Non è facile resistere alla tentazione di far principiare dai fatti più recenti un articolo nel quale si vorrebbero sommariamente ricapitolare gli usi pubblici e politici di Dante Alighieri negli ultimi due secoli, pur con la consapevolezza di quanto possa essere metodologicamente discutibile un tale abbrivio. Nondimeno, procedere inizialmente a passo di gambero può essere utile per ponderare quanto ancora siano frequenti le divulgazioni corrive, pervasive le retoriche patrie che brandiscono il poeta come un vessillo nazionale. Non ci si deve, certo, stupire per il rinnovarsi di uno dei miti intorno al quale, indubitabilmente, si è fondato e si è costruito nei decenni l’immaginario dell’identità italiana moderna, tantomeno scandalizzare della sua rinnovata diffusione popolare e “pop”; semmai non trascurare il rischio che l’autore della Commedia torni a essere divulgato come una sorta di campione archetipico della nazione, o peggio come un antesignano di un nazionalismo che non solo ben poco c’entra con i contenuti delle sue opere, ovviamente, ma che fa paventare un nuovo uso politico sicuramente sbagliato della letteratura, per dirla con Calvino, e che rischia di diventare senso comune.
La prima edizione del «Dantedì», la giornata istituita per celebrare Alighieri il 25 marzo di ogni anno, nel 2020 era occorsa proprio pochi giorni dopo l’inizio del primo lockdown causato dall’epidemia di Covid-19 e aveva colto tutti piuttosto impreparati: annullate molte delle iniziative previste, la ricorrenza era trascorsa senza troppi clamori tanto che i timori fondati che Stefano Jossa aveva espresso per tempo in un articolo su «Doppiozero» sembravano fugati.1 Durante il confinamento, del resto, a fare “sentire” tali gli italiani” era stata, per così dire, la pandemia stessa, l’angoscia che un evento così terribile e inatteso aveva suscitato: tricolori sui balconi, canti dalle finestre e inevitabili, sovrabbondanti dosi di retorica (“andrà tutto bene”, “ne usciremo migliori di prima” e così via). Un anno dopo, ai cittadini fiaccati da mesi di paura e restrizioni, ripiombati in zona rossa, non poteva bastare il repertorio dei mesi precedenti, ormai inevitabilmente usurato: occorreva affidarsi a un eroe nazionale, evocare un grande nume patrio, attorno al quale la nazione, provata, potesse ritrovarsi. Chi, allora, se non il sempre caro e austero padre Dante? Nel 2021, infatti, grazie soprattutto al fatto che il «Dantedì» cadeva nell’anno settecentenario, ma anche a causa della perizia nel frattempo acquisita nella realizzazione di eventi a distanza sulle piattaforme digitali, Dante, mercé i suoi numerosi portavoce, ha potuto benedire i propri figli italiani da ogni schermo della nazione. Questo Dante settecentenario, infatti, perfino più di quanto si potesse temere, è stato prepotentemente italiano.2 Già non pochi titoli di libri divulgativi, pubblicati a ridosso della ricorrenza, rimarcavano questa sorta di territorialità del poeta: quello del giornalista del «Corriere della sera» Aldo Cazzullo, per esempio, A riveder le stelle, salutato oltretutto da un immediato successo mediatico e commerciale, il cui sottotitolo recitava: Dante il poeta che inventò l’Italia; oppure, con toni ancora più solenni e roboanti, il volume di uno degli intellettuali di riferimento della destra nazionale, Marcello Veneziani, Dante, nostro padre. Il pensatore visionario che fondò l’Italia.3 Specie nel saggio di Cazzullo torna un Dante “nostro contemporaneo” in quanto capace di denunciare implacabilmente i vizi degli italiani e benevolmente di esaltare le loro virtù; pregi e difetti ovviamente invariati nel corso di sette secoli, a fare del poeta di Beatrice quasi l’archè di un eterno presente italiano. Finanche la giornalista conduttrice del Tg 2 di prima serata, presentando, proprio in occasione del «Dantedì», la lettura del XXVII canto del paradiso di Roberto Benigni che la rete si accingeva a trasmettere, esaltava