In un’intervista scritta di Goffredo Fofi a Elena Ferrante, risalente al 1995 ma apparsa solo nella prima edizione di La frantumaglia nel 2003, l’autrice sostiene di aver avuto un’intuizione durante la lettura di L’isola di Arturo di Elsa Morante:
mentre leggevo, lungo tutto l’arco del racconto pensai che il vero sesso di Arturo fosse quello femminile. Arturo era una ragazzina, non poteva essere che così. E per quanto la Morante scrivesse di un io maschile, non potevo fare a meno di immaginarmi lei, un mascheramento di sé, dei suoi sentimenti, delle sue emozioni.
1
Se compariamo questo passaggio con quanto sostenuto da Pier Paolo Pasolini in
Intervento sul discorso libero indiretto,
2 emerge una curiosa somiglianza:
oratio obliqua è allora anche «L’isola di Arturo» della Morante, dove l’
egli non è che un
io, che diventa un egli per rivivere oggettivamente i suoi pensieri, perché meglio, nell’aspirazione oggettivamente realizzata a essere ragazzo, la Morante si esprime chiamando
egli se stessa. (
Int, p. 93)
3
Un’altra affermazione della nostra autrice che potrebbe alludere direttamente a Pasolini (figura che per altro compare fugacemente all’interno della tetralogia),
4 è quella in cui quest’ultimo paragona l’indiretto libero a una «pesca nel profondo e nel basso» (
Int, p. 88), che in Ferrante ritorna come: «ci sono […] certi fondali bassi del raccontare che mi attraggono» (
Frant, p. 59), riferendosi non tanto a quel «pozzo delle donne» di cui hanno parlato Natalia Ginzburg
5 e Alba de Cespedes,
6 quanto all’attrazione verso forme di scrittura commerciali come i fotoromanzi (
Frant, p. 217). Per altri versi, già Roberta Colonna Dahlman ha analizzato
I giorni dell’abbandono7 facendo luce sul procedimento stilistico del discorso indiretto libero,
8 mentre Tiziana de Rogatis ne ha rilevato l’uso all’interno della tetralogia a proposito del particolare impiego del dialetto, definibile come «una traduzione all’impronta dal napoletano, quasi dalla sua stessa intonazione vocale, talvolta con un incrocio molto interessante tra indiretto libero e discorso diretto»,
9 ad esempio nella descrizione degli «scoppi di rabbia»
10 dei personaggi.
11 A queste tracce accostiamo di seguito una breve ricostruzione delle considerazioni di Pasolini, con l’obiettivo di dotarci degli strumenti adatti per analizzare l’uso del discorso indiretto libero in quelle porzioni di testo in cui Ferrante racconta alcuni processi di «smarginatura» delle due protagoniste, Elena e Lila. Ciò ci permetterà di mostrare come l’autrice usi la soggettiva libera indiretta di pasoliniana memoria, e al contempo crei un’istanza narrativa alternativa al «narratore carnefice» e al «narratore testimone», rispettivamente riconducibili a Walter Siti e a Roberto Saviano, dando vita alla «narratrice traduttrice», e inserendosi così sperimentalmente nel panorama del
Global Novel.
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I. Il «discorso indiretto libero» secondo Pier Paolo Pasolini
Nel 1965 Pasolini analizzava il discorso indiretto libero con l’intento di far luce su alcuni aspetti sociologici costitutivi di tale procedimento e contemporaneamente su alcuni aspetti ideologici presenti nei discorsi critici ad esso connessi. Secondo Pasolini:
Ogni volta che si ha il Libero Indiretto, questo implica una coscienza sociologica, chiara o no, nell’autore. Che mi sembra, del Libero Indiretto, la caratteristica fondamentale e costante. […] La scelta linguistica è il primo sintomo di una coscienza sociale. (Int, pp. 84 e 86)
Tuttavia, ciò che muta rispetto alla commistione di alto e basso nel discorso libero indiretto (espresso dalla dialettica tra Dante-autore e Dante-personaggio),
13 è che negli anni Sessanta:
Non c’è sincronia tra la «lingua italiana» e la «lingua letteraria italiana» dopo l’unità; solo dopo la Resistenza si assiste a un tentativo imponente di riunificazione delle due lingue. […] La contaminazione non avveniva tra lingua bassa e lingua media, ma tra lingua bassa e lingua alta. […] C’è insomma un tipo di discorso libero indiretto particolare degli ultimi decenni della letteratura italiana: in cui la condizione stilistica non è creata attraverso pretesti funzionali (partecipazione psicologica o sociologica al mondo interiore del personaggio), ma dal gusto dello stile. È tale primato dello stile, che, rivivendo il passato altrui, fa si che il materiale in tal modo recuperato, assuma una funzione espressiva. E serva a far esplodere con maggiore violenza la lingua media verso l’alto. (Int, pp. 87-88)
La stilistica del discorso indiretto libero non opera solo per immergersi in una realtà lontana dal punto di vista dell’autore, ma possiede anche una funzione ironica:
Ironia in senso specifico, corrente: ossia la «mimesis caricaturale» che consiste nel «rifare il verso» al parlante. […] Bisogna insomma includere nei sentimenti che creano le condizioni stilistiche dell’oratio obliqua, anche un sentimento di antipatia. (Int, pp. 88-89)
A Pasolini premeva criticare il punto di vista di Giulio Herczeg,
14 il quale considerava il discorso indiretto libero in modo troppo lineare per l’autore, ovvero come una tecnica di riproduzione dei pensieri dei personaggi:
A questo punto della lettura del libro dello Herczeg, cioè alla definizione, a proposito del Manzoni, che il Libero Indiretto può semplicemente riprodurre i pensieri del personaggio, e non le sue parole, ossia le parole con cui esprime i suoi pensieri – devo polemicamente osservare che lo Herczeg e gli studiosi di stilistica che egli cita, fatta in parte eccezione per lo Spitzer, accettano implicitamente per il Libero Indiretto una fenomenologia ontologica, cioè l’immedesimazione o osmosi o comunque rapporto di simpatia tra l’autore e il personaggio, come se le loro esperienze vitali fossero le stesse. (Int, p. 89)
Alternativamente, anche sulla scorta delle considerazioni di Leo Spitzer, secondo cui il discorso indiretto libero proviene da un parlato a cui concorre necessariamente un coro di personaggi (e che l’autore tenta sì di penetrare, ma senza riuscire a sovrapporsi totalmente),
15 Pasolini mostra il carattere finzionale e ideologico operato attraverso la mimesi del discorso indiretto libero, che vorrebbe far coincidere autore e personaggio:
Ma a me sembra impossibile affermare che «rivivere» i pensieri o «rivivere il particolare discorso che esprime quei pensieri» sia lo stesso fenomeno. Un autore può rivivere i pensieri e non le parole che li esprimono, solo in un personaggio che abbia almeno la sua educazione, la sua età, la sua esperienza storica e culturale: in altre parole, che appartenga al suo mondo. (Int, p. 89)
Pasolini smaschera così il carattere unificante sotteso a un uso mistificante del discorso libero indiretto, sorretto da un’ideologia che ritiene vero e possibile solo il proprio punto di vista e dunque il proprio modo di unificare la realtà attraverso il racconto:
Allora accade un fatto terribile: che quel personaggio è unito all’autore dal fatto sostanziale di appartenere alla sua ideologia. La cosa più odiosa e intollerabile, anche nel più innocente dei borghesi, è quella di non saper riconoscere altre esperienze vitali che la propria: e di ricondurre tutte le altre esperienze vitali a una sostanziale analogia con la propria. (Int, pp. 89-90)
Un’analisi confermata dall’uso che, di questa pratica linguistica, ne hanno fatto autori quali, tra gli altri, Alberto Moravia (
Int, pp. 92-93).
Diversamente, quando un autore ha l’obiettivo di rivivere i pensieri di un personaggio ponendosi il problema di quale sia la lingua usata da quel personaggio, diviene esplicita la costituzione molteplice della realtà, espressa necessariamente anche dalla molteplicità della lingua:
Nel caso che un autore sia costretto, per rivivere i pensieri del suo personaggio, a rivivere le sue parole, vuol dire che le parole dell’autore e quelle del personaggio non sono le stesse: il personaggio vive dunque in un altro mondo linguistico, ossia psicologico, ossia culturale, ossia storico. Egli appartiene a un’altra classe sociale. E l’autore dunque conosce il mondo di quella classe sociale solo attraverso il personaggio e la sua lingua. (Int, pp. 92-93)
Secondo Pasolini si danno dunque tre possibilità per rendere il discorso di un personaggio. La prima è il monologo interiore, ravvisabile nel caso in cui l’autore intenda rivivere per iscritto i pensieri puri e semplici del suo protagonista. Se invece l’autore mette sulla pagina i pensieri e le parole del proprio personaggio, i casi sono due: o usa il discorso libero indiretto «classico» e mistificante (proprio dell’autore borghese, che usa tale tecnica per ridurre la molteplicità del reale alla propria, superiore, idea unificante di realtà),
16 oppure la «soggettiva» del Libero Indiretto,
17 che in qualche modo distanzia il punto di vista dell’autore da quello del personaggio.
II. Raccontare la «smarginatura» attraverso la «soggettiva libera indiretta»
La qualità distanziante della «soggettiva libera indiretta» è ciò che ritroviamo anche nella scrittura di Elena Ferrante. Per esempio, il racconto della «smarginatura» di Lila è il racconto di un’esperienza che, seppur menzionata fin dal primo volume di L’amica geniale, avviene dal di dentro del vissuto del personaggio solo nel quarto volume Storia della bambina perduta, ovvero nel momento in cui la narratrice, tramite il discorso indiretto libero, si insinua nel suo punto di vista:
Parlò a lungo. È stata la prima e ultima volta in cui ha cercato di chiarirmi il sentimento del mondo dentro cui si muoveva. Finora,
disse – e qui riassumo a parole mie di adesso –, ho creduto che si trattasse di momenti brutti che venivano e passavano come una malattia di crescenza. Ti ricordi quando ti ho raccontato che s’era spaccata la pentola di rame? E del capodanno del 1958, quando i Solara ci spararono addosso, ti ricordi? Gli spari
furono la cosa che mi
fece meno paura. Mi
spaventò invece che i colori dei fuochi d’artificio fossero taglienti – il verde e il viola soprattutto erano affilati –, che ci
potessero squartare, che le scie dei razzi suscitassero su mio fratello Rino come lime, come raspe, e gli spaccassero la carne, che facessero sgocciolare fuori da lui un altro mio fratello disgustoso.
