora te n’accorgerai / Si a ‘sto monno c’è fonno o c’è mollaccia. // No, fio mio bello, no, nun so’ scemenze; / Quer che te dice mamma, ‘sti pensieri / Tiètteli scritti qui, che so’ sentenze; // Che ar monno, a ‘sta Fajola d’assassini, / Lo voi sapé’ chi so’ l’amichi veri? / Lo voi sapé’ chi so’? So li quatrini».
42 Goethe, Faust, cit., p. 123.
43 S. Gandesha – F.J. Hartle, The Aesthetic Marx, Bloomsbury, London 2017, p. XI.
44 Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 128.
45 Prawer, La biblioteca di Marx, cit., p. 87.
46 Shakespeare, Timone d’Atene, cit., p. 78.
47 Meo, Introduzione, cit., p. XVIII.
48 Melchiori, Introduzione al «Timone d’Atene», cit., p. 552.
49 Lombardo, Prefazione, in Shakespeare, Timone d’Atene, cit., pp. XXXVII e XXXIX
50 Così soprannominato per la carnagione scura, il barbone e i capelli folti, oltreché per la sua grandissima passione per le opere di Shakespeare, in una delle quali, l’Otello, il celebre protagonista è chiamato il “Moro di Venezia”.
51 Enzensberger, Colloqui con Marx e Engels, pp. 244-245.
52 Silva, Lo stile letterario di Marx, cit., pp. 33-34.
53 Ivi, pp. 42, 45.
54 G. Pedullà, Tendance Karl, in K. Marx, Scorpione e Felice, intr. di G. Pedullà, con una nota di C. Magris, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2011, pp. XI-XII.
55 Ivi, pp. XX-XXI.
56 W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 79.
57 Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. I, pp. 754-755.
58 Che curiosamente nella traduzione italiana, è un endecasillabo a maiore (vedi nota 76) con accenti di 3ª, 6ª, 10ª.
59 Eco, Uno spettro (di Marx) si aggira nella globalizzazione, cit.
60 Prawer, La biblioteca di Marx, cit., p. 93.
61 B. Brecht, Diario di lavoro. Volume secondo. 1942-1955, a cura di W. Hecht, trad. di B. Zagari, Einaudi, Torino 1976, p. 804.
62 F. Fortini, Introduzione a B. Brecht, Poesie e canzoni, trad. di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi, Torino 1981, p. XVI. Anche le notizie sul testo e la citazione degli esametri di Brecht, provengono da questa edizione alle pp. 204-205.
63 Enzensberger, Colloqui con Marx e Engels, cit., pp. 248-49; 245.
64 Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XLII, p. 142. Lettera del 31 luglio 1865.
65 Prawer, La biblioteca di Marx, p. 53.
66 E. Mengaldo, Metabolismo e teatro, alchimia e religione. Appunti per una metaforologia del Capitale di Karl Marx, in A. Fribo, S. Bozzola, A. Soldani, a cura di, Le occasioni del testo. Venti letture per Pier Vincenzo Mengaldo, Cleup, Padova 2016, p. 186.
67 K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, trad. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 58.
68 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 5.
69 Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XLVIII, pp. 492-94.
70 N. Merker, Karl Marx. Vita e opere, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 105.
71 È il titolo che Franco Fortini dà ad una sua amara, sarcastica e insieme ironica poesia del 1957, Weltgeschichtlich (ossia – scrive l’autore in una nota – «dal punto di vista di una storia mondiale»): «Come la lanterna del duomo / era grande la bocca della giovinetta / che due cattivi legavano a un palo / sullo schermo del drive-in. Gesù / parlava con l’accento del pontefice / – high fidelity – nel microsolco. / Tre scrittori francesi domandavano / la via di Auschwitz / a un comunista ucraino morto a colpi / di leninismo nelle costole. Era / difficilissimo, vivere. Noi, / per fortuna, avevamo una villetta / a Cavi di Lavagna; ed i decenni / passano in fretta» (F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2014, p. 209).
72 A.A. Santucci, Senza comunismo. Labriola Gramsci Marx, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 120-121.
73 Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper», in Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XIV, pp, 655-656. Robin Goodfellow (“bravo ragazzo”), conosciuto anche come Puck, nella tradizione mitologica e favolistica inglese è una sorta di folletto autore dei più imprevedibili incantesimi. Nella commedia di Shakespeare è al servizio di Oberon, il re delle fate, con il quale si diverte a confondere la vita dei quattro giovani protagonisti dell’opera. È assai singolare che l’immaginazione di Marx arrivi ad attribuire ad un folletto il compimento della rivoluzione. Ma se pensiamo che l’abbattimento del capitalismo e la costruzione del comunismo è per Marx un’opera di radicale rovesciamento delle gerarchie economiche e sociali, il riferimento ad un facitore di incantesimi che scardina i ruoli è molto pregnante.
