L’antifascismo di Luciano Bianciardi*
Velio Abati

Quando Maria Jatosti mi ha sollecitato a scrivere dell’antifascismo di Bianciardi, ho subito detto di sì, per l’affetto che nutro per lei. Lavorando poi a questo intervento, mi sono accorto che la domanda semplice, come spesso accade, nascondeva una complessità.

Che Bianciardi sia un intellettuale, uno scrittore di sinistra, dunque a fortiori antifascista, è un fatto noto, quindi la domanda di Maria richiedeva di essere a sua volta messa in questione: perché chiede di parlarne? Come sappiamo, non esiste un solo passato. Ogni ricerca nasce da una domanda e ogni domanda prende radice nel presente, anzi, dico meglio, nell’attesa di futuro di quel presente.

Mi sono così accorto che l’interrogativo sintetico – perché chiede di parlarne? – investe in realtà due campi differenti, facenti capo a due distinte domande: perché è necessario parlare dell’antifascismo per lo scrittore; perché è necessario parlare dell’antifascismo per il periodo che stiamo vivendo. Proverò dunque a rispondere separatamente.

I. L’antifascismo di Luciano Bianciardi

Se pensiamo all’immagine oggi prevalente di Bianciardi, ci viene incontro una figura spesso definita “anarchica”, intendendo con questo non una militanza politica e ideologica anticapitalista storicamente definita, bensì un generico atteggiamento scapigliato, estraneo a qualunque schema, ribelle, nel suo tempo anticomunista, sradicato, tra lo scanzonato e l’autodistruttivo, affabulatore.

Un’onesta opera di verifica parte dunque, stante la nostra domanda, dall’indagine sulla formazione “sentimentale”, per dirlo con Flaubert, dello scrittore. Dopo tanti anni che non frequentavo la pagina bianciardiana, mi sono messo ordinatamente a leggere gli scritti da tempo raccolti dalla figlia nell’Antimeridiano, rassicurato dalla loro completezza.

Lo scritto principe, che fa al caso nostro, è quello uscito su «Belfagor» di Luigi Russo alla fine di luglio del 1952. Questi, da direttore della Normale, nell’anno accademico 1945-46, in accordo con il ministro Emilio Lussu, aveva aperto un bando destinato a settanta combattenti e reduci. Bianciardi aveva potuto accedervi non avendo terminato il percorso universitario in quanto richiamato, nel gennaio del 1943, alla leva, corso ufficiali a Stia. Con il medesimo spirito democratico, Russo aveva aperto nella sua rivista una rubrica intitolata Nascita di uomini democratici, invitandovi anche Bianciardi.

L’ampia e pacata riflessione che ne risulta, espone con grande chiarezza la condizione familiare e personale, la trasformazione interiore dal liceo all’università, fino al ritorno a Grosseto, in cui si compie il proprio processo formativo democratico. Di famiglia piccolo borghese (madre maestra e padre impiegato di banca), così descrive la presa di distanza dal conformismo fascista respirato al liceo:

la ribellione non tardò, e fu, almeno da principio, di carattere morale; cronologicamente corrisponde al mio ingresso nel liceo [dopo il ginnasio], ed all’aggressione hitleriana.1

Segue la descrizione della seconda tappa:

a questa prima generica ribellione, che ho definito morale, ma che sarebbe più esatto chiamare psicologica, si aggiunse la scoperta della cultura, che al liceo mi fu facilitata da due insegnanti veramente valorosi.2

Così concludendo:

la mia reazione al fascismo, in questo senso condivisa da tre o quattro miei compagni di classe, era di tono genericamente liberale; la nostra avversione andava agli aspetti di tirannide e di intolleranza del fascismo, alla soppressione delle libertà democratiche, ma più esattamente forse alla compressione della libertà in senso assoluto.3

Per non lasciar dubbi sulla natura del suo antifascismo in questa fase, Bianciardi aggiunge questo dettaglio:

Conobbi Lio Lenzi, comunista, un nobile artigiano livornese che allora campava in una sua botteguccia di vetraio e fu poi il primo sindaco democratico della mia città […]. Mi fece un rapido quadro del suo antifascismo, così diverso dal mio che non riuscii ad intenderlo affatto. Io non capivo perché fascismo dovesse significare, prima di tutto, guerra, fame, disoccupazione, sfruttamento dell’operaio e del contadino. Posso anzi dire che non conoscevo il significato esatto di quelle parole, quasi appartenessero ad un gergo tecnico per me incomprensibile.4

La posizione non muta neppure nell’esperienza universitaria:

la stessa sensazione di lontananza la provai, e forse anche più accentuata […] quando entrai in contatto, all’università, con studenti e laureati comunisti […] perché la mia fu una scoperta tecnica, una deduzione che avevo svolto con l’aiuto e sotto il controllo di Guido Calogero, che mi fu maestro, fra l’altro, di liberalsocialismo.5

Il tutto, testimonia Bianciardi, «quanto a manifestazioni concrete, fu del resto ben poca cosa».6 Per questo la chiamata alle armi la accettò «molto ingenuamente», scrive ancora, «come una prova di disciplina e di equilibrio».7 La rottura, asserisce, avvenne nell’incontro con la guerra:

certe orribili giornate pugliesi dell’estate e dell’autunno di quell’anno mi rivelarono lo sfacelo […] eravamo stati colpiti nella fiducia in quei valori che ora si rivelavano, invece, vuote parole.8 “Cominciai – scrive ancora – a riflettere: mi chiesi se era giusto che a simile gente [gli ufficiali] fosse affidata la vita degli operai lombardi, dei contadini calabresi. Appunto un contadino calabrese analfabeta e primitivo, avevo conosciuto in quei giorni tragici.9

Tornato agli studi universitari

io mi ero iscritto – c’è bisogno di dirlo? – al Partito d’azione […] che fu un altro tentativo di governo (l’ultimo?) della piccola borghesia intellettuale.10

La frattura della guerra gli fa sentire ora l’astrattezza della propria condizione di normalista:

a tratti avevo la sensazione di non essere più un uomo, ma un gomitolo di problemi. Per questo decisi di tagliar corto; presi alla meglio la mia laurea, e due mesi più tardi mi sposai.11

E, conclude, «così ho scelto, ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra».12

Non meno interessante la considerazione finale:

non mi pare di aver detto grandi cose e non le potevo dire, perché so bene d’essere, senza modestia, un uomo mediocre, eguale, né migliore né peggiore di centomila altri come me.13

L’affermazione ha lo scopo evidente d’indicare nella propria esperienza il valore esemplificativo di un percorso generazionale, come in effetti è.

L’Antimeridiano offre tutta la produzione scritta, compresa quella adolescenziale, privata e rimasta inedita, ma la verifica sui testi precedenti, per recuperarvi le tracce del percorso così nitidamente indicato nel luglio del 1952, risulta deludente. Niente nelle pagine inedite: nessun tassello, nessuna ombra di queste riflessioni, di episodi (a parte certo il bombardamento) e di figure chiave testimoniate a posteriori, come, per esempio, il contadino calabrese. Anzi, nel diario di guerra si leggono con imbarazzo numerose pagine di considerazioni duramente antimeridionali. Ma nessun badilante o minatore compare anche nelle pubblicazioni precedenti l’uscita su «Belfagor». La questione pone due ordini di problemi: uno riguarda l’interpretazione dello scritto di Bianciardi e, più in generale, del suo ricorso alla scrittura; l’altro, più importante, attinente al metodo, mette in questione quanto il valore e il significato di uno scritto di qualunque autore siano debitori della relazione con l’extratesto. La prima questione, il rapporto di Bianciardi con la scrittura, esula dal nostro argomento. L’altra, la concorrenza dell’extratesto alla costruzione del senso del testo, campo del filologo e dello storico, il letterato non può – pena prendere fischi per fiaschi – giudicarlo aggiuntivo e quindi sostanzialmente estraneo al proprio lavoro d’interpretazione e di giudizio. Il nostro può essere preso come caso di scuola.

Se il lettore si ferma alla lettura della sequenza cronologica dei testi raccolti nell’Antimeridiano è spinto a mettere in dubbio l’autenticità delle parole su «Belfagor» o, tutt’al più, a giudicare quei badilanti e minatori essere piovuti nell’animo dell’autore come la voce di Dio sulla via di Damasco, che solo successivamente daranno frutti. Se invece allarghiamo lo sguardo fuori della pagina, vediamo tutto un fervore di attività da Bianciardi intraprese subito dal 1948: dalla biblioteca Chelliana al Circolo del cinema, dal confronto e dal lavoro con Carlo Cassola ai rapporti con la Camera del lavoro, fino alla Commissione cultura del Pci, all’interlocuzione con l’Amministrazione comunale a maggioranza Comunista e Socialista. Si apre cioè un panorama in cui lo scritto su «Belfagor» non è più un fungo e la maturazione democratica di Bianciardi un’astratta riflessione interiore, bensì frutto dell’intenso fervore pratico. Non è questo il luogo di ripercorrerne le testimonianze, già raccolte in due miei antichi lavori, uno uscito in una fase preparatoria della Fondazione Luciano Bianciardi,14 l’altro edito grazie al lavoro e alla cura della Fondazione medesima.15

Solo quando le condizioni materiali di quel complesso pratico che aveva sostenuto lo scrittore si sfaldarono, Bianciardi emigrò a Milano, dove, presto, prese atto del fallimento di quanto aveva sperato. Tuttavia quell’educazione sentimentale, per quanto lo spirito dissacratorio dell’uomo e l’amarezza della sconfitta possano averlo condotto all’ironia più iperbolica e beffarda del Lavoro culturale e di altri scritti, continua a rappresentare un tema centrale nella Vita agra e nell’Integrazione. Se poi guardiamo più in profondità, scorgiamo che il grumo di speranze, adesioni sentimentali, investimenti ideali ed umani condensato nell’esperienza giovanile grossetana va a costituire, nell’immaginario di Bianciardi, il mondo mitico ancora nutritivo da cui trarre l’energia corrosiva della sua produzione, accanto al mito garibaldino dissepolto nel frattempo dalla memoria infantile.

Personalmente rimango convinto che sottrarre alla produzione bianciardiana fuori Grosseto, indiscutibilmente più alta e matura, lo sguardo sulla formazione e sull’attività grossetana sia un modo per sminuirne il valore, depotenziarne la carica conoscitiva ed estetica. E penso, altresì, che gli ostacoli prima portati all’attività della Fondazione Luciano Bianciardi e poi la sua interruzione violenta, riconducendola all’ordine, siano uno dei risultati di tale depotenziamento.

II. Dell’antifascismo oggi

Che cosa, in un lettore di oggi, fa ostacolo a comprendere il legame profondo, non incidentale, tra le ironie funamboliche, di sapore quasi rabelesiano, sul proprio operato trascorso, presenti nel Lavoro culturale e la compostissima affermazione del capitolo finale del 1964: «eppure Kansas City è una città tremendamente seria, e ci torno ogni volta con un po’ di magone e parecchio rimorso».16 Non v’è dubbio che il primo aggancio con la pagina bianciardiana, che subito salta agli occhi del lettore odierno è la condizione di precarietà, di lavoratore autonomo di terza generazione, diremmo oggi, di partita iva. Io stesso ho avuto modo di scrivere di Luciano Bianciardi «fratello maggiore dei precari».17 Rimane però oscura la radice, che fa invece diverse le foglie e il frutto.

Non parliamo poi dello spirito antifascista. La progressiva astensione dal voto, che alle ultime elezioni ha raggiunto il quaranta per cento, la scena icastica dell’ebrea deportata, Liliana Segre, che cede le consegne di Presidente del Senato della Repubblica a Ignazio Benito La Russa, che porta a compimento un processo iniziato nel lontano 1994 da Berlusconi, sono segnali di quanto seria sia la condizione della democrazia, né il fenomeno è solo italiano, solo europeo. Qui cogliamo in una forma sufficientemente chiara, mi sembra, la distanza dall’età e dalla condizione in cui è avvenuta l’educazione antifascista di Bianciardi. Se per lui, anzi per gli uomini e le donne del suo tempo, democrazia voleva dire Costituzione della Repubblica italiana ed entrambe volevano dire antifascismo, oggi, nel senso comune diffuso, il legame antifascismo-democrazia si è dissolto, per questo la Carta costituzionale è, non da ora, sottoposta ad attacchi sempre più pressanti; né gli assetti dei paesi dominanti usciti dalla Seconda guerra mondiale contro il Nazifascismo e dalla Resistenza sono sottoposti a scossoni minori o a minori pericoli. Il ritorno della guerra tra i due ex blocchi in Europa ne è il frutto attualmente più grave.

Riportare dunque sotto la luce la natura e la composizione del complesso di idee, relazioni e pratiche sociali, organizzazioni politiche, sindacali e culturali, istituzioni, organi d’informazione, che ha costituito l’ambiente dove è maturato l’antifascismo di Bianciardi, aiuta a comprendere, per differenza, l’oggi. Si tratta di un lavoro di riflessione che non solo, come sempre, non può essere fatto una volta per tutte, ma, soprattutto, richiede un concorso collettivo, pratico e teorico, utile a ciascuno.

Per quanto mi concerne, rinviando alle argomentazioni e alle prove prodotte nei lavori sopra menzionati, riassumo qui qualche dato essenzialissimo. L’attività di Bianciardi, dal 1948 al 1954 si muove entro le coordinate ideali, pratiche e politiche di un gramsciano blocco sociale che ha nei minatori il settore di classe più combattivo e moderno, nel Partito comunista italiano la guida politica. Da questo, Bianciardi assumeva alcuni assi portanti di giudizio e di condotta. La provincia – intesa come luogo geografico, sociale, culturale e politico – in antitesi con il dirigismo fascista, è il luogo autentico delle classi subalterne. La subalternità palese dell’una è quella delle altre. L’energia emancipativa, anticonformista, il bisogno di progresso materiale e culturale delle classi subalterne sono motore e garanzia dell’antifascismo e della democrazia sostanziale, per questo anche la cultura deve cessare di essere elitaria e divenire popolare. L’emancipazione è la conquista del futuro, la rottura del conformismo dei vecchi equilibri, di qui la corrosione iconoclastica, sia contro le manie subalterne del filologismo in trentaduesimo dei cantori del locale o, come li battezza, dei «localisti», stupidamente affannati alla ricerca delle origini; sia contro l’elitarismo della cultura nella torre d’avorio: dagli archeologi ai filologi, fino ai letterati. Di qui, l’attenzione alle nuove forme della cultura di massa, dal cinema al calcio, «balletto moderno».18

Fu un’immersione profonda, intensa che trasformò Bianciardi. Questo è il senso della netta affermazione nello scritto su «Belfagor», che cade nel periodo culminante della sua attività, altrimenti poco giustificato: «così ho scelto, ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra». L’esperienza radicalizzò, sia detto di passaggio, lo stesso Carlo Cassola, più maturo di anni e politicamente più solido, a quel tempo sodale di Bianciardi:

io non credo al riformismo, al centrismo, alla denuncia dei singoli fatti, a una polemica contro i monopoli disgiunta da una polemica contro l’intera struttura della società italiana. Monopoli e tutto il resto simul stabunt aut simul cadente. La brillante polemica di Ernesto Rossi naufraga miserevolmente perché non sorretta da una visione politica conseguente. Il partito radicale sarà un nuovo fallimento. Io credo solo nella rivoluzione: o viene quella, o non cambia nulla.19

scrive in una lettera all’editore Vito Laterza, in una fase di stesura dei Minatori della Maremma.

Solo dopo che i minatori subirono la sconfitta sindacale e poi materiale, di cui lo scoppio della miniera del 4 maggio 1954 è sigillo tragico, Bianciardi sente il terreno franargli sotto i piedi e fugge a Milano. Qui l’esperienza del “boom” neocapitalistico gli rende chiaro il fallimento della speranza che lo sviluppo economico fosse anche crescita democratica ed emancipazione culturale. La presa d’atto delle illusioni, delle limitatezze, delle contraddizioni insite nell’esperienza grossetana lo portarono così a cambiare impegno culturale, esistenza personale.

Che insegnamento trarre, dunque, da questa esperienza umana, intellettuale, letteraria e politica? Attraverso quali percorsi un giovane, oggi, incontra la sua educazione sentimentale democratica, solidale, antifascista? Intendendo per fascismo non quello storico, ma quella postura autoritaria, intimamente repressiva di ogni azione e parola che tenti di mettere in discussione lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, ridotti a puro strumento; quel comando politico, quel dominio sociale e culturale che reprima ogni libertà di dire e cercare che una società non più capitalistica è possibile. Questo è il fascismo cui sempre il capitalismo ricorre, quando si sente in difficoltà, o, all’opposto, padrone incontrastato del campo.

Non si tratta certo di cercare condizioni non più esistenti o di tentare volontaristicamente di ricrearle. Ma c’è di sicuro un’indicazione d’indirizzo, che rimane valida. Bianciardi, giovane uomo comune, ebbe la generosità di capire che la speranza di un futuro meno diseguale, più solidale, più divertente e più bello andava cercata tra i subalterni, gli sfruttati, là dove lavorano, si organizzano, lottano, si scandalizzano, sognano, si divertono. Vide che lì trovava la propria “concretezza”, si trasformava. Sperimentò che quand’anche, come successe, le conquiste e le speranze vengano riassorbite e dirette dalla classe dominane, la sconfitta subita non è totale: ti lascia in mano armi potenti di critica, che porta altra energia per un futuro diverso, migliore.

Note

* Intervento al convegno Luciano Bianciardi. 1922-2022. Centenario dell’autore de «La Vita agra». Roma 14 dicembre 2022.

1 L. Bianciardi, Nascita di uomini democratici, in L’antimeridiano. Opere complete, a cura di L. Bianciardi, M. Coppola e A. Piccinini, vol. 2, Scritti giornalistici. 1952-1971, Milano, Isbn edizioni, ExCogita editore, 2005, p. 287.

2 Ivi, p. 288.

3 Ivi, p. 289.

4 Ivi, p. 290.

5 Ibidem.

6 Ivi, p. 291.

7 Ibidem.

8 Ibidem.

9 Ivi, p. 292.

10 Ivi, pp. 294-295.

11 Ivi, p. 294.

12 Ivi, p. 295.

13 Ibidem.

14 V. Abati, Bianciardi intellettuale a Grosseto, in Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione. Atti del convegno di studi per il ventennale della morte promosso dalla Camera del lavoro di Grosseto, Grosseto, 22-23 marzo 1991, a cura di V. Abati, N. Bianchi, A. Bruni, A. Turbant, Roma, Editori Riunti, 1992, pp. 109-129.

15 La nascita dei «Minatori della Maremma». Il carteggio Bianciardi-Cassola-Laterza e altri scritti, a cura di V. Abati, Fondazione Luciano Bianciardi, Quaderni 5, Firenze, Giunti, 1998.

16 L. Bianciardi, Il lavoro culturale, in Id., L’antimeridiano cit., vol. 1, Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, p. 276.

17 V. Abati, Il fratello maggiore dei precari, in «Il Manifesto», 9 novembre 2011.

18 Così, già nel titolo, un pezzo giornalistico: L. Bianciardi, Il balletto moderno, in «La Gazzetta», Livorno, 10 aprile 1952, ora in Id., L’antimeridiano cit., pp. 27-29.

19 C. Cassola, lettera del 5 gennaio 1956a V. Laterza, in La nascita dei «Minatori della Maremma» cit., p. 95.