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Come sostiene Pasolini vediamo qui all’opera un libero indiretto caratterizzato dalla presenza dei verbi al passato remoto, tecnica che segnala la rinuncia da parte di Elena Greco a gestire la narrazione, per immergersi nel personaggio «narrando
tutto attraverso lui» (
Int, p. 83). Lo spostamento del punto di vista prosegue fino alla conclusione del blocco narrativo,
19 a significare che la «smarginatura» di Lila è talmente potente da essere capace di appropriarsi della voce narrante. D’altro canto, tale abdicazione della voce narrante di Elena Greco in favore di Lila segnala non il tentativo di «rendere realisticamente oggettiva la narrazione di un mondo oggettivante (leggi: classisticamente) diverso da quello dell’autore» (
Int, p. 83), bensì la scelta di «rendere fittiziamente oggettivo – assumendo a narrante un personaggio che non è l’autore stesso – ciò che egli vuol dire» (
ibidem). Infatti, la narratrice Elena Greco ha avuto più volte modo, precedentemente, di raccontare il momento della «smarginatura» di Lila,
20 ma senza mai ricorrere al discorso indiretto libero.
Un’ulteriore conferma di questo procedimento straniante è rintracciabile nel racconto della «smarginatura» vissuta dal personaggio di Elena, che diversamente da Lila si configura come momento di creatività condivisa, laddove la voce di Lila è resa dall’uso dell’indiretto libero classico:
Era stizzosa […] eppure, contraddittoriamente, da tempo non la sentivo così fiera di me e della nostra amicizia.
Li dobbiamo distruggere Lenù, se questo non basta li ammazzo. Le nostre teste urtarono – a pensarci, per l’ultima volta – l’una contro l’altra, a lungo, e si fusero fino a diventare una sola.
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Nei testi di autocommento Ferrante altresì sostiene: «Amalia, sì, a pensarci, ha molti tratti di Lila, anche la sua smarginatura» (
Frant, p. 266), dove ciò che definisce questi personaggi è l’essere filtrati dal racconto della narratrice,
22 testimoniando come tale tecnica fosse perseguita dalla nostra autrice fin dal suo primo romanzo,
L’amore molesto,
23 edito nel 1992. Il racconto del pensiero vissuto di Lila può avvenire solo a patto di creare un racconto corale,
24 unico capace di abbozzare una realtà «pseudo-obbiettiva».
25 In questo modo Ferrante rende conto narrativamente del mondo linguistico in cui è collocato il personaggio, mirando non tanto a restituire il pensiero rivissuto di quel personaggio, quanto piuttosto il
racconto di quel pensiero rivissuto. Esso è caratterizzato da un lato dalla coralità:
Nello sforzo di raccontare Lila, la sua amica si vede costretta a raccontare tutti gli altri e se stessa tra loro, incontri e scontri che lasciano le tracce più diverse. Gli altri nell’accezione più ampia, come dicevo, ci urtano di continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singolarità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano senza sosta. Quando alla fine di una giornata esclamiamo: mi sento a pezzi, non c’è niente di più letteralmente vero. A guardar bene, siamo le spinte destabilizzanti che subiamo o che diamo, e la storia di quelle spinte è la nostra vera storia. (Frant, p. 358)
E dall’altro, dal punto di vista di un’autrice/narratrice impegnata in uno sforzo traduttivo che si articola nella collazione di frammenti linguistici, e capace di far tesoro anche degli stereotipi, ovvero degli ordini narrativi che maggiormente si avvicinano al senso comune:
Raccontarla significa raccontare compenetrazioni, un subbuglio, anche tecnicamente, una commistione incongrua di registri espressivi, di codici e di generi. Siamo frammenti eterogenei che, grazie a effetti di compattezza – le figure eleganti, la bella forma – stanno insieme malgrado la loro casualità e contraddittorietà. La colla più a buon mercato è lo stereotipo. Gli stereotipi ci acquietano. Ma il problema è, come dice Lila, che anche solo per pochi secondi si smarginano sospingendoci nel panico. Nell’Amica geniale, almeno nelle intenzioni, c’è un dosaggio meticoloso tra stereotipia e smarginatura. (Frant, p. 358)
Questo movimento tra «frantumaglia» trans-corporea
26 e «smarginatura» narrativa avviene tramite l’uso della «soggettiva libera indiretta», elemento che diventa ancor più interessante nel momento in cui vediamo sorgere un inedito rapporto tra autrice (Elena Ferrante), narratrice (Elena Greco) e personaggio (Raffaella Cerullo), dando luogo ad un nuovo patto narrativo, la «fantasia di
autofiction».
27 Infatti, il discorso indiretto libero proposto da Ferrante, con questa sua allusiva oscillazione tra napoletano e italiano, tra scrittura ordinatamente lineare e «scrittura di esperienza»,
28 esplicita la consapevolezza di non trovarsi, come autrice, collocata al posto di Lila, o di Enzo, o di tutti quei personaggi che fanno parte del sottoproletariato napoletano, poiché:
il «discorso libero indiretto» non può che essere scritto in una lingua sostanzialmente diversa da quella dello scrittore; non prescindendo da un certo naturalismo, o almeno da una certa conoscenza scientifica dell’altra lingua; […] nasce dalla contaminazione, nell’urto tra due anime, talvolta profondamente diverse. (Int, pp. 91-92)
Piuttosto il punto di vista di Ferrante è schiacciato su quello della narratrice Elena Greco, unico personaggio che si addestra alla forma di vita borghese, e di conseguenza alle sue tecniche linguistiche e narrative. Inoltre bisogna segnalare che nel passaggio sopra menzionato vi è un particolare impiego del verbo «urtare» da parte di Pasolini che ritroviamo in Ferrante per significare i momenti in cui le figure di Elena e di Lila si compenetrano vicendevolmente senza divenire la stessa persona,
29 piuttosto sottolineando la distanza tra Elena Greco (in quanto esplicito riflesso dell’autrice Ferrante) e il personaggio di Lila.
30
D’altronde Ferrante sembra seguire la lezione di Pasolini anche quando quest’ultimo, fedele al suo stile provocatorio, mostra come gli intellettuali delle avanguardie degli anni Sessanta fossero destinati a produrre un’arte conservatrice poiché, nonostante utilizzassero la lingua standardizzata della contemporaneità non condividevano le esperienze quotidiane delle «masse innocenti» (Int, p. 95), da cui proviene l’uso di quella lingua (Int, p. 97). Di conseguenza emerge il problema della molteplicità della realtà, che secondo Pasolini si esprime a livello linguistico come la presenza di una lingua «inedita» che sta nel tra, nel mezzo, della trasformazione di una lingua A in una lingua B:
Il vero problema non è più una lingua A (che, al limite, è decaduta) e non è neanche una lingua B (prospettata insinceramente a risolvere un «momento zero» convenzionale e fittizio). Il vero problema è una lingua X, che non è altro che la lingua A nell’atto di diventare realmente una lingua B. È cioè la nostra stessa lingua in evoluzione, attraverso fasi drammatiche e difficilmente analizzabili. (Int, p. 101)
Come nota Girolamo de Michele, questa originale impostazione della molteplicità linguistica viene ripresa da Gilles Deleuze e Félix Guattari
31 per mostrare come il linguaggio agisca produttivamente sulla vita:
il linguaggio non va da un percepito a un detto, ma da un dire a un dire. Le enunciazioni linguistiche non hanno natura individuale, ma sono dei concatenamenti collettivi d’enunciazione che rivelano il carattere sociale dell’enunciazione. Ciò che passa attraverso il linguaggio non è tanto la comunicazione di (un segno come) un’informazione, quanto l’assegnazione nell’ordine del discorso di ordini e posizioni, che vengono rafforzati per ridondanza.
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Siamo qui di fronte a una critica di quei paradigmi che ritengono il linguaggio un mero sistema comunicativo e informativo tra due entità individuali autosufficienti, per sottolinearne la dimensione multistratificata, produttiva e collettiva:
È una questione linguistica e politica: la critica al postulato che vuole il linguaggio essere informativo e comunicativo. Il linguaggio sarebbe una sorta di staffettista che informa, cioè passa i contenuti da un parlante a un ascoltatore. Il linguaggio fa anche questo, intendiamoci: ma non è questa la sua essenza. È proprio Pasolini a fornire gli argomenti decisivi nelle sue analisi su Dante, dove dimostra come l’emergere del
discorso indiretto libero presuppone un doppio livello linguistico, «alto» (teologale e trascendente) e «basso» (borghese e immanente) rispetto ai quali la lingua si differenzia in due serie divergenti, e di conseguenza in un doppio soggetto d’enunciazione, paragonabile allo sdoppiamento del soggetto empirico.
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Come sostengono Susan Petrilli e Augusto Ponzio, anche Michail Bachtin è all’origine del discorso di Deleuze e Guattari, elemento genealogico che ci aiuta a ricollegare quanto già detto rispetto alla polifonia spitzeriana. Infatti «per Bachtin, il discorso indiretto libero gioca un ruolo centrale nella tendenza [a lui] attuale del romanzo, che egli fa partire da Fedor Dostoevskij, e che indica come “polifonica”»:
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A differenza del discorso diretto e indiretto, in quello indiretto libero avviene una contaminazione del discorso dell’autore e di quello dell’eroe. In ciascuno penetra quello dell’altro e il suo punto di vista: la parola diviene a due o più voci, interiormente dialogata o polilogica. E ciò non è cosa da poco. Il discorso indiretto libero è una spia ma anche una pratica della messa in discussione del Soggetto e di tutto ciò con cui esso è collegato nella ideologia occidentale (e non è casuale che oggi il romanzo polifonico si sviluppi soprattutto nel Sud del mondo […]): l’Identità, la Differenza, l’Appartenenza, […], la Narrazione, la Memoria, […]. Nel discorso indiretto libero, si trovano insieme, non fusi, ma dialogicamente interagenti e disimmetrici, due punti di vista.
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D’altronde, l’aspetto destrutturante del racconto unificante del Soggetto, proprio della «soggettiva libera indiretta», è operante altresì in Virginia Woolf,
36 di cui Sara Sullam dà ulteriore chiarificazione in modo risonante rispetto all’uso di tale tecnica stilistica da parte di Ferrante:
Lo sfruttamento delle risorse del discorso indiretto libero da parte di Woolf non è funzionale solo allo
shift in point of view, ma anche all’assunzione di una distanza dai personaggi. […] la mobilità della postazione elocutoria, soprattutto nei romanzi più sperimentali, sia funzionale all’assunzione di una determinata pronuncia che evoca a sua volta una determinata postura, rappresentata attraverso il procedimento della dominante letteraria.
37
È interessante notare che Deleuze e Guattari, così come Bachtin, Spitzer e Pasolini, non rilevano l’ulteriore differenza che acquisisce tale tecnica attraverso l’adozione di una voce femminile, ovvero dal momento in cui chi parla si configura come una soggettività nomade nata in opposizione alla tradizione narrativa patriarcale, la quale non riconoscendosi nell’ordine narrativo tradizionale con esso confligge, destrutturandosi e riconfigurandosi continuamente, come testimonia, ad esempio, la narrativa della stessa Woolf.
Il linguaggio di Woolf si esprime in un discorso indiretto senza costrizioni che è essenziale nella visione nomade del soggetto come insieme eterogeneo. Eppure, qualcosa di ciò che le femministe della differenza sessuale come me chiamano «economia femminile libidinale» dell’eccesso senza auto-distruzione e del desiderio come pienezza senza mancanza, è fondamentale per l’intero processo del divenire deleuziano. Ecco perché lui [Deleuze] colloca il «divenire-donna» in una posizione di così grande rilievo, come un necessario momento di transizione all’interno del suo schema delle cose, non solo nella filosofia del soggetto, ma anche nelle relative teorie dell’estetica dell’arte. Non di meno, […] Deleuze non riesce a risolvere la sua ambivalenza a riguardo.
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Un’ambivalenza che possiamo ulteriormente approfondire prendendo in considerazione il modo in cui Rosi Braidotti spiega la differenza tra il pensiero nomade e la filosofia tradizionale, vale a dire in quanto sforzo «traduttivo» della soggettività, qui intesa come insieme eterogeneo di forze ed entità:
Il pensiero nomade marca il distacco radicale dal retaggio edipico in opera nella filosofia occidentale. […] Lo riporterei al mio interesse per lo stile e alla passione di Deleuze per il potenziamento creativo della vita attraverso la scrittura. Non credo sia possibile dare conto del pieno impatto del nomadismo filosofico attraverso il linguaggio tradizionale e – a mio avviso – logoro del pensiero teoretico. Bisogna fare lo sforzo di «tradurre» il contenuto propositivo in un linguaggio che sia adeguato alla sua forza innovativa.
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Mutatis mutandis, Ferrante adotta la «soggettiva libera indiretta» per raccontare l’esperienza della «smarginatura» di una soggettività caratterizzata dalla «frantumaglia», ponendo un doppio problema. Il primo è la distanza di classe tra la voce narrante e i propri personaggi; mentre il secondo è l’assumere una voce femminile, elemento che Ferrante scioglie delineando una molteplicità linguistica delle soggettività nomadi prese nel loro divenire-donna (Elena e Lila). Entrambi questi elementi portano Ferrante a tradurre il racconto dell’esperienza vissuta in modo inedito, poiché tanto il racconto della violenza di classe quanto il racconto della violenza di genere eccedono gli strumenti simbolici narrativi e linguistici della tradizione patriarcale. L’attitudine distanziante e traduttiva del dialetto presente nella scrittura di Ferrante si unisce a un uso conflittuale del linguaggio medio. Così facendo, anche sulla scorta di quanto ha sostenuto Pasolini circa il «discorso vissuto pop» (
Int, pp. 95-98), Ferrante sembra situarsi sapientemente all’interno della genealogia del «romanzo medio» sviluppatosi negli anni Cinquanta e poi trasformatosi nel «romanzo di ritorno» degli anni Ottanta, ovvero il romanzo votato all’intrattenimento e al consumo.
40 Tale posizionamento è giustificato dal tentativo di fare esplodere le contraddizioni linguistiche dal suo interno, riattualizzando i tentativi dei «giovani narratori» degli anni Ottanta e Novanta, i quali attraverso le poetiche «cannibale» e
pulp41 criticarono creativamente la pervasività del linguaggio standardizzato dei mass-media.
III. Una nuova istanza narrativa: prime note sulla «narratrice traduttrice»
La sperimentazione stilistica di Ferrante assume infine ulteriore chiarezza se posizionata all’interno delle poetiche autofinzionali degli Anni Zero. Sintetizzando, esse si articolano in una polarità dicotomica propriamente maschile: da un lato con il «narratore carnefice» di Walter Siti, dall’altro con il «narratore testimone» di Roberto Saviano. Nelle opere di autofiction Siti usa consapevolmente42 uno stile indiretto libero verso il basso, riducendo di conseguenza il mondo rispetto al proprio punto di vista e istituendo altresì un patto narrativo basato sull’inganno.43 La presenza del discorso indiretto libero imita in modo caricaturale la lingua dei destinatari della narrazione, identificati con i personaggi che non appartengono alla stessa estrazione sociale dell’autore, facendo emergere il sentimento di antipatia di cui parlava Pasolini (supra). Comparando la posizione di Siti con quella dell’«intellettuale mimetico» di Pasolini emerge una proposta narrativa in cui l’autore tenta di rivivere, nella propria opera, il nuovo modo di vita delle masse «innocenti» e standardizzate della società italiana in avanzata fase neocapitalista, ovvero di coloro i quali essendo privi di legami critici col passato accettano il futuro senza difese, e già lo prefigurano nelle loro forme di vita. Tuttavia «l’intellettuale mimetico […] non ne sa cogliere che l’angoscioso e il ridicolo (rispetto al passato cui egli è ancora legato criticamente). Non sa cogliere le sfumature e le complicazioni (in cui la vita realmente si rifà), ma un nudo sintagma, l’oggetto pop, inequivocabile e terribile» (Int, p. 95). Letta in questa chiave, l’angoscia nichilista propria della poetica di Siti sembra farsi «sopportabile solo se apocalitticamente ironica» (ibidem), laddove non potendo «adottare i modi linguistici di chi è più avanti di lui nella storia» (ibidem), proietta su di essi la propria angoscia, ovvero quella di un Soggetto che vorrebbe che il mondo fosse tutto come lui se lo racconta.
Per altri versi, con un’abile tecnica in cui convivono narrazione in prima persona e discorso indiretto libero, Saviano fa coincidere sé stesso, l’autore, con colui che dice «io» nel testo, e con il protagonista principale della vicenda narrata. Tuttavia notiamo che le storie raccontate non sono solo storie vissute dal protagonista ma anche le «storie tramandate di bocca in bocca»,44 come l’episodio con cui si apre Gomorra, ovvero la descrizione dello scarico di un container contenente corpi morti nel porto di Napoli.45 Una storia raccontata al narratore, ma trasformata, grazie al discorso indiretto libero, nell’esperienza diretta dell’autore. Come ha mostrato Arturo Mazzarella,46 se è vero che la poetica testimoniale di Saviano si situa nell’alveo del realismo, l’autore sceglie di nascondere la quota di romanzesco presente anche nella testimonianza più dettagliata, trattandosi pur sempre di un racconto. In questo senso se da un lato Saviano si sottrae dall’imitare i destinatari modellati sui propri personaggi, dall’altro usa il discorso libero indiretto per fingere di essere i propri personaggi, creando una narrazione di denuncia finzionalmente non-finzionale.
Andrea Cortellessa evidenzia la sostanziale complementarietà oppositiva tra Siti e Saviano, per cui:
la prospettiva di Siti è simmetricamente inversa a quella di Saviano: ammesso che in questi vi sia un’attrazione segreta per l’oggetto della propria esecrazione, quella di
Gomorra è per l’appunto un’esecrazione. Che infatti si struttura (non solo retoricamente, come dimostrano le successive conseguenze) come una denuncia. Simmetricamente inverso,
Resistere non serve a niente sotto l’apparenza di una denuncia (come è stata presa dalla ricezione mediatica di cui sopra, in qualche modo incoraggiata da ipocrite dichiarazioni pubbliche dell’autore) ha invece proprio l’attrazione, quale sua reale molla conoscitiva.
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Grazie agli strumenti tratti da Pasolini e assumendo un punto di vista che fa leva sulla soggettività nomade, il «narratore carnefice» di Siti («Lui materialista, lui pessimista, lui intimamente convinto […] che gli uomini preferiscano le tenebre»),
48 e il «narratore testimone» di Saviano («Io so e ho le prove. […] Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio»)
49 vengono messi sotto scacco dalla «narratrice traduttrice» espressa da Ferrante.
50 La nostra autrice infatti, attraverso un uso della «soggettiva libera indiretta», articolata nella relazione narrativa tra i due personaggi, Elena e Lila, identifica l’istanza narrativa in Elena, colei che si addestra all’antropologia e alla cultura borghese, ma mettendone in scena la parzialità di sguardo, la limitatezza linguistica e l’insufficienza nel costruire un racconto unitario stabile della realtà, motivi per cui diventa narratrice inattendibile. Al contempo conferisce a Lila una capacità significante che la narratrice – e l’autrice – non comprende, ma da cui è attratta. Questo elemento è confermato dall’uso di una lingua che, anche quando è espressione del personaggio di Lila, non accoglie il lessico del dialetto, perché ciò vorrebbe dire assegnare ai personaggi del sottoproletariato napoletano il punto di vista di un’autrice che proviene presumibilmente da una classe sociale differente, ovvero abituata ad usare un’altra lingua. Di contro, soprattutto nella tetralogia, Ferrante propone un uso allusivo del dialetto che, laddove emerge, lessicalmente o conservando la struttura sintattica dell’enunciato dialettale, sottolinea una distanza tra la voce narrante e i personaggi che non si emancipano dalla condizione sottoproletaria attraverso le modalità piccolo-borghesi, e rimandando così ad una realtà alternativa rispetto a quella esperita e raccontata dalla narratrice Elena Greco, la quale infatti cerca continuamente di tradurre le esperienze altrui secondo la propria lingua e il proprio ordine narrativo. Lavorando narrativamente attorno alla dimensione glossolalica della «frantumaglia» e della «smarginatura», la «narratrice traduttrice» porta alla luce un «concatenamento dell’inconscio», seleziona «voci sussurranti», convoca «tribù e idiomi segreti», in cui il discorso indiretto libero viene «da altri mondi, da altri pianeti».
51 In questo modo Ferrante costruisce una voce che si scontra con l’evidenza di non poter comprendere fino in fondo chi vive una condizione sociale radicalmente diversa dalla propria, pur tuttavia impegnandosi nel tentativo inventivo e non-innocente della traduzione narrativa,
52 la quale diviene a tutti gli effetti una pratica politica
53 profondamente relazionale.
Note
1 E. Ferrante, La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Roma, Edizioni e/o, 2016, p. 58. D’ora in poi Frant.
2 P.P. Pasolini, Intervento sul discorso indiretto libero [1965], in Id. Empirismo eretico [1972], Milano, Garzanti, 2000, pp. 81-103. D’ora in poi Int.
3 Sul legame tra Pasolini e Morante si veda anche C. D’Angeli, Una tormentata palinodia: Pasolini in «Aracoeli» di Elsa Morante, in S. Chemotti, D. Susanetti (a cura di), Inquietudini queer. Desiderio, performance scrittura, Padova, Il Poligrafo, 2012, pp. 337-347; D. Gragnolati, Amor che move. Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, Milano, Il Saggiatore, 2013.
4 E. Ferrante, Storia del nuovo cognome, Roma, Edizioni e/o, 2012, pp. 357-358.
5 N. Ginzburg, Discorso sulle donne, in «Mercurio», marzo-giugno, 36-39, 1948 pp. 105-110.
6 A. de Cespedes, Lettera a Natalia Ginzburg, in «Mercurio», marzo-giugno, 36-39, 1948, pp. 110-112.
7 E. Ferrante, I giorni dell’abbandono, Roma, Edizioni e/o, 2002.
8 R.C. Dahlman, Strategie di narrazione retrospettiva nel romanzo. «I giorni dell’abbandono» di Elena Ferrante, in V. Nigrisoli Wärnhjelm, A. Aresti, G. Colella e M. Gargiulo (a cura di), Edito, inedito, riedito. Saggi dall’XI Congresso degli italianisti scandinavi, Università del Dalarna, Falun, 9-11 giugno 2016, Pisa, Pisa University Press, 2017, pp. 199-212.
9 T. de Rogatis, Metamorfosi del tempo. Il ciclo dell’Amica geniale, in «Allegoria», 73, 2016, pp. 123-137: p. 133.
10 T. de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, Roma, Edizioni e/o, 2018, p. 188.
11 T. de Rogatis, Metamorfosi del tempo, cit., p. 133.
12 A. Kirsch, The Global Novel: Writing the World in the 21st Century, New York, Columbia Global Reports, 2016.
13 P.P. Pasolini, La volontà di Dante a essere poeta [1965], in Id. Empirismo eretico, cit., pp. 104-114.
14 G. Herczeg, Lo stile indiretto libero in italiano, Firenze, Sansoni, 1963.
15 L. Spitzer, L’originalità della narrazione nei «Malavoglia», in «Belfagor», 11, 1, 1956, pp. 37-53, ora in «Studi Italiani, Vita e Pensiero», Milano, 1976, pp. 293-316; Id., Linguistica e storia letteraria, in Id., Critica stilistica e semantica storica, a cura di A. Schiaffini, Bari, Laterza, 1966, pp. 73-105.
16 «L’autore compie un’orrenda mistificazione, attribuendo a personaggi diversi da lui, il suo stesso livello sociale, oppure addirittura a personaggi appartenenti a un’altra classe sociale, la sua stessa lingua e la sua stessa morale. E poiché tale autore è naturalmente borghese, egli, così, compie un’incosciente e faziosa identificazione di tutto il mondo con il mondo borghese; e il suo personaggio non è che la concrezione del proprio stato ideologico che ne rende impensabile ogni altro (nella naturale presunzione della propria superiorità)»; Int, p. 90.
17 «L’autore adopera il personaggio come un pretesto meccanico, facendone un sé stesso oggettivo, e quindi il monologo interiore così organizzato è una dichiarata e sincera “soggettiva”»; ibidem.
18 E. Ferrante, Storia della bambina perduta, Roma, Edizioni e/o, 2014, p. 162, corsivo mio.
19 Ivi, pp. 162-164.
20 E. Ferrante, L’amica geniale, Roma, Edizioni e/o, 2011, pp. 86 e 172.
21 E. Ferrante, Storia della bambina perduta, cit., p. 294.
22 «Amalia, per esempio, è filtrata dalla scrittura di Delia, e il lettore deve sbrogliare la matassa della figlia, se vuole provare a sbrogliare la matassa della madre. Ancor più complicato è l’incastonarsi di Lila dentro il racconto di Lenù: la trama, il tessuto narrativo della loro amicizia è molto elaborato»; Frant, p. 268.
23 E. Ferrante, L’amore molesto, Edizioni e/o, Roma 1992.
24 L. Spitzer, L’originalità della narrazione nei «Malavoglia», cit., pp. 43-46.
25 Ivi, p. 48.
26 S. Alaimo, Bodily Natures. Science, Environment, and the Material Self, Bloomington & Indianapolis, Indiana University Press, 2010.
27 Radicalizzando la «fantasia di memoir» di Tiziana de Rogatis, con «fantasia di autofiction» intendo il patto narrativo desunto dall’incrocio dei testi di autocommento e dei romanzi della nostra autrice. In particolar modo nella tetralogia Elena Ferrante si sovrappone a Elena Greco, di conseguenza prendendo lo sguardo del lettore in una ragnatela di coincidenze tra il narratore, l’autore e il personaggio in cui si smargina ogni confine. Questo sostanzia il lavoro attorno alla creazione di una nuova istanza narrativa, e l’autonomia dell’opera letteraria (oggetto fisico dotato di un’agency, ovvero una propria capacità di agire). Per approfondire cfr. I. Pinto, «Storia della bambina perduta» di Elena Ferrante: il desiderio di narrare oltre la dicotomia autore/lettore, in G. Traina, M. Panetta (a cura di), Nuove ricerche su Elena Ferrante, Roma, Diacritica edizioni, 2019 (pdf), pp. 123-154.
28 L. Melandri, Alfabeto d’origine. Memoria del corpo e scrittura di esperienza, Neri Pozza, Vicenza 2017, pp. 117-151.
29 E. Ferrante, Storia della bambina perduta, cit., p. 294. Vedi anche l’uso di questo verbo nei seguenti passaggi: il rapporto tra Elena Greco e Donato Serratore: Ead., Storia del nuovo cognome, cit. p. 291; la relazione di Lila con il mondo esterno nei momenti della propria smarginatura: Ead., Storia di chi fugge e chi resta, Roma, Edizioni e/o, 2013, p. 114 e p. 150.
30 L’importanza del verbo «urtare» nella poetica ferrantiana di esprime anche in E. Ferrante, L’invenzione occasionale, Roma, Edizioni e/o, 2019. Esso è anche elemento che la colloca vicino all’uso che ne fa Anita Raja per descrivere la propria pratica traduttiva, cfr. I. Pinto, Elena Ferrante, Mimesis, Milano (in corso di pubblicazione).
31 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia [1980], trad. it. di G. Passerone, Roma, Castelvecchi, 2010, pp. 123-125.
32 G. de Michele, Il movimento caotico della lingua. Pasolini Deleuze Guattari, in «Carmilla on-line», 3 Novembre 2005.
33 Ibidem.
34 A. Ponzio, S. Petrilli, Fuori campo: i segni del corpo fra rappresentazione e eccedenza, Milano, Mimesis, 1999, p. 388.
35 Ivi, pp. 388-390.
36 Cfr. V. Woolf, La signora Dalloway [1925], trad. it. di N. Fusini, Milano, Feltrinelli, 2013.
37 S. Sullam, Tra i generi. Virginia Woolf e il romanzo, Milano, Mimesis, 2016, pp. 13-14.
38 R. Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade [2006], Roma, Luca Sossella Editore, 2008, p. 218.
39 R. Braidotti, In metamorfosi: Verso una teoria materialistica del divenire [2002], Milano, Feltrinelli, 2003, p. 106.
40 S. Tani, Il romanzo di ritorno: dal romanzo medio degli anni sessanta alla giovane narrativa degli anni Ottanta, Milano, Mursia Editore, 1990, pp. 139-144.
41 Gioventù cannibale, Torino, Einaudi, 1996; A. Nove, Puerto Plata Market, Torino, Einaudi, 1997; Id., Superwoobinda, Torino, Einaudi, 1997; M. Barenghi, Oltre il Novecento. Appunti su un decennio di narrativa (1988-1998), Milano, Marcos y Marcos, 1999; E. Mondello (a cura di), La narrativa italiana degli anni Novanta, Roma, Meltemi, 2004; Ead., In principio fu Tondelli. Letteratura, merci, televisione nella narrativa degli anni Novanta, Milano, Il Saggiatore, 2007; A. Casadei, Stile e tradizione del romanzo italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2007.
42 «E poi per quanto riguarda i dialoghi, ho l’impressione che questa sia una cosa davvero mia, e cioè questo bisogno che ho del trompe-l’oeil, cioè questo bisogno che ho che la gente leggendo creda che sia vero. Un’altra versione dell’onnipotenza creativa. Ossia, mentre gli scrittori in genere pensano di imitare Dio, no?, io penso di imitare il demiurgo che imitava. Cioè il demiurgo fa finta di costruire il mondo, e te lo presenta una copia e ti dice che è la realtà; io faccio lo stesso, provo a ingannare il lettore perché mi dà una specie di soddisfazione perché dico: Guarda, ti ci faccio cascare. E credo anche sfruttando una specie di orecchio. Se io sento parlare le persone, a me dopo un giorno viene da rifarlo. Lo stesso faccio con i dialetti. Quindi probabilmente ho utilizzato questa dote nativa per fare un trucco. Per sfogarmi a essere disonesto nella scrittura. La scrittura come inganno» in C. Raimo, Dal problema del male alla questione della punteggiatura. Una veramente lunghissima intervista a Walter Siti, in «Minima et Moralia – Rivista on-line», 13 Aprile 2017.
43 G. Tinelli, «Il carnaio di ora»: autofiction, desiderio e ideologia nell’opera di Walter Siti, [Dissertation thesis], Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Dottorato di ricerca in Letterature classiche, moderne, comparate e postcoloniali, 29 Ciclo, 2017, DOI 10.6092/unibo/amsdottorato/8117, p. 114.
44 W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov [1936], in Id., Angelus Novus. Saggi e Frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2014, pp. 247-274.
45 «Il container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell’aria, lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a domare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come crani veri […] Quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita» in R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori, 2006, p. 11.
46 A. Mazzarella, Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 13-15.
47 A. Cortellessa, Futile, in «Doppiozero», 2 Luglio 2012.
48 G. Simonetti, Romanzo e morale. Una discussione su «Resistere non serve a niente» di Walter Siti, in «Le parole e le cose», 15 ottobre 2012.
49 R. Saviano, Gomorra, cit., p. 110.
50 Sulla presenza della pratica della traduzione nella trama della tetralogia di L’amica geniale cfr. R. Falkoff, To Translate Is to Betray: on the Elena Ferrante Phenomenon in Italy and the US, in «Public Books», 25 March 2015; T. de Rogatis, «Io, la voce americana del genio Elena Ferrante». Intervista a Ann Goldstein, in «l’Unità», 9 Maggio 2017, pp. 12-13.
51 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit. p. 132.
52 Sulla pratica della traduzione come relazione non-innocente vedi D. Haraway, Saperi situati: la questione della scienza nel femminismo e il privilegio di una prospettiva parziale [1988], in Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 103-134; Ead., Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto [2016], Roma, Nero edizioni, 2019, p. 125.
53 Con questo termine intendiamo una prassi politica trasformativa della realtà, ovvero che coinvolge tanto una relazionalità umana almeno duale e al contempo il contesto entro cui tale relazionalità si colloca. Per approfondire vedi A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997; C. Zamboni, Una contesa filosofica e politica sul senso delle pratiche, in «Diotima, La rivista», 5, 2006.