Una biografia operaia
Su Amianto di Alberto Prunetti
Daniela Brogi

Nel novembre 2018 «L’ospite ingrato» ha pubblicato tre brani tratti da Amianto, una storia operaia, romanzo uscito nel 2012 e che costituisce una della narrazioni italiane più significative degli ultimi anni, assieme ai testi (di Murgia, Ferracuti, Trevisan, Falco) via via considerati negli articoli già usciti su questa rivista, sotto la rubrica “conflitto/lavoro”.

Il primo merito di Amianto, tuttavia, non consiste tanto nella scelta del tema, quanto nella sua messa in forma, vale a dire nella soluzione originale dei problemi di distanza e di inquadratura connessi alla costruzione e alla composizione del contenuto. Il romanzo, infatti, non svolge una vicenda eroico-sovversiva proveniente da lontano, come nei lavori precedenti di Prunetti (Potassa, 2003; L’arte della fuga, 2005; e Il fioraio di Perón, 2009), ma affronta una situazione tra le più vicine e più intime da narrare. Amianto è la storia di un figlio che racconta la storia vera del padre: Renato, classe 1945, saldatore tubista per le raffinerie di tutta Italia e che, a forza di lavorare respirando fibre nocive, è stato ucciso da un tumore a poco più di sessant’anni.

Raccontare la malattia e la morte di un genitore costa molto, sia in senso emotivo che tecnico-formale, e molte volte si fallisce, perché si appiattisce l’esperienza di perdita su una narrazione sentimentale incapace di funzionare e resistere oltre la durata della lettura o il perimetro della sofferenza personale. In Amianto, invece, l’impietosimento è quasi sempre lasciato da parte – non è lì che converge l’energia del racconto; di conseguenza, la vicenda di Renato “resta” e acquista una verità emblematica extraindividuale: è uguale a tante altre, ma nel medesimo tempo diventa unica, perché non si riduce al tempo di un sentimento scontato.

L’uso non ingenuo del pathos non è, tuttavia, il motivo più importante per cui Amianto è un libro riuscito, anche nel senso che si legge volentieri. Le ragioni sono altre, principalmente due: l’argomento affrontato, ovvero il rimosso storico della vita operaia italiana; e la capacità, in senso tecnico, di trattare la storia. Dal punto di vista etico e politico la questione seria certamente è la prima; tuttavia qui si darà spazio critico alla seconda. Al contrario del romanzo Acciaio e dell’ancor più brutto film che ne è stato tratto, Amianto è un libro all’altezza delle proprie intenzioni perché l’autore ha saputo scrivere una biografia operaia. Riassumerò cosa voglio dire in tre punti, in ciascuno dei quali si lascerà voce al testo.

La biografia è la scrittura di una vita che dura fino al suo termine. Il destino di morte che la attende – e di cui il lettore è informato subito – è il punto di tensione di tutto il racconto. Ma l’aggettivo che accompagna il sottotitolo del libro («una storia operaia») non è accessorio, perché Amianto è la storia di un individuo che in ogni punto della sua vita è un operaio. Ciò significa, in primo luogo, che la voce narrante sceglie di dare e riesce a dare la parola al padre, che ha voce davvero: non è una figura usata per riflettere, dalla prospettiva esterna di chi narra, intorno a una generica condizione di alienazione, né è pretesto di costruzione di una situazione narrativa metaforica. Stavolta l’operaio c’è e vive davvero, e muore da operaio, con il suo linguaggio, con l’ordine delle parole che nomina l’ordine delle cose che danno sostanza alla sua esistenza. Riprendiamo un passaggio dal primo estratto pubblicato sull’«Ospite ingrato»:

Lui distende una prolunga industriale che si snoda lungo il perimetro di una cisterna piena di idrocarburi. Il terreno è impastato d’olio denso e vischioso, d’un nero virato al cobalto. Collega la saldatrice al cavo elettrico, fissa la pinza a un elemento in metallo, inserisce nella seconda pinza un elettrodo, poi l’appoggia a terra. Impugna con la sinistra una maschera da saldatore e se l’avvicina al volto. Un altro operaio afferra un telone grigio sporco e lo srotola sopra di lui. Adesso è completamente al buio. Con la destra impugna la pinza, avvicina l’elettrodo al metallo. Scocca la luce, violenta, ammortizzata dalle lenti affumicate della maschera: scintille fioccano dalla punta dell’elettrodo che si consuma velocemente, sciogliendo e raggrumando metallo attorno ad altro metallo. Quando l’elettrodo è completamente fuso, l’uomo, sempre sotto il telone, afferra il mazzuolo e nell’oscurità indovina facilmente il grumo ancora incandescente ma già rappreso. Con la testa del mazzuolo picchia sul grumo e rompe la scorza di scorie attorno al punto di saldatura.