l’afflato patriottico che le terzine del Ghibellin fuggiasco infondono in chi lo legge o lo ascolta: «grazie Benigni, e grazie Dante di farci sentire italiani». Mercé il poeta e il suo canto immortale ci si dovrebbe sentire italiani, dunque, anche se non si sa bene in che modo, rispetto a chi, e soprattutto cosa mai esattamente voglia dire l’espressione “sentirsi italiani”; come se, oltretutto, l’autore ausonio più conosciuto oltreconfine possa o addirittura debba essere apprezzato solamente al di qua delle Alpi. Nondimeno, in occasione dell’anniversario, si è potuto prendere atto che il rigenerato orgoglio nazionale di matrice dantesca può arrivare al punto di non paventare, se necessario, crisi diplomatiche con gli stati stranieri, allorquando un loro cittadino mancasse di rispetto al nostro poeta. Nonché a incorrere a imbarazzanti figuracce, come è avvenuto quando un quotidiano italiano ha assai malamente riportato un articolo dantesco del critico del «Frankfurter Rundschau», Arno Widmann, imputandogli di avere maltrattato Dante. Non era così, ovviamente (e sarebbe stato sufficiente risalire alla fonte), ma tanto è bastato per scatenare la reazione su di alcuni leader politici della destra (Giorgia Meloni, Matteo Salvini) e addirittura del Ministro dei beni culturali allora in carica, Enrico Franceschini.4
A disinnescare questo armamentario retorico, grossolano e robusto, sarebbe potuta bastare la lettura del saggio di Francesco Filippi, Prima gli italiani! (sì, ma quali?),5 tempestivo e opportuno nell’anno settecentenario. Ma, per il caso in questione, non è detto che fosse sufficiente. Perché non si tratta certo di mettere in discussione il valore dell’opera dantesca, né di negare la sua rilevanza nella storia letteraria e civile del Paese nel corso dei secoli, ovvero di sminuirne il contributo decisivo per la codificazione di una lingua nazionale. E nemmeno di biasimare l’orgoglio con il quale, nei media generalisti, è stata celebrata una gloria nazionale riconosciuta ovunque nel mondo, quand’anche affettate e approssimative siano queste liturgie. Del resto, in occasione dell’anniversario, non sono mancate pubblicazioni capaci di analizzare e descrivere, ma anche di divulgare e finanche di celebrare, con intelligenza, L’Italia di Dante, per citare il titolo di una di queste: il ponderoso Viaggio nel paese della Commedia, dettagliatissimo baedeker dantesco e insieme personale diario di viaggio, lungo la penisola e le isole, di Giulio Ferroni.6 Oppure di volare lontanissimo dalla nostra noiosa ossessione identitaria, sulle ali dell’intelligenza e della più vitale filologia, come ha fatto Federico Sanguineti col suo Le parolacce di Dante Alighieri.7 Nondimeno, lontano finalmente da noi l’anno dantesco, forse non è inopportuno riflettere su questo rinnovato e un tantino minaccioso uso pubblico del poeta.
Difficile stabilire se sia più rassicurante o più inquietante ricondurre questa recrudescenza a una tradizione persistente, la quale coincide in maniera quasi didascalica con la genesi del nazionalismo moderno, con le sue degenerazioni e con il suo tralignamento novecentesco, ovvero se si tratti, più banalmente, di una sovreccitata reviviscenza da comunicazione social-televisiva in tempi di claudicante qualità della comunicazione culturale (o meglio di esiziale difficoltà a selezionare informazione culturale di qualità). Di questa tradizione ha ricostruito la storia – una storia culturale che mai come in questo caso si intreccia con la storia politica – Fulvio Conti in Il sommo italiano. Dante e l’identità della nazione,8 lettura irrinunciabile da collazionare quantomeno con un saggio di Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, apparso qualche anno prima su un fascicolo di «The Italianist»9 e con il più recente lavoro di Stefano Jossa, Dantisti, dantofili, dantologi, dantomani e dantofobi nel dibattito estetico (e politico) nell’Italia di Primo Novecento.10
II.
È tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, come è risaputo, che l’interesse per Dante torna a prendere vigore, dopo secoli nei quali l’attenzione verso Alighieri e il suo capolavoro era stata al più discontinua e occasionale:
Dodici anni dopo che Giacomo Leopardi licenziava la canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze (1818), il monumento veniva eretto, ovviamente dentro alla chiesa di Santa Croce. Un cenotafio (le spoglie del poeta, ancorché ripetutamente reclamate dalla municipalità fiorentina, di centenario in centenario, rimarranno a Ravenna) realizzato da Luigi de Cambray Digny e Stefano Ricci, in cui l’allegoria dell’Italia è finalmente fiera, impettita ai piedi del suo poeta, a differenza di quella prostrata e afflitta sul sepolcro di Vittorio Alfieri sito nello stesso luogo, scolpita nel 1810 da Antonio Canova. Sarà la prima di una lunga serie di statue che, specie dopo l’unificazione, avrebbero popolato le piazze delle città della penisola, modificandone la toponomastica. Nel frattempo, a proposito di tombe, quella di Ravenna diventava tappa irrinunciabile del viaggio in Italia, assecondando la fascinazione romantica per i sepolcri: dopo Alfieri, vi faranno tappa, tra gli altri, appunto Byron, Shelley, Chateaubriand, de Musset, James. Alla vigilia dell’unificazione, dunque, Dante era già «l’Italiano più italiano che sia stato mai», come scriveva Cesare Balbo, primo presidente del consiglio del Regno di Sardegna, nel 1853.
Assai interessante, specie per cedere alla tentazione di azzardare qualche confronto con i fasti del settecentenario del 2021, è la ricostruzione delle cerimonie e degli eventi organizzati in occasione di altre due ricorrenze fatidiche: quella della nascita del poeta, nel 1865, e quella di ormai più di cento anni or sono, alle quali il saggio di Conti dedica svariate pagine, nonché di quanto è accaduto nei cinquantasei anni intercorsi tra i due anniversari. Il centenario del 1865 cadeva pochi mesi dopo la proclamazione di Firenze nuova capitale del Regno: la città toscana diveniva pertanto l’epicentro delle celebrazioni dantesche, della «prima festa nazionale della nostra rigenerazione», tra innalzamento di nuove statue e aggiornamento della contesa per le Dantis ossa, ormai divenute le più preziose reliquie per la nuova la religione della patria, oggetto di un culto che, come si conviene in casi del genere, dal sacro virerà rapidamente verso il grottesco. In questa ricapitolazione sarebbe esiziale trascurare la Storia della letteratura italiana di Francesco de Sanctis, che fu, tra l’altro, manuale scolastico per generazioni di studenti italiani: nell’andamento dialettico del grande racconto desanctisiano, il magistero dantesco si ricongiungeva agli ardori risorgimentali, suggellando la sintesi dello spirito nazionale. Ben presto, dopo appena un giro di letture, ovviamente la declinazione del paradigma desanctisiano si farà subito corriva: la riscoperta di Dante, poteva scrivere Ulisse Micocci nel 1890, era «effetto della reazione giusta e naturale contro l’indifferenza del secolo XVIII e contro l’Arcadia e i metastasiani che tentarono esporre Dante alla derisione del mondo». Questo Dante redivivo della Nuova Italia, dunque, fiero e virile, riscattava la poesia nazionale dalle effeminate lepidezze barocche e dal fatuo bellettrismo arcadico e vendicava la perdita del primato nazionale nel campo letterario patita due secoli prima. Si andava già delineando il profilo del poeta simbolo della Nuova Italia, il mito dell’«Omero del Cristianesimo» proiettato sulla tradizione risorgimentale, che qualche anno dopo avrebbe fatto vagheggiare a Giovanni Pascoli addirittura un “Partito di Dante”, sodalizio di “uomini liberi” che radunasse le forze di un socialismo antimarxista nazionale (se non nazionalista).15
La consacrazione dell’icona dantesca nell’Italia liberale (icona laica e neoghibellina, occorre ribadire, solido baluardo contro il neoguelfismo, giacché i cattolici faticheranno ancora qualche anno prima di conquistarsi un “loro” Dante) venne alimentata ovviamente da fatti culturali o paraculturali. Gran parte degli esponenti della Scuola storica furono coinvolti in questo processo: Zingarelli, D’Ancona, Parodi, D’Ovidio, lo stesso Rajna (ma se ne smarcherà un grande filologo dantesco come Michele Barbi), sebbene questa egemonia dei filologi scatenasse le reazioni aggressive dei giovani Prezzolini e Papini (la contesa è indagata diffusamente nel saggio summenzionato di Jossa; può essere interessante aggiungere che Prezzolini, dopo la sbornia del Ventennio -dalla quale, pur da conservatore, si tenne lontano, a differenza del suo antico sodale Papini- tornasse sul tema con un titolo emblematicamente provocatorio: il quarto capitolo del suo L’Italia finisce, ecco quel che resta, del 1948, si intitola infatti «Dante – l’antitaliano»); nel 1888 veniva fondata la Società dantesca italiana (già ne erano sorte in Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti) e contestualmente, dopo una vasta mobilitazione intellettuale, si istituivano due cattedre dantesche, a Firenze e a Roma: Giosuè Carducci accettò di tenere la lezione inaugurale di quest’ultima nell’aula magna dell’Università di Roma, pur rifiutandosi di averla assegnata, rimanendo una delle poche voci lucide e critiche nel tripudio dei dantofili e dei dantomani (non molto tempo dopo sarà Benedetto Croce, anche nelle vesti di ministro, ancora sulla base di fondate istanze culturali oltre che politiche, a opporsi a questa monumentalizzazione e alle conseguenti misinterpretazioni). Non mancarono, inoltre, autorevoli sponde istituzionali, anche tra le più alte cariche dello stato. Il caso di Sidney Sonnino, dantista appassionato, bibliofilo e collezionista di testi (fino a possedere una delle più cospicue e preziose biblioteche dantesche al mondo), autore egli stesso di una Lectura Dantis già nel 1905, poco prima di diventare per la prima volta Presidente del Consiglio, è emblematico: strenuo sostenitore dell’istituzione della Casa di Dante, che venne costituita nel 1914 nella sede del palazzo degli Anguillara a Trastevere e lo ebbe tra i primi presidenti, donerà alla Fondazione la sua biblioteca e vi terrà una Lectio in occasione del sesto centenario del 1921. Anche la produzione culturale di massa non avrebbe esitato a fornire il proprio contributo alla causa e a cavalcare l’onda: si pensi soltanto all’Inferno, primo kolossal della cinematografia italiana (una produzione costata 100.000 lire), diretto da Francesco Bartolini, Giuseppe de Liguoro e Adolfo Padovan, la cui prima si tenne il 22 marzo 1911.
Non ci potrà sorprendere, a questo punto, l’arruolamento del Sommo, già nume dell’irredentismo triestino, tra i combattenti della Grande guerra. Bastino qui le citazioni di due ferventi interventisti, riportate da Conti; Emanuele Sella, economista dell’Università di Messina, scriveva: «la lotta fra gli interventisti e i neutralisti […] è una intima e inconsapevole battaglia fra i cultori di Dante e coloro che Dante hanno ignorato ed ignorano»; Francesco Ruffini, ministro della Pubblica istruzione, nel 1917, rilanciava: «Dante al di sopra di tutti i più sapienti nostri reggitori politici e di tutti i più valorosi nostri condottieri militari, l’autore primo e il duce supremo di questa grande e santa impresa. Dante va innanzi alle forti schiere d’Italia, vessillifero divino della nostra gente». E proprio la Casa di Dante, dunque, sarebbe diventata inevitabilmente una delle trincee del cosiddetto “fronte interno”.
III.
L’anniversario del 1921 costituisce una sorta di apoteosi e al contempo uno snodo cruciale di questo processo che abbiamo sommariamente definito di “nazionalizzazione”. Finalmente, Papa Benedetto XV, con la lettera enciclica del 30 aprile 1921, rivolta ai docenti e agli alunni di tutti gli istituti cattolici, invitava a leggere e a studiare Dante, «il cantore più eloquente del pensiero cristiano», restituendo un pezzo di Dante al mondo cattolico e al Partito Popolare. Sempre nel corso delle manifestazioni per il seicentenario avvenne una sorta di sinistro passaggio di testimone, dai nazionalisti liberali a quello che, a novembre, sarebbe diventato il Partito Nazionale Fascista: nel pieno delle celebrazioni dantesche, nel settembre di quell’anno, infatti, Ravenna venne invasa da circa tremila fascisti al comando di Italo Balbo e Dino Grandi (millecinquecento ferraresi con Balbo, altrettanti bolognesi con Grandi). La marcia su Ravenna, nel corso della quale fece la sua comparsa per la prima volta la camicia nera come divisa ufficiale degli squadristi, fu la prima grande manifestazione di massa del fascismo, costituendo la prova generale della marcia su Roma dell’anno dopo. Dopo avere assaltato e devastato la Camera del lavoro e le sedi dei partiti di sinistra, scontrandosi in strada con i socialisti e perfino con i cattolici, le squadre fasciste si raduneranno, insieme ai genitori dell’eroe di guerra Francesco Baracca, davanti al sacello di Alighieri: il fascismo, dopo essersi intestato l’eredità di Vittorio Veneto e dell’impresa fiumana, come è stato scritto, si consacrava alla propria missione di redenzione della nazione «presso all’urna dove dorme il Padre spirituale della nazione».
Naturalmente il regime, una volta instauratosi, ebbe gioco facile nel fare indossare anche a questa sorta di ieratico lare patrio la camicia nera e a suggellare la definitiva fascistizzazione del poeta di Beatrice. Restava, a quel punto, solo da certificarne la purezza razziale: a questo avrebbero tempestivamente pensato gli scienziati. Alla chiusura delle celebrazioni del 1921, infatti, si pensò bene di condurre una nuova ricognizione (dopo quella del 1865) delle spoglie mortali di Dante. A eseguirla furono chiamati due fra i maggiori antropologi dell’epoca: Giuseppe Sergi e Fabio Frassetto. I risultati vennero pubblicati in due articoli scientifici, nel 1921 e nel 1924: grazie alla recognitio exuviarum il Sommo poeta poteva essere proclamato, anche in nome della scienza, «il rappresentante più glorioso e più autentico della stirpe mediterranea», un «italiano di sangue e di stirpe». Un italiano vigorosamente “maschio”, oltretutto: come riportato da Conti, il professor Frasetto rimarcava puntigliosamente le caratteristiche virili che lo studio condotto sulle ossa del poeta rivelava: «la pelvi di Dante mostra spiccatissimi i caratteri sessuali maschili, tanto morfologici quanto metrici». Alcuni anni dopo, ovviamente, su questi presupposti, il poeta campione antesignano della stirpe italica sarebbe stato chiamato a legittimare la legislazione razziale del regime. Altrettanto prevedibilmente, l’idiozia fascista riconobbe in Mussolini (dantofilo anche lui, ça va sans dire) il Veltro profetizzato da Dante: il saggio di Domenico Venturini, Dante Alighieri e Benito Mussolini, del 1927, è probabilmente la testimonianza più significativa della sussunzione della figura e del pensiero di Dante, finanche del Dante politico, alla retorica del Ventennio. La canonizzazione delle opere dantesche nella scuola fascista, da Gentile a Bottai, divenne funzionale all’indottrinamento ideologico perseguito dal regime (ne dà conto Albertini nel suo saggio), e perfino l’interpretazione di una terzina profetica tra le più oscure della Commedia venne piegata alla propaganda:
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque (Purg., XXXIII, 41-43)
IV.
«La nazione italiana ebbe origine, come tutte le altre nazioni europee, verso la fine del Medio Evo; ma nacque in modo diverso. L’Italia non fu fatta da re o capitani; essa fu la creatura di un poeta: Dante. Gli stranieri che identificano l’Italia con Dante hanno in sostanza ragione. Il suo temperamento e la sua opera ebbero una influenza decisiva, aumentata col passare dei secoli, finché divenne essenziale nelle classi dirigenti del popolo italiano. Non è un’esagerazione dire che egli fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele»18 avrebbe scritto, nel 1937, Giuseppe Antonio Borgese dal suo esilio americano, riflettendo sul repertorio culturale di cui si è servito il fascismo, manipolandolo, per rimarcare le proprie prerogative di “italianità”. L’avvento della Repubblica, insieme agli altri italiani liberò, per così dire, anche Dante, il quale, sciolto finalmente dalle mansioni di vate della nazione, ha potuto circolare, verrebbe da dire gioiosamente, nelle illustrazioni, nel teatro d’avanguardia, nel fumetto, nella pubblicità, in televisione, nella musica leggera, nei graffiti fino a trasformarsi in una icona pop.19 Ma propiziò altresì quella feconda stagione di studi danteschi che ebbe tra i suoi protagonisti Contini, Petrocchi, Sapegno, dediti all’edizione dei testi danteschi quanto poco avvezzi a ricavarne santini nazionalisti. Tornando a tempi a noi più prossimi, proprio l’università, a dispetto delle campagne denigratorie promosse da alcuni organi di stampa con cadenza ben più frequente del «Dantedì», si può dire che si sia tenuta lontana dalla retorica inutile anche in occasione del settecentenario: le attività dell’Associazione degli italianisti e dei tanti atenei che hanno organizzato congressi e cicli di seminari, solo per fare un esempio, sono state tanto ricche quanto varie, tra ricerca e divulgazione, e a bassissimo tasso di enfasi nazionalistica. Lo stesso può dirsi per la scuola italiana, nella quale Dante e la Commedia si leggono e si studiano con assiduità e passione, a dispetto delle ricorrenze e degli anniversari.20 E con buona pace di chi, in un libro intitolato addirittura Stil novo, un po’ di anni fa, non trovava di meglio che scrivere:
* Una versione precedente di questo articolo, assai più breve, è comparsa con il titolo Letteratura e politica / Dante abusato, in «Doppiozero», 16 giugno 2021.
1 Cfr. S. Jossa, Un giorno di Dante che dirvi non so, in «Doppiozero», 22 gennaio 2020.
2 Un primo bilancio critico del «Dantedì» 2021 lo aveva già scritto Antonio Montefusco per «Jacobin»: cfr. A. Montefusco, Dante all’epoca della sua riproducibilità tecnologica, in «Jacobin Italia», 2 aprile 2021.
3 Cfr. A. Cazzullo, A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l’Italia, Mondadori, Milano 2020; M. Veneziani, <>Dante nostro padre. Il pensiero visionario che fondò l’Italia, Firenze, Vallecchi, 2020.
4 Sui contenuti dell’articolo e in generale su questa polemica cfr. L. Renzi, Due contro Dante. Cronaca di una polemica letteraria nella stampa e in rete, in «Le parole e le cose», 16 aprile 2021.
5 Cfr. F. Filippi, Prima gli italiani! (sì, ma quali?), Bari-Roma, Laterza, 2021.
6 Cfr. G. Ferroni, Viaggio nel paese della «Commedia», Milano, La nave di Teseo, 2020.
7 Cfr. F. Sanguineti, Le parolacce di Dante Alighieri, Trevignano Romano, Tempesta, 2021.
8 Cfr. F. Conti, Il sommo italiano. Dante e l’identità della nazione, Roma, Carocci, 2021.
9 Cfr. S. Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, in «The Italianist», 16, 1, 1996, pp. 117-142.
10 Cfr. S. Jossa, Dantisti, dantofili, dantologi, dantomani e dantofobi nel dibattito estetico (e politico) nell’Italia di Primo Novecento, in Dantesque. Sur les traces du modèl, dir. G. Sangirardi, J.M. Fritz, Paris, Classiques Garnier, 2019, pp. 249-266.
11 C. Cattaneo, Vita di Dante di Cesare Balbo, in Id., Scritti letterari, a cura di P. Treves, Firenze, Le Monnier, 1981, vol. 1, pp. 101-102.
12 C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana [1967], Torino, Einaudi, 1999, p. 265. Non è questa, naturalmente, la sede per dare conto della ricezione di Dante e della Commedia nel XIX secolo. Basti qui quantomeno rimandare a Culto e mito di Dante dal Risorgimento all’Unità. Atti del Convegno di Studi di Firenze, Società Dantesca Italiana, 23-24 novembre 2011, in «La rassegna delle letteratura italiana», 116, 2, luglio-dicembre 2012, e, in particolare, in quella sede, a E. Ghidetti, Mito e culto di Dante fra Settecento illuminista e Ottocento romantico-risorgimentale, pp. 379-408, e R. De Laurentiis, La ricezione di Dante tra Otto e Novecento: sondaggi tra bibliografia e diplomatica, pp. 443-494: da quest’ultimo saggio ho ricavato la citazione di Cattaneo.
13 Poesie di Giuseppina Turrisi Colonna, con Proemio e Discorsi di Francesco Guardione, Le Monnier, Firenze 1915, p. 154. Si potrebbe ricorrere a un altro siciliano, Federico de Roberto, per constatare come, nel volgere di una generazione, l’ispirazione potriottica suscitata da Dante, volgesse già in vuota retorica elettoralistica; le parole del comizio del principe Consalvo di Francalanza per la sua candidatura al nuovo Parlamento sono emblematiche: «La patria nostra è quest’Italia che il pensiero di Dante divinò, e che i nostri padri ci diedero a costo di sangue (vivissimi applausi)»; F. de Roberto, I Viceré, Garzanti, Milano, 1959, p. 643.
14 Su questo epocale cambio di paradigma nella cultura nazionale cfr. A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Milano, Rizzoli 2004.
15 Cfr. F. Lanza, Pascoli, Giovanni, in Enciclopedia dantesca, Roma, Treccani, 1970, s.v.
16 Questa esegesi è stata ripresa recentemente in una sezione del saggio di uno dei leader ideologici del movimento neofascista Casa Pound, A. Scianca, La nazione fatidica. Elogio politico e metafisico dell’Italia, Roma, Altaforte, 2018.
17 La simulazione è visibile sul canale Youtube dell’utente Alessio Nicolai.
18 G.A. Borgese, Goliath. The March of Fascism, New York, The Viking Press, 1937; trad. it. Golia. Marcia del fascismo, Mondadori, Milano, 1946, p. 23.
19 Ne scrivono A. Casadei e P, Gervasi, La voce di Dante. Performance dantesche tra teatro, tv e nuovi media, Bologna, Sossella, 2021; ancora Casadei nel lepido Dante. Storia avventurosa della divina commedia dalla selva oscura alla realtà aumentata, Milano, il Saggiatore, 2020 e R. Antonelli, Il Dante di tutti. Un’icona pop, Einaudi, Torino, 2022.
20 Cito, tra le tante iniziative, l’ormai venticinquennale Settimana di studi danteschi, che a Palermo coinvolge centinaia di studentesse e studenti di numerosi licei.
21 M. Renzi, Stil novo, Milano, Rizzoli, 2012, p. 35.