74 J.P. Eckermann, Conversazioni con Goethe, trad. di A. Vigliani, Einaudi, Torino 2008, p. 176.
75 E. Ganni, Note a Eckermann, Conversazioni con Goethe, cit., p. 633. «In realtà» – ha scritto Remo Ceserani – «Goethe non fu il primo in Germania a parlare di Weltliteratur. Lo studioso tedesco Hans-J. Weitz ha scoperto […] che la parola Weltliteratur (se non proprio il concetto goethiano) era stata usata dal poeta, narratore e traduttore di Shakespeare Cristoph Martin Wieland» (Cfr. G. Benvenuti – R. Ceserani, La letteratura nell’età globale, il Mulino, Bologna 2012, pp. 42-43).
76 Nonostante Said includa anche Goethe nella categoria degli “orientalisti” (cfr. E. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2005), non risparmiando neanche Marx. Il quale, in verità, con il passare degli anni ebbe posizioni sempre più critiche nei confronti del colonialismo dei paesi capitalistico-occidentali. L’estraneità di Marx a qualsivoglia “costruzione” orientalista è documentata, anche sulla base della nuova edizione critica della MEGA², in M. Musto, L’ultimo Marx. 1881-1883, Donzelli, Roma 2016 e Id., Karl Marx. Biografia intellettuale e politica. 1857-1883, Einaudi, Torino 2018. In un altro scritto sul tema (Un europeo non eurocentrico, A. Carioti, Karl Marx vivo o morto?, Solferino, Milano 2018), Musto ricorda le critiche dell’indiano Ranajit Guha, fondatore dei “Subaltern Studies”, a quanti, e tra questi Said, non contestualizzano storicamente le affermazioni di Marx spesso estrapolandone alcune frasi.
77 Goethe, la prosa del mondo e la “Weltliteratur”, in C. Magris, Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 1999, pp. 122-123; 126.
78 «Allargare il canone sino a includervi gli stranieri comporta […] far ricorso prevalente alla traduzione invece che alla lingua originale. In molti casi, niente di male: ciascuno di noi ha ammirato Guerra e pace o Delitto e castigo, riconoscendoli come capolavori letterari, pur senza sapere una parola di russo. Qualcosa, certo, va perduto; ma è importante notare – come ha fatto Francesco Orlando – che una serie di strutture portanti della letterarietà sono sicuramente transnazionali in quanto indipendenti dalla lingua nazionale: i generi, la forma del contenuto e l’organizzazione interna delle opere, molte figure retoriche (le cosiddette figure di pensiero), la metrica, i temi non dipendono dalla lingua. Nel romanzo, per esempio, le forme del contenuto sono in genere assai più rilevanti degli aspetti fonici e fonico-simbolici. Se è vero che la traducibilità resta un problema insuperabile per la poesia lirica (per la quale l’organizzazione dei significanti è fondamentale e per cui dunque bisognerà tendere sempre a offrire una traduzione a fronte, senza rinunciare all’originale), così non è per l’epica, per la novellistica, per il romanzo, per le opere teatrali. Se, per esempio, la conoscenza del romanzo ottocentesco si limitasse a quella, pure importante, di Manzoni e di Verga, se ne avrebbe un’idea ben modesta» (R. Luperini, Cinque tesi sull’insegnamento della letteratura, in «L’Ospite Ingrato», VIII, 1, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 96-97).
79 «Per la prima volta nella storia moderna, l’intero grandioso edificio del sapere umanistico, poggiante sui classici delle lettere europee, e con esso la disciplina di studio inculcata formalmente agli studenti nelle università occidentali, in forme a noi tutte familiari, rappresentano solo una frazione delle reali relazioni e interazioni umane attualmente in atto nel mondo» (E. Said, Per una critica laica, in «Allegoria», 48, settembre-dicembre 2004, p. 23).
80 D. Alighieri, De vulgari eloquentia, in Opere minori, Utet, Torino 1983, pp. 397-399.
81 “Juggernaut” è l’adattamento inglese del nome indostano “Jagannāth”, “Protettore dell’Universo”. È una divinità indiana, ottava incarnazione di Visnù. Talvolta i fedeli si facevano schiacciare sotto le ruote del carro che recava la sua effige.
82 Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 706.
83 Enzensberger, Colloqui con Marx e Engels, cit., p. 178.
84 Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 35.
85 Riportiamo la parafrasi delle terzine dal commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi (Zanichelli, Bologna 2000, p. 84): «Perché il tuo animo rimane così preso”, disse il mio maestro, “che rallenti il cammino? che t’importa di ciò che qui si bisbiglia? Vieni dietro a me, e lascia dire la gente: sta’ saldo come una torre ferma, che non scrolla qua e là la sua cima al soffio dei venti; poiché sempre l’uomo in cui un pensiero nasce continuamente sopra l’altro, finisce con l’allontanare da sé la meta (il segno) a cui è diretto, perché l’uno (il nuovo pensiero) indebolisce l’intensità dell’altro». Insolla: rende molle, cedevole, quindi indebolisce.
86 «L’endecasillabo, oltre all’accento costante sulla decima sillaba, ha un accento principale mobile, che cade per lo più o sulla quarta o sulla sesta sillaba. Alla parola che porta questo secondo accento principale, segue nella lettura una pausa: il verso ha cioè una cesura. La cesura divide il verso in due emistichi, l’uno più breve e l’altro più lungo. Quando il secondo accento principale cade sulla quarta sillaba, il primo emistichio è più corto e allora il verso si chiama endecasillabo a minore; quando il secondo accento principale cade sulla sesta sillaba, il primo emistichio è più lungo, e si tratta allora di un endecasillabo a maiore» (W.T. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Le Monnier, Firenze 1979, p. 52).
87 M.D. Pegorari, Il Codice Dante. Cruces della «Commedia» e intertestualità novecentesche, Stilo Editrice, Bari 2012, pp. 69-70; 74. Sul rapporto tra Dante e Marx si vedano anche: E. Guidobaldi, L’esule Karl Marx in prospettiva dantesca, in AA.VV., Dantismo russo e cornice europea, Olschki Editore, Firenze 1989 e G. Sgrò, “Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!”. Karl Marx lettore della Commedia, in «Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri», X, 2013, Fabrizio Serra Editore, Pisa/Roma 2014.
88 Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 281.
89 F. Fortini, Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani, a cura di D. Santarone, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 27.
90 «La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude. […] Gli effetti distruttivi dell’industria inglese, visti in rapporto all’India – un paese grande come tutta l’Europa – si toccano con mano, e sono tremendi. Ma non dimentichiamo ch’essi non sono che il risultato organico dell’intero sistema di produzione com’è costituito oggi. Questa produzione si fonda sul dominio assoluto del capitale» (K. Marx – F. Engels, India Cina Russia, a cura di B. Maffi, il Saggiatore, Milano 2008, pp. 108-109).
91 Guidobaldi, L’esule Karl Marx in prospettiva dantesca, ricorda altri illustri esuli come Ugo Foscolo e Gabriele Rossetti che guardarono sempre a Dante come exemplum di esule politico.
92 L’Alien Bill (Legge sugli stranieri) fu approvato dal parlamento inglese nel 1793 e infine nel 1848, in connessione con gli avvenimenti rivoluzionari sul continente e con la dimostrazione cartista del 10 aprile 1848 perché venisse accolta la Carta del popolo. Secondo la legge, uno straniero poteva: essere espulso dall’Inghilterra in qualsiasi momento, su disposizione del governo. La legge rimase in vigore fino al 1850 [sintesi da note Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XI, pp. 660 e 695].
93 Paradiso, XVII, 58-60.
94 Marx-Engels, Opere Complete, cit., vol. XI, pp. 558-559.
95 Ruge a Feuerbach, 15 maggio 1844, cit. in Silva, Lo stile letterario di Marx, cit., p. 20.
96 V. Gerratana, Prefazione a K. Marx – F. Engels, Sull’arte e la letteratura, Universale Economica, Milano 1954, pp. VIII-IX.
97 I. Wallerstein, Il capitalismo non è eterno e Marx è ancora necessario, intervista rilasciata a M. Musto, «Corriere della Sera», 8 aprile 2018. Cfr. le parole di Engels a Bloch già citate a pag. 25: «studiare questa teoria sulle fonti originali e non di seconda mano».