Un lavoro pericoloso, saldare a pochi centimetri da una cisterna di petrolio. Una sola scintilla è in grado di innescare una bomba che può portarsi via una raffineria. Per questo ti dicono di utilizzare quel telone grigio sporco, che è resistente alle alte temperature perché prodotto con una sostanza leggera e indistruttibile: l’amianto. Con quello le scintille rimangono prigioniere e tu rimani prigioniero con loro e sotto il telone d’amianto respiri le sostanze liberate dalla fusione di un elettrodo. Una sola fibra d’amianto e tra vent’anni sei morto (p. 13).

In secondo luogo, Amianto è una biografia anche nel senso che il narratore testimone, ovvero il figlio che svolge la memoria della propria infanzia in simultanea con il racconto della vita del padre, restituisce corpo, identità biologica, al destino di Renato, assicurandogli lo statuto di soggetto: affettivo, fisico, politico, linguistico – ogni aspetto si fonde con l’altro.

Proprio perché non è un personaggio allegorico, né l’oggetto di uno sguardo estraneo, l’operaio Prunetti è una figura incarnata: da un lato nei disastri che un giorno dopo l’altro lo aggrediscono, scrivendo sul suo corpo la storia di una persona distrutta dalla fabbrica («1985, Renato ha quarant’anni, quanti ne ho io adesso. È ancora magro e muscoloso, apparentemente in ottima forma. Ma già ha bisogno di una serie di protesi per connettersi al mondo: occhiali, dentiera, apparecchio acustico»: p. 45); e dall’altro lato incarnata nel senso che è identificata pienamente nell’immaginario legato alla forma di vita operaia, che non è soltanto alienazione, tragedia, ma anche identificazione vitale in un mondo raccontato con partecipazione piuttosto che osservato:

Quando tornarono i miei ripartimmo verso la Maremma. Ma prima Renato doveva passare, come sempre, dal dopolavoro della Solvay, dove c’era un cartellone con i risultati del calcio di prima categoria e interregionale, dove giocava il Rosignano. Un ultimo poncino alla livornese, poi un’ora di auto sulla via Aurelia attaccati alla radio e ai risultati del campionato che per noi valeva più della Coppa Campioni: il Guasticce che batte il Tuttocalzatura, il Pomarance che va pari in casa del Larderello, il Tuttocuoio che affonda il Calcinaia e lunedì mattina alle due, in piena oscurità, ripartenza in treno sulla linea tirrenica verso Genova, Sarzana o Savona, dovunque ci fossero tubi da saldare, manicotti da congiungere, coibentature da smantellare.

E, purtroppo, amianto da respirare (pp. 37-38).

E infine: Amianto racconta una storia tragica facendoci anche ridere, per esempio quando i babbi che accompagnano i ragazzini nelle trasferte di calcio nei paesini dei minatori dell’entroterra maremmano finiscono per scazzottarsi con i padri della squadra avversaria (p. 59), o come quando Renato, ormai malato terminale, si beffa degli altri malati e dei dottori (pp. 103-104). Ma il riso non ci diverte e basta, perché il paradosso costruisce serietà, mantiene la tensione: fa parte della scena ma, soprattutto, fa parte di chi l’ha risistemata per scriverla e per cercare di strappare al sovrano il potere della rappresentazione. Il protagonista di Amianto è, infatti, anche un tipo: la sua biografia è degna di interesse non solo per la sua particolarità, ma perché appartiene a una storia di tutti da non dimenticare: è, per l’appunto, una biografia operaia. Per unire il significato privato e quello collettivo dell’esistenza del protagonista, l’autore ha incurvato il racconto in senso umoristico. Ha faticato, dunque; come spiega lui stesso, ha fatto come il padre; e così ha impedito che Renato Prunetti rimanesse un morto che tace:

Il racconto dovrebbe tenere come un raccordo di tanti tubi diversi. Lui lo diceva sempre: mettici il canapone, regge più del teflon. Stai solo attento a rispettare il senso della filettatura e lega il tutto con un dito sporco di mastice verde. Poi stringi con forza, ma senza cattiveria. Non deve perdere (p. 11).