L’Affaire Moro, Whitehead e Manzoni
Una lettura
Raffaello Palumbo Mosca

Uno scrittore dovrebbe sempre poter dire che la politica di cui si occupa è etica. Sarebbe bello che potessero dirlo tutti. Ma almeno che lo dicano gli scrittori.

Leonardo Sciascia

Quando, nell’estate del 1978, si accinge a scrivere L’Affaire Moro, Leonardo Sciascia ha già dato prova – con, per citare solo alcuni tra gli esempi più riusciti, Le parrocchie di Regalpetra (1956), La morte dell’inquisitore (1964), La scomparsa di Majorana (1977) – di una scrittura felicemente incategorizzabile; una scrittura che, come Sciascia stesso afferma, narrativizza il saggio e, al contrario e specularmente, innesta elementi saggistici all’interno della narrazione: «Sì – dichiarava l’autore nell’intervista a Davide Lajolo –, credo di essere saggista nel racconto e narratore nel saggio. Dirò di più: quando mi viene un’idea per qualcosa da scrivere, breve o lunga che sia, non so in prima se mi prenderà la forma del saggio o del racconto».1 Eppure, anche all’interno di questa dichiarata ibridazione o mescolanza di generi, L’Affaire Moro conserva una sua singolare peculiarità. Contrariamente alle sue abitudini, Sciascia scrive “a caldo”, sotto la pressione della cronaca più immediata e, come ha giustamente rilevato Bruno Pischedda, quasi in risposta alla divampante polemica sul nicodemismo degli intellettuali.2

Eppure L’Affaire non ha nulla dell’instant book e si misura, proprio nel momento in cui il paradigma umanistico mostra segni evidenti di collasso, col “tempo lungo” della «letteratura di una volta»;3 lo fa attraverso uno stile “squisito”, finemente cesellato, i cui padri nobili sono, come per primo vide Pasolini,4 i grandi prosatori d’arte primo novecenteschi (e del resto, già nel commosso ricordo delle Parrocchie: «avevo sempre bisogno di soldi, con due lire al giorno non ce la facevo ad andare al cinema e fumare, e compravo ogni settimana l’“Omnibus” di Longanesi, e il “Corriere” quando c’era l’articolo di Cecchi»).5 Una prosa, dunque, dal forte impianto lirico e che, come è stato notato, nell’Affaire ancor più che altrove «gareggia per intensità e immediatezza dei trapassi con il severo periodare di Cecchi, di Savarese».6

La pretesa ancora perfettamente umanistica di durata è poi affidata, come sempre nella «scrittura-palinsesto» di Sciascia,7 ad una fittissima rete inter e intra testuale – oltre a Pasolini, che appare fin dalla prima pagina, Manzoni, Canetti, Borges, solo per citare i più evidenti tra gli autori convocati – che sprofonda l’episodio di cronaca in una dimensione altra, nel non-tempo dell’archetipo. Innanzi tutto, à la Pirandello, nel dramma dell’identità, di un ubi consistam labile, incerto e perennemente minacciato, perfettamente (e oscenamente) esemplato nel «mostruoso» documento che, attraverso le parole degli «amici di vecchia data», afferma la sostanziale non identità di Moro con sé stesso:

Nella sede centrale della Democrazia Cristiana, nella romana Piazza del Gesù, viene distribuito ai giornalisti un documento che ho già definito, per come mi parve e mi pare, mostruoso. Una cinquantina di persone, “amici di vecchia data” dell’onorevole Moro, solennemente assicurano che l’uomo che scrive le lettere a Zaccagnini, che chiede di essere liberato dal “carcere del popolo” e argomenta sui mezzi per farlo, non è lo stesso uomo di cui sono stati lungamente amici, al quale “per comunanza di formazione culturale, di spiritualità cristiana e di visione politica” sono stati vicini.8

Tale procedimento, che segna il trapasso dall’uomo al personaggio (o, se si preferisce, dalla storia all’archetipo) ed esemplarizza, assolutizzandolo, Moro, è poi evidente là dove la narrazione di Sciascia tocca il suo cuore e il suo culmine, ovvero là dove – ma le parti da citare potrebbero essere numerosissime – si fa riflessione sulla «spaventosa parola»:

«Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere». Ma nella precedente lettera aveva parlato di «autorità dello Stato» e «uomini di partito»: è soltanto ora che è arrivato alla denominazione giusta, alla spaventosa parola.

Per il potere e del potere era vissuto fino alle nove del mattino di quel 16 marzo. Ha sperato di averne ancora: forse per tornare ad assumerlo pienamente, certamente per evitare di affrontare quella morte. Ma ora sa che l’hanno gli altri: ne riconosce il volto laido, stupido, feroce. Negli «amici», nei «fedelissimi delle ore liete»: delle macabre, oscene ore liete del potere. (Affaire, p. 500)

Siamo, naturalmente, in territorio conosciuto: come in tutti i «racconti-inchiesta» e con sempre maggior preponderanza almeno a partire dalla Scomparsa di Majorana, Sciascia costruisce dei racconti (quasi) «senza fatti»9 nei quali il vero snodo della narrazione, forse l’unico, è «l’analisi delle relazioni di potere».10 Come ha sottolineato Fabio Moliterni, inoltre, è almeno a partire da Il contesto (1971) che nella sua scrittura si impone «con la massima pervasività la dimensione del “trattato” o dell’inchiesta sulla storia e l’antropologia politica […] insieme ad un rovello filosofico segnato via via da un’ansia metafisica».11

Eccentrico rispetto alla tradizione nazionale – e forse persino lontano, come vuole Paolo Giovannetti, «dal nostro sistema letterario»12 attuale –, L’Affaire è però un libro eminentemente sciasciano, quasi «naturale punto d’approdo del [suo] percorso».13 E tuttavia non per questo, e per Sciascia stesso, meno sconvolgente: per un autore che sempre mira a «ricondurre il finzionale nell’orbita del non-finzionale»,14 per un autore, cioè, nel quale la contaminazione di romanzo e saggio è sempre in vista di un di più di analisi (e conoscenza) del mondo, il caso Moro – intendo il caso “reale”, “storico” – non poteva che segnare un momento di crisi; non poteva che assumere le sembianze di tragica verifica in corpore vili della misteriosa «equazione» tra realtà e poesia; un’equazione sulla quale Sciascia già da tempo andava ragionando, e nella quale è la prima (la realtà) ad «adeguarsi» alla seconda (la poesia), e che pareva manifestarsi ora in tutta la sua tragica evidenza: «Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche – non rallegrandomene ma neanche rinnegandoli – ricordare due miei racconti, almeno due: Il contesto e Todo modo» (Affaire, p. 436).

La «capacità divinatoria» della poesia non poteva che apparirgli, e forse con shock improvviso, meno misteriosa – un semplice processo aritmetico – e insieme più dolorosa e tragica: «di fronte al caso Moro – scrive infatti Sciascia – ho avuto il mio trauma, la mia crisi […] I miei sono soltanto processi aritmetici, del due più due che fa quattro. Ho un po’ paura di questo quattro, ecco».15 Con L’Affaire Moro, dunque, e attraverso una scrittura-interpretazione che nega la semplificante «dimensione di consequenzialità immaginativa o fantastica» della versione vulgata, il parresiasta Sciascia si propone di sollevare la verità verso la superficie; ma anche, con contraddizione solo apparente, di rendere la verità scoperta più oscura e problematica, ovvero più conforme alla realtà stessa.16 Paradossalmente, quindi, è solo quando il caso Moro – «vero» perché accaduto – è traslato in Affaire, che diventa anche «vero e reale», ovvero «propriamente accaduto quale si narra, quale parve (allo scrittore), quale è creduto». (Affaire, p. 437) E del resto, già negli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel Sciascia aveva affermato che «i fatti della vita sempre diventano più complessi e oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da “atti relativi” diventano, per così dire, “atti assoluti”».17 Un concetto, questo, che ribadirà con forza quando si troverà a rispondere alle obiezioni critiche (non sempre in buona fede) all’Affaire, e in particolare all’accusa di aver semplificato oltremodo, oltraggiandola, la figura di Moro: «Io ho scritto un libro – rispondeva su «La Stampa» del 10 novembre 1978 – per dire appunto che il caso è più complesso e oscuro di come si è voluto presentarlo».18

La narrazione investigante dell’autore, allora, è ciò che restituisce – o rivela – l’opacità del mondo, ma anche, e insieme, la concretezza e la realtà dell’evento:

L’impressione che tutto nell’affaire Moro accada, per così dire, in letteratura, viene principalmente da quella specie di fuga dei fatti, da quell’astrarsi dei fatti […] in una dimensione di consequenzialità immaginativa o fantastica indefettibile e da cui ridonda una costante, tenace ambiguità. Tanta perfezione può essere dell’immaginazione, della fantasia; non della realtà. […] E stando alle statistiche diffuse dal ministero degli Interni […] le Brigate rosse appunto sono sfuggite al calcolo delle probabilità. Il che è verosimile, ma non può essere vero e reale (Tommaseo, Dizionario dei sinonimi: «Per più intenzione, le due voci s’uniscono, e dicesi: fatto vero e reale: e simili. Reale allora par che aggiunga a vero, né solo per pleonasmo: ecco come. Un fatto vero e reale, non solamente è accaduto veramente, ma è propriamente accaduto quale si narra, qual parve, quale è creduto…»). (Affaire, p. 437)

«Tutti gli scrittori sensati – scriveva Manzoni nella Storia della colonna infame – veggiono di quanti mali sia cagione l’errore, e con tacito accordo gli fanno la guerra»;19 e «sensata», ovvero tesa allo smascheramento di una verità nascosta dalla e nella storia, la scrittura di Sciascia, è (e vuole essere) sempre. E tuttavia, la vicinanza al modello-Manzoni, anche e soprattutto nel caso dell’Affaire, si dispiega (e va misurata) su più piani; da una parte, è forse banale ma non inutile ricordarlo, identico è il rovesciamento del rapporto tra realtà e narrazione: già nella Storia, infatti, erano i giudici, attraverso «un pasticcio di fatti e d’invenzioni», a creare la fiction (vale a dire: un immorale «romanzo storico»), mentre la rigorosa ragione investigante del narratore ristabiliva il vero. Ma un altro elemento, che ha a che fare con il rapporto tra narratore e lettore, è più rilevante: esattamente come il Manzoni della Storia e ancor prima dei Promessi sposi, nell’Affaire, Sciascia appronta un testo che, attraverso un sapiente uso degli «strumenti di una retorica delle passioni», riunisce felicemente «commozione e raziocinio»,20 puntando a stimolare un rapporto di identificazione non tra il lettore e il personaggio Moro – che è infatti oggetto di ripetute critiche distanzianti –, ma tra il lettore e il narratore-giudice. Le prime pagine, solo in apparenza inutilmente divaganti e lontane dal cuore del discorso, hanno, del resto, anche lo scopo di mettere il lettore in quel «cerchio di confidenza, di complicità», che Sciascia ritrovava nelle opere più amate di Stendhal.21 È grazie alla narrazione di un passato personale, che lo situa geograficamente, storicamente e affettivamente, che il narratore dell’Affaire acquisisce un volto e una storia, diventando qualcosa di diverso e di più rispetto a quel narratore «implicato» di cui ha giustamente parlato Giovannetti: diventa un narratore “fraterno” al lettore, a lui unito in nome di una comune (e fragile) umanità. Che si sia sulla pista giusta sembrerebbe confermato dalla rarità, se non proprio l’unicità, di questo slittamento del focus dal fatto indagato al narratore. Non solo nei romanzi (i cui incipit sono, come si conviene al genere della detection, spesso in medias res), ma anche negli altri racconti-inchiesta, Sciascia preferisce andare subito al punto: La morte dell’inquisitore si apre con le parole («Pacienza Pane, e tempo») graffite sul muro di una cella di Palazzo Chiaromonte; Atti relativi alla morte di Raymond Roussel riporta immediatamente il «processo verbale» della morte di Roussel stesso; ancora: La scomparsa di Majorana comincia riportando la preghiera di Giovanni Gentile affinché il senatore Bocchini riceva Salvatore Majorana che vuole riferire di «importanti tracce dello scomparso».22

La lista potrebbe continuare (si veda, ad esempio, l’incipit di La sentenza memorabile), ma torno subito al rapporto con Manzoni: se ha ragione Giuliana Benvenuti, e scegliendo di «attraversare e praticare direttamente» quella contraddizione tra la storia e l’invenzione che Manzoni scioglierà in favore della prima, Sciascia riesce spesso ad essere, come in Il consiglio d’Egitto, «sostanzialmente anti-manzoniano proprio nel suo più stretto manzonismo»,23 nell’Affaire si fa invece, come recita la quarta di copertina di La strega e il capitano, (scritta probabilmente con il concorso dell’autore stesso), «umile glossatore di documenti e ricercatore della verità»: nel momento in cui le finzioni sono «ammesse e fomentate dagli uomini di toga e di potere, sulla pelle della gente»,24 Sciascia, come il Manzoni della Storia della colonna infame, non ammette finzione. Nell’Affaire, allora, tutto è vero e tutto è rigorosamente dedotto. E forse anche a stemperare quel “tono da romanzo” che tuttavia il pamphlet conservava, Sciascia aggiungerà la sua Appendice, ovvero la Relazione di minoranza che chiude, dopo una Cronologia del caso, la seconda edizione del volume. Esattamente come ha scritto Carlo Ginzburg a proposito di Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento (che Sciascia stesso discuterà in La sentenza memorabile), la ricerca e la narrazione non s’imperniano «sulla contrapposizione tra “vero” e “inventato”, ma sull’integrazione, sempre segnalata puntualmente, di “realtà” e “possibilità” (al plurale»).25 Come il Manzoni della Storia (e come la Davis secondo Ginzburg), Sciascia rinuncia allora al privilegio – non allo sguardo – del romanziere, vale a dire rinuncia a conoscere e riferire l’interiorità dei suoi personaggi. Anche se in modo forse meno rigoroso rispetto al suo modello, ricorre quindi frequentemente a formule dubitative e retoriche per segnalare la semplice verisimiglianza – che è cosa ben diversa dalla verità – delle motivazioni psicologiche di Moro («e si può forse avanzare un’ipotesi…», «a me pare di poter affermare che…», «non credo che abbia avuto paura della morte…»; Affaire, pp. 431, 447, 455), e della stessa ricostruzione dei fatti («e può darsi che si stia, qui, facendo un romanzo: ma non è improbabile…»; «e ci si può anche fermare su questa ipotesi e immaginare…»; Affaire, pp. 473-475).

Eppure, se il narratore manzoniano, che giudica a distanza di secoli, conserva l’oggettività e talvolta persino il distacco dello storico, la detection di Sciascia – Claude Ambroise ha giustamente parlato dell’Affaire come di un «giallo filologico per raffinati»26 – rivela immediatamente un fondo oscuro: non solo l’autore, si immedesima – à la Charles Auguste Dupin – con Moro,27 ma come e prima del «vice» di Il cavaliere e la morte, Moro stesso diventa doppio e quasi portavoce dell’autore. (Come il Montaigne di L’educazione dei fanciulli, anche Sciascia potrebbe affermare: «non dico gli altri se non per dirmi di più»).28 Chiuso nella “prigione del popolo”, Moro diventa esempio e portavoce di un pensiero che Sciascia – il siciliano Sciascia – ha scoperto, e dolorosamente, prima di tutto in sé e per sé: il pensiero «vero e reale» è pensiero sulla e della morte.

«Secoli di scirocco», era stato detto, «sono nel suo sguardo». Ma anche secoli di morte. Di contemplazione della morte, di amicizia con la morte. Ronchey aveva scritto: «È l’incarnazione del pessimismo meridionale». Che cosa è, in che cosa consiste, il pessimismo meridionale? Nel vedere ogni cosa, ogni idea, ogni illusione – anche le idee e le illusioni che sembrano muovere il mondo – correre verso la morte. Tutto corre verso la morte: tranne il pensiero della morte, l’idea della morte. «Nonché un pensiero, il pensiero della morte è il pensiero stesso». Penetra ogni cosa, come lo scirocco: nei paesi dello scirocco. (Affaire, p. 455)29

E ancora, a ribadire come e quanto Sciascia si muova nel solco di Manzoni, “tradendolo” e aggiornandolo tuttavia ad ogni passo: se il ribaltamento del rapporto tra letteratura e realtà è analogo, è necessario rilevare come esso porti anche alla formulazione di una diversa ipotesi ontologica. Come sappiamo da una nota di Nero su nero, infatti, è proprio durante la stesura dell’Affaire che Sciascia, «nell’insonnia, con frammentaria e incandescente perspicuità» (NsN, p. 1106), afferma di essere arrivato a una risposta su cosa la letteratura sia:

E allora che cos’è la letteratura? Forse un sistema di «oggetti eterni» (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema solare. (NsN, p. 1109)

Sciascia si muove dunque in una prospettiva latentemente platonica (ed era proprio il citato Whitehead a parlare della filosofia occidentale come di una «serie di note a Platone») in cui il tentativo di risolvere l’opposizione tra realismo e idealismo cui risponde Processo e realtà (1929) sembra giocare un ruolo fondamentale. In effetti, l’apparentemente divagante riflessione sul «farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura» come «concorso di minuti avvenimenti […] in un moto di attrazione e aggregazione [che] corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma»30 è certo un riflesso o una riformulazione – semplificante, certo, ma di perspicua essenzialità – della teoria whiteheadiana della «concrescenza», vale a dire del farsi dell’evento (il «campo magnetico») attraverso il concorso di molteplici relazioni che lo formano. Come Whitehead, dunque – e come l’“eracliteo” Gadda (alla cui filosofia non a caso è stato proficuamente accostato proprio Processo e realtà),31 anche Sciascia interpreta la realtà come l’inesausto accadere di un processo, come rete di relazioni inseparabili dall’evento stesso.

Il nodo cruciale è però nell’accenno agli «oggetti eterni», quasi una riformulazione di quegli «atti assoluti» di cui si parlava nel Raymond Roussel. In Whitehead, gli «oggetti eterni» rimandano alle idee platoniche, cui tuttavia non sono riducibili; a differenza di queste infatti, quelli sono privi di realtà in sé: non sono «entità reali», ma la loro «potenzialità»;32 una potenzialità intesa in contrapposizione alla mera possibilità (che è una «determinazione concettuale a posteriori»), ovvero come «componente essenziale dell’essere come processualità».33 Il reale si configura dunque come il divenire atto della potenzialità degli oggetti eterni; questi, tuttavia, trovano il loro sistema o principio unificatore in un dio anch’esso «diveniente […] che si attua con l’attuarsi del mondo».34 Sciascia, quindi, riduce e condensa la complessa cosmologia di Processo e realtà in poche, incisive righe; e tuttavia la coerenza è estrema: come gli oggetti eterni di Whitehead, gli oggetti letterari sono privi di realtà in sé ma in essa appaiono («splendono») alla luce di quel dio diveniente che, in Sciascia, ha nome verità.

L’ «equazione» che si compie tra realtà e poesia è quindi quella di una poesia come archetipo o come potenzialità che di volta in volta – «bisogna sempre saper aspettare» – si manifesta nel mondo, tradendone in fine una «segreta verità». Così, con tono lieto e dimesso, in una piccola chiosa di Nero su nero:

Mi consola più tardi, al castello dei Pioppi, nella grande afa, la visione di una farfalla che vola stanca, quasi stremata, e il ricordo del verso burchiellesco «tutta sudata venne una farfalla». Un verso strambo, surreale: ma viene il momento che la realtà vi si adegua. Così è, bisogna sempre saper aspettare, tra realtà e poesia, che l’equazione si compia. (NsN, p. 942)

Assai opportunamente, Onofri ha accennato poi di un’altra «più occulta, ma più profondamente operante» presenza nella meditazione sciasciana, quella del Borgese di Figurazione e trasfigurazione. E in effetti, se Sciascia era a mano a mano – e definitivamente – andato allontanandosi da un realismo inteso come rispecchiamento del reale pur rimanendo profondamente legato ad una «letteratura di cose», la teoria borgesiana della doppia somiglianza, l’ipotesi di una «sovranatura» simboleggiata attraverso l’arte, non poteva che apparirgli come sintesi mirabile – soluzione forse – delle persistente contraddizioni che lui stesso si trovava ad affrontare: quella tra ragione e irragione, tra casualità e causalità e, in generale, l’apparente enigma di «tutti gli assortimenti, i ritorni, le ripetizioni, le coincidenze, le speculari rispondenze tra realtà e fantasia, le indefettibili circolarità di cui è fitta la vita e ogni vita» che rappresentano, dopotutto, «il solo ordine possibile».35

Alla luce di quanto finora detto è ormai evidente: anche la verità che L’Affaire Moro ricerca si dispiega su molteplici piani differenti; ad un grado zero (ma non per questo meno importante) è la verità del pamphlet civile, la verità di quel «due più due che fa quattro» – lo spaventoso quattro – che riconosce nella retorica del Moro «grande statista» contrapposto al Moro prigioniero niente più (e niente meno) che una strategia delegittimante, volta a ridurre «a nulla la sua identità simbolica»,36 a decretarne – ancor prima che la sentenza sia eseguita – la «morte civile»:

Suggestionato o convinto, Moro parla ormai come le Brigate rosse e per le Brigate rosse: questa è la tesi che, come una enorme pietra tombale scende sull’uomo vivo, combattivo e acuto che Moro è ancora nella «prigione del popolo», mentre si ricorda e si celebra il Moro già morto, il Moro da monumentare: il «grande statista» che Moro non è mai stato. (Affaire, p. 472)

È, quindi, la verità delle finalmente rivelate responsabilità di una intera classe politica, che si ipostatizzano nell’immagine di Andreotti che scrive «di pugno» la nota del governo; una nota che, di fatto, ribadendo la “linea della fermezza”, sancisce la condanna a morte di Moro: «il fatto che i giornalisti tengano al particolare di Andreotti che scrive “di pugno” il comunicato del governo», chiosa Sciascia, è «un’immagine: di un uomo che scrive una sentenza» (Affaire, p. 503).37

E tuttavia, proprio mentre Sciascia giunge, attraverso l’analisi dei documenti, a questa verità, ne scopre anche l’insufficienza, che è l’insufficienza della ragione stessa. Proprio questo mi sembra il senso della lunga citazione da Finzioni di Borges che conclude il volume e revoca in dubbio ciò che altrimenti potrebbe apparire dimostrato esemplarmente (la corresponsabilità della classe politica nell’assassinio Moro): «questa frase lascia capire che la soluzione è sbagliata. Il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un’altra soluzione, la vera» (Affaire, p. 522). Una tale palinodia è un piccolo mistero (Bruno Pischedda ha parlato di una «trappola testuale»):38 non solo perché, se presa alla lettera, invaliderebbe tutte le deduzioni-accuse dell’autore all’interno del volume – la cui giustezza, invece, Sciascia continuerà a rivendicare39 –, ma anche perché, come sappiamo da un’intervista a Tony Zermo, il brano era stato inizialmente posto in esergo al volume e non a sua conclusione; considerata anche la funzione cruciale di «simbolo-guida»40 attribuita da Sciascia alle citazioni iniziali, tale spostamento sarebbe, come nota immediatamente Paolo Squillacioti, «inusuale nella prassi scrittoria di Sciascia».41 Escludendo l’ipotesi di una «svista del giornalista», mi sentirei di ipotizzare che tale spostamento risponda a ragioni insieme occasionali e, al contrario, profondamente legate alla poetica stessa di Sciascia: da una parte all’autore sta a cuore non revocare immediatamente in dubbio la verità civile del suo pamphlet, conservarne la forza – anche politica e polemica – per tutto il volume; dall’altra, però, Sciascia è consapevole, e vuole ribadire, che ogni verità raggiunta dalla ragione non può che essere parziale e apparente; ogni verità della ragione è forse quella «verità di un momento, che contraddice altre verità di altri momenti» della fotografia del saggio Verismo e fotografia.42

Carlo Madrignani ha scritto che, nell’Affaire come già in Todo modo e nel Contesto, al termine della sua indagine il narratore scopre che «tutte le investigazioni, anche le più raffinate e cocciute, convergono verso un limite invalicabile, un muro alto e kafkianamente impenetrabile, che è il Potere».43 È vero, e Fabio Moliterni ha ampiamente dimostrato44 come la «scrittura di pensiero» di Sciascia muova da una autocoscienza o crisi del moderno inteso come – uso le parole di Sciascia stesso nella Prefazione alle Parrocchie di Regalpetra del 1967 – «continua sconfitta della ragione».45 È però proprio a partire da questa sconfitta – e all’interno di un pensiero nel quale l’illuminismo e lo scetticismo, l’inesausta volontà di indagine e la consapevolezza di una inevitabile sconfitta sono come il recto e il verso del medesimo manoscritto –, che Sciascia trova la «segreta verità» della letteratura.

Conviene, allora, tornare alle pagine poco fa menzionate di Nero su nero: «nell’insonnia e con frammentaria e incandescente perspicuità» (NsN, p. 1106), Sciascia intuisce che cosa la letteratura sia; non sa, dice, darne spiegazione, ma due testi funzionano da esempi; in due testi – o meglio in due luoghi particolari dei due testi – ne ha «verificato il concetto» (NsN, p. 1107). Il primo è un passo del Diario di Giambattista Biffi nel quale si narra, in inglese, della «deceitfull wouman»: il racconto di questo evento minimo e quotidiano, e del «non pienamente svelato ma intenso stato d’animo» di Biffi (un sentimento di «pietà, di tenerezza, forse d’amore»; ibidem) instaura, afferma Sciascia, «un rapporto diverso», un rapporto «da uomo a uomo» tra scrittore e lettore (NsN, p. 1108). Sovviene allora Gadda quando, nella sua Apologia manzoniana, sottolineava la medesima qualità in Manzoni stesso e in Leopardi; ovvero in due autori che, lo ha sottolineato Fabio Moliterni, almeno a partire dal Contesto, per Sciascia «si accordano nella coscienza del male della storia»:46

Volle poi [Manzoni] che il suo dire fosse quello che veramente ognuno dice, ogni nato della sua molteplice terra, e non la roca trombazza d’un idioma impossibile, che nessuno parla (sarebbe il male minore), che nessuno pensa, né rivolgendosi a sé, né alla sua ragazza, né a Dio. […] volle parlare da uomo agli uomini, come, a lor modo, parlarono tutti quelli che ebbero qualcosa di non cretino da raccontare. Ebbe compagno nell’impresa della spazzatura, un altro conte suo contemporaneo, disgraziatissimo e macilento di persona. La parola di quest’ultimo ha una nitidezza lunare: “Dolce e chiara è la notte”.47

Sciascia cita poi un passo, tratto da Un tour en Sicile, 1833, del barone Gonzalve de Nervo; anche in questo caso appare una donna, la duchessa di Francofonte, e anche in questo caso l’episodio è «infinitesimale»: uno sguardo scambiato dal vetro delle due lettighe, l’incanto del momento, nulla più: «questa apparizione, questo sguardo di stupore […] rende il momento, appunto, incantato, e ci incanta» (NsN, p. 1109).

Alcune considerazioni preliminari: il pensiero di Sciascia è un pensiero a-sistematico – il modello è certo l’amato Montaigne e i suoi Essais –, un pensiero che procede per divagazioni e intuizioni improvvise che finiscono tuttavia, in letteratura, per rivelare un «ordine delle somiglianze», un «disegno»: quel «disegno segreto e non appariscente» degli «avvenimenti inavvertiti» di cui parlava Gadda a proposito dei Promessi sposi; o, se si preferisce e similmente: di tutti quei «minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili» (Affaire, p. 438) di cui, sulla falsariga di Whitehead, Sciascia stesso parla nell’Affaire. Ancora: la verità intravista ha a che fare con il durare «attraverso i secoli» di un sentimento umano che, «spiaccicato in scrittura» arriva «carico di rifrazioni» al lettore ed entra a far parte del suo stesso sentimento: «attraversa due secoli pieni di rumori e furori e arriva […] ad occupare la mia mente, ad esser parte di un mio stato d’animo» (NsN, p. 1108). Le stendhaliane «tracce di vita» (il corsivo è dell’autore) che Sciascia ritrova nei due testi hanno a che fare con una relazione, con il riconoscimento di una comunanza. Una relazione che mostra la vita nell’incanto della sua nudità, una vita che si manifesta spogliata di tutte le sue maschere; diremmo: come creaturalità.

Ma «creatura» è anche il Moro che, spogliato della sua funzione, deprivato del potere e sottomesso all’arbitrio dei «due stalinismi», quello «consapevole, apertamente violento e spietato delle Brigate Rosse» e quello «subdolo e sottile che sulle persone e sui fatti opera» (Affaire, p. 465), appare a Sciascia: «Moro comincia, – annota a margine della lettera del 10 aprile – pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma, poiché tragicamente è entrato nella vita. Da personaggio a “uomo solo”, da “uomo solo” a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza» (Affaire, p. 471).

E tuttavia questa salvezza è affidata, e non solo nel caso di Moro, alla pagina scritta, alla letteratura. Se Sciascia ha spesso insistito sul carattere «più religioso che politico» dell’Affaire48 non è solo perché il racconto della vicenda Moro è, a tutti gli effetti, il racconto di una Passione, ma perché, come la rammemorazione-racconto di Elio Lamia, nella Nota che chiude la traduzione del Procuratore della Giudea di Gide, è ciò che “resuscita” il Cristo ed a lui conduce, allo stesso modo L’Affaire, al di là e più in alto di ogni denuncia civile, è ciò che “resuscita” l’uomo Moro prima della sua monumentazione a «grande statista». Il gioco di specchi, che coinvolge Sciascia e France, il narratore dell’Affaire e Elio Lamia, potrebbe diventare vertiginoso: «libertino, passionale tollerante, curioso, saggio che non rinnega la follia» (e non potrebbe forse essere, questo, un ritratto perfetto di Sciascia stesso?) Elio Lamia, ricorda: «contro il procuratore – e lo storico – che non ricordano»; attraverso questo ricordo «per amore», lo «scettico France e il suo scettico apologo», così come lo scettico Sciascia e il suo scettico pamphlet, «si consegnano all’amore»; aggiunge Sciascia: «forse svagatamente: ma spesso gli scrittori non sanno quel che si fanno».49

Sciascia, però sa, e perfettamente, “quel che si fa”: L’Affaire vuole restituire Moro nella sua concretezza di uomo e di creatura tremante di fronte all’enigma della morte (e della vita), e potrebbe essere letto come protesta contro la retorica che volatilizza la realtà. Così, con ironia amara e risentita, nell’Affaire, commenta la reazione all’«annuncio tremendo» delle Brigate Rosse che dichiarano di concludere la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza»:

«Tutta la nostra attenzione» dichiara il direttore del giornale democristiano […] è concentrata sul gerundio». C’è da dubitare che una concentrazione sul gerundio sia mai valsa e possa mai valere a salvare una vita: ma ormai siamo nel surreale. Pieno di speranza, il gerundio sale come un palloncino all’idrogeno: fluttua tra le direzioni dei partiti, le redazioni dei giornali, la radio, la televisione, i discorsi della gente. […] Un buon terzo della popolazione italiana si chiede che cosa sia questo gerundio cui ci si affida per salvare la vita di Moro. […] La vita e la morte di Aldo Moro – la vita o la morte – perdono di realtà: sono presenti soltanto in un gerundio, sono soltanto un gerundio presente. (Affaire, pp. 506-507)

O ancora e meglio, lo si potrebbe leggere come una denuncia contro l’astratto dei principi di fronte alla concretezza della vita umana. L’Affaire è scritto anche per ricordare – non solo ai «cattolici che governano lo stato», ma a tutti e a ognuno – che «la salvezza della vita umana innocente […] è principio superiore ad ogni altro» (Affaire, pp. 490-491):

Moro pensava che lo scambio fosse da accettare «realisticamente», cioè per quella forza che ha la realtà di rendere possibili e lecite le cose che astrattamente non sono possibili e non sono lecite. E anche se non tutte le cose, almeno quelle in cui la vita umana è in giuoco. Una vita umana contro astratti principi: e può un cristiano esitare nella scelta? (Affaire, p. 453)

La verità ultima del libro, allora, è una verità raggiunta attraverso la ragione, ma che affonda le sue radici in un’intuizione morale, in un riconoscimento pre-logico e pre-razionale anticipato antifrasticamente dalla citazione iniziale di Canetti («La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”»), e ipostatizzato nel “debole parere” di Fra Cristoforo (Manzoni, ancora), ovvero che «non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate» (Affaire, p. 491); perché, come recita la frase «del più sublime laicismo» di Montaigne che sarà al cuore di La sentenza memorabile, «dopotutto, è un mettere le proprie congetture a ben alto prezzo, il volere, per esse, far arrostire vivo un uomo».50 La verità pre-razionale dell’Affaire, allora, è la verità di un incontro “candido” con l’altro-creatura e l’amore e la pietà che a questo altro sono sempre dovute. Con una sola precisazione, ma fondamentale: Sciascia, lo si è visto, è alieno da ogni astrazione derealizzante e questo altro-creatura è innanzi tutto un corpo, è vita di e attraverso il corpo. Così era del resto, lo ha notato Massimo Onofri, nel Candido, dove la «religione naturale» del protagonista postulava che «la verità sta nei corpi e la menzogna nell’anima, quell’anima su cui si fondano tutte le ideologie, tutti i compromessi».51 Con la sua visione pre-ideologica che lo rende «incapace di comprendere e giustificare i compromessi, se non addirittura le collusioni, e le concessioni del partito alle forze della conservazione»,52 Candido è quindi il perfetto opposto del Moro statista e rappresenta l’utopia di una politica “felice” che «si risolve in una sorta di esaltazione della vita»: essere comunista, per Candido, è «un fatto di natura», è qualcosa che ha «a che fare con l’amore, anche col fare all’amore».53 Ma ancor prima, nella Morte dell’inquisitore (1964), l’eretico fra Diego aveva mostrato che la vita per Sciascia – anche da un punto di vista cristiano – coincide (o dovrebbe coincidere) con la vita del corpo: «A che dunque disse il Profeta: Nolo mortem peccatoris, sed tu magis convertatur, et vivat? – E rispondendo il teatino che il profeta intendeva la vita spirituale e non quella corporale, fra Diego disse – Dunque Dio è ingiusto».54 Fatte salve le macroscopiche differenze – e al di là di esse –, Candido, l’eretico Fra Diego e Moro sono innanzi tutto corpi-vita, il primo libero e felice, i secondi imprigionati e costretti alla morte. A tutti, Sciascia rivolge la medesima attenzione rