Totalità, critica e mediazione
Andrea Cavazzini

Con il seguente contributo di Andrea Cavazzini, inauguriamo la serie di riflessioni dedicate a Critica e totalità. L’obiettivo è quello di allestire un luogo di confronto sugli esiti della tradizione dialettica nel mondo attuale – sulla sua dissoluzione o sulla sua persistenza – per tornare a pensare il nesso che stringe la critica della cultura a un’idea non riduttiva e specialistica di sapere. Nel ringraziare chi ha già inviato i propri contributi, che verranno pubblicati a cadenza settimanale, invitiamo i lettori a intervenire e dibattere.

La situazione attuale e le potenzialità del pensiero critico sono temi su cui dire una parola non sterile e non ridondante è molto difficile. Le “teorie critiche” son divenute una merce relativamente diffusa in un’industria culturale editoriale e universitaria che funziona sempre meno per canonizzazione dell’inedito che per riciclaggio martellante del sempre uguale. Così, la French Theory e l’operaismo, la Scuola di Francoforte e la psicanalisi lacaniana, Adorno e Deleuze, Benjamin e Foucault, coesistono nel brassage illimitato e ripetitivo delle mode intellettuali e dei monumenti culturali del passato.

Mi pare inutile oggi dichiararsi a favore o contro gli uni e gli altri, come se gravi decisioni politiche e storiche dipendessero dalla scelta della Dialettica contro la Differenza o viceversa. La salvezza non verrà dal recupero delle categorie del pensiero dialettico perché le vestigia di questo pensiero sono divenute irrilevanti, come tutte le altre, se considerate in se stesse. Per questo vorrei spostare un po’ l’angolo visuale da cui considerare questi elementi della storia intellettuale degli ultimi quarant’anni. Procederò in tre punti.

I.

Il concetto di totalità ha uno statuto apparentemente paradossale nella tradizione che comincia con Hegel e che il giovane Lukács trasmette al marxismo novecentesco. Innanzitutto, la totalità non è mai una realtà data, ma un orizzonte di totalizzazione, una possibilità, inerente ad una certa posizione della coscienza, di riconoscere una coerenza e un’universalità tendenziali nell’insieme dell’esperienza, e proprio là dove questa sembra implicare dei conflitti e delle contraddizioni. La totalità è quindi data come prospettiva di una più grande armonia tra gli aspetti diversi e dissonanti della vita, di una comunicazione più intensa tra gli uomini presenti, passati e venturi e tra i momenti conflittuali interni ad ogni individuo. Ma essa ha un lato profondamente problematico, poiché la coscienza di cui è il correlato non può costituirsi al di fuori di una congiuntura storica che resta irriducibilmente contingente: senza Valmy e Jena, niente Fenomenologia dello Spirito, senza la costituzione dei Soviet e della Terza Internazionale, niente Storia e coscienza di classe.

La totalità è quindi soggettiva, e siccome la soggettività totalizzatrice emerge come tale costruendosi intorno ad un punto di vista storicamente privilegiato, il fatto che tale totalità sia più o meno costruibile entro operazioni discorsive e concettuali concrete dipenderà dalla contingenza imprevedibile della storia. Salvo credere che lo Spirito, l’Uomo, il Proletariato o le Forze produttive guideranno necessariamente il processo storico a dar vita a tale punto di vista. Ma questo è appunto un aspetto della tradizione dialettica, cioè l’ineluttabilità dello sviluppo storico che rende possibile la totalizzazione, di cui il lutto dovrebbe esser stato consumato da tempo (lo si ritrova invece in autori il cui avvicinamento è inconsueto, quali Domenico Losurdo e Antonio Negri).

Due conseguenze di questa nozione di totalità. In primo luogo, il capitalismo in quanto tale non può costituire una totalità, per il semplice fatto che esso non costituisce un punto di vista coerente sull’esistenza umana, ma un dispositivo anonimo di sottomissione al calcolo del profitto, riassunto nella formula D M D’. Come Lukács aveva ben visto nel 1923, il Capitale può dar luogo ad un rapporto onnipresente e pervasivo, che determina la struttura di ogni tipo di interazione sociale, ma non ad una presunzione di universalità e coerenza dell’esperienza.

In secondo luogo, dei gruppi sociali concreti possono, in certe costellazioni storiche, esprimere una coscienza della totalità; ma, in società conflittuali e segnate dalla divisione sociale e tecnica del lavoro, una tale coscienza sarà sempre parziale, presuntiva e provvisoria, esposta all’alea delle congiunture politiche e dei cicli della trasformazione sociale. La Riforma protestante, la noblesse de robe giansenista, la fase giacobina della Rivoluzione francese, la cultura classica tedesca, il movimento operaio socialista e comunista, le sequenze mondiali delle lotte politiche e sociali tra il 1945 e il 1980, sono stati dei luoghi in cui delle figure parziali della totalità si sono manifestate, in cui una consistenza possibile dell’esperienza collettiva e individuale è apparsa, benché sempre per speculum et in aenigmate.

Ma questo significa anche la possibilità di un conflitto tra diverse figure storiche della coscienza totalizzatrice (ad esempio tra il Partito e la Classe, o tra il Partito e le Masse, come nell’esperienza cinese, o ancora, lungo tutta la storia moderna e oltre, tra il Politico e l’Intellettuale); e la necessaria limitatezza, spaziale e temporale, della capacità di ciascuna figura di esprimere la totalità in modo adeguato.

È forse a partire da questa parzialità e contingenza delle figure dialettiche che si deve interrogare la loro obsolescenza apparente.

II.

Il passaggio dall’egemonia delle categorie dialettiche a quella dei discorsi dell’immanenza, della differenza e della discontinuità – si potrebbe dire: da Lukács e Adorno alla posterità filosofica dello strutturalismo – è un fenomeno che ha riguardato non solo il campo delle “teorie critiche”, e quindi quello della produzione intellettuale universitaria ed editoriale, ma anche e principalmente la coscienza spontanea di diverse generazioni militanti o engagées.

Tale passaggio riguarda ovviamente una realtà circoscritta: l’area intellettuale e morale dell’estrema sinistra, e in questa particolarmente i settori appartenenti all’intellettualità di massa (credo sia in gran parte il caso degli autori e dei lettori di questa pubblicazione). Ciò non sminuisce l’importanza del fenomeno, dato il ruolo giocato da questi gruppi sociali nella storia del Novecento, e nella crisi degli anni Settanta e Ottanta di cui indirettamente parliamo trattando dell’obsolescenza dei concetti dialettici.

Di cosa è sintomo dunque il passaggio in questione? Penso non si debba cedere alla tentazione di attribuire ai paradigmi intellettuali un ruolo esorbitante nei processi storici e di vedere nei limiti attuali di qualsiasi opposizione ai rapporti capitalistici il frutto dell’abbandono della dialettica da parte di militanti e teorici critici; né interessa, ritengo, scrivere requisitorie sterili contro il niccianesimo o l’heideggerismo di sinistra. Vorrei suggerire di leggere l’eclissi delle figure concettuali legate alla totalità e alla mediazione come l’espressione e l’interpretazione della crisi dell’ultimo tentativo su scala mondiale di superare la società capitalista.

Se si lasciano da parte gli episodi italiani più effimeri e direttamente apologetici, quali il pensiero debole e il pensiero negativo degli anni Settanta e Ottanta, possiamo dire che la critica della totalità e della mediazione si radicano nelle aree intellettuali e politiche di cui sopra essenzialmente attraverso il pensiero francese degli anni Sessanta e Settanta: lo strutturalismo e le sue conseguenze, che diventano direttamente politiche con i lavori di Althusser, Foucault, Derrida e Deleuze-Guattari. Credo non si debbano misconoscere due dati fondamentali rispetto a questi autori e correnti: innanzitutto, il loro legame con il comunismo minoritario degli anni Trenta e con l’opposizione di sinistra del dopoguerra, fino alla guerra d’Algeria (in tal senso, Georges Bataille e Maurice Blanchot sono due mediatori essenziali); inoltre, la legittimità e la necessità di trovare dei paradigmi intellettuali differenti dal discorso puramente ideologico del comunismo francese “ufficiale”, e quindi di dotarsi di strumenti capaci di analizzare degli oggetti delimitati e intelligibili, contro la riduzione della dialettica marxista ad affabulazioni sul materialismo e le forze produttive. Legami ed esigenze che si ritrovano nella Nuova Sinistra italiana degli anni Sessanta, ad esempio in Montaldi e nei «Quaderni Rossi», e che contengono, dai due lati delle Alpi, una tendenza a considerare l’insistenza sulla mediazione e la totalità alla stregua di una retorica conciliatrice: si trovano accenti simili nel dellavolpismo di Panzieri e di Tronti.

Il sospetto nei confronti delle figure dialettiche viene, in origine, da orientamenti politici e intellettuali che rifiutano di dissolvere l’analisi delle situazioni e l’affermazione del conflitto nelle grandi generalità del processo storico o dell’Uomo creatore della Storia e nell’amministrazione sapiente ad opera del Partito e dello Stato Guida delle decisioni tattiche e strategiche. Credo non si possa trattare seriamente della dissoluzione della dialettica nel pensiero critico senza tener conto dell’incorporazione del vocabolario dialettico alla colossale opera di rimozione e di legittimazione del proprio potere cui si riduceva il marxismo nei discorsi del comunismo sovietico e dei partiti occidentali. La critica di questi discorsi in nome della determinatezza della conoscenza e dell’irriducibilità del conflitto motiva la decostruzione della dialettica, in favore dell’opposizione reale o della surdeterminazione, che si ritrova, ad esempio, in Pour Marx di Louis Althusser (1965) e in Operai e capitale di Mario Tronti (1966).

Tuttavia, l’affermarsi in vasti strati del senso comune della sinistra radicale di un discorso dell’immediatezza, della rottura e della differenza irrelata dipende da altre costellazioni. Si possono indicare alcune tappe.

A partire dalla fine degli anni Cinquanta, il discorso e la pratica delle Nuove Sinistre in Europa e nel mondo esprime una critica della vita quotidiana che insiste sulla trasformazione diretta di situazioni di sfruttamento ed oppressione. Le lotte operaie e studentesche nel capitalismo avanzato, il rifiuto della manipolazione dei consumi, il movimento delle donne, l’antipsichiatria: questi ed altri nodi conflittuali tendono a criticare la politica delle organizzazioni politiche e sindacali come momento di totalizzazione, e rifiutano la mediazione temporale e spaziale tra tattica e strategia, fini e mezzi, locale e globale. In questa fase la tendenza dominante è la riaffermazione della funzione totalizzatrice, semplicemente spostata dalle istanze del Partito all’intelligenza collettiva dei produttori, al punto di vista della Classe caro all’operaismo, alle masse dei maoisti o ancora alla coscienza d’opposizione del marcusiano “gran rifiuto”. Per tutti gli anni Sessanta, resta dominante la volontà di una riforma pratica e teorica delle categorie dialettiche del pensiero critico.

L’esplosione definitiva di tali categorie si consuma negli anni Settanta, quando l’impazienza e l’intensità etiche e intellettuali di alcune generazioni di militanti si scontra con la crisi delle Nuove Sinistre, con il parossismo di violenza di quella che Fortini definiva la guerra civile mondiale intorno al comunismo, e infine con la restaurazione neocapitalista. La generalizzazione di paradigmi fondati sulle rotture, l’irruzione dell’impensabile, l’affermazione della singolarità “selvaggia” esprimono la posizione soggettiva di un mondo militante preso nella trappola di conflitti onnipresenti e radicali da cui non emerge alcuna prospettiva capace di orientarli: è a questo punto che la contraddizione diventa differenza, la scissione semplice rottura e la critica delle totalizzazioni alienanti si rovescia nel culto dell’immanenza.

Infine, a partire dagli anni Ottanta, la cultura filosofica e letteraria francese degli anni Sessanta e Settanta diventa la grammatica spontanea di strati di intellettuali massa, privi di prospettive politiche, che tentano di sopravvivere alla glaciazione del capitalismo postmoderno traducendo schegge di un’antica radicalità nelle opzioni e nei gusti intellettuali: la differenza e l’immanenza diventano le parole d’ordine che accompagnano la traversata del deserto di numerosi “fratelli amorevoli”, trovandovi alcuni di che nutrire lavori e comportamenti rigorosi e fecondi, altri un supplemento d’anima dell’adattamento e del conformismo.

Se questa ricostruzione è plausibile, se ne conclude che la dissoluzione della dialettica e la sua sostituzione non sono riducibili ad un succedersi di egemonie teoriche ed ideologiche, ma esprimono una crisi in seno ad una soggettività potenzialmente totalizzatrice. I diversi discorsi della differenza o dell’immanenza, e le tappe del loro affermarsi egemonico, costituiscono delle figure di una coscienza della totalità confrontata all’impossibilità crescente di totalizzare l’orizzonte dell’esperienza e il sistema delle contraddizioni. In altri termini, tali discorsi hanno espresso, in forme diverse e a partire da composizioni complesse di paradigmi culturali, mutamenti socioeconomici e sequenze politiche, la decadenza e la dissoluzione del movimento comunista.

III.

Le esperienze più autentiche dell’antidialettica rappresentano un momento essenziale della critica, in quanto rifiuto delle false totalità delle mediazioni alienanti e delle riconciliazioni affrettate. Esse ricordano che la totalità non è un dato, e che, in una società divisa, essa non può che venir colta da prospettiva parziali e deformanti. Possono anche ricordarci che, in una fase ove le prospettive di realizzazione storica sono eclissate, la totalità si dà nella coscienza tragica di un’assenza. La congiuntura attuale vede le deformazioni della totalità, cioè le appropriazioni immaginarie dell’umanità generica che sostengono la riproduzione del capitale, passare dall’esplosione delle differenze nel campo dell’estetica generalizzata e del consumo culturale alla chiusura di identità armate solidali della ricostituzione di gerarchie naturali e di conflitti mondiali sempre meno “freddi”. Ritengo perciò difficile proporre una riattivazione delle categorie dialettiche diversa da un’elaborazione indiretta, “saggistica”, che faccia i conti con le lacune dell’esistenza attuale.

Ma si può forse indicare un altro compito per la coscienza critica, che non riguarda solo o principalmente nuovi o vecchi autori di riferimento, né saperi filosofici o specialistici. Negli anni Ottanta, Fortini insisteva su una parziale via d’uscita dalla passività generale da trovarsi, come riassume Ennio Abate, in «saperi storici sedimentati nella società e distinti da quello degli specialisti», dei saperi «fondati su esperienze, persuasioni profonde e scelte morali».1 Credo strategica oggi la ricerca di queste figure, laddove esse si manifestino, capaci di incarnare il non identico e di anticipare l’agnizione di una totalità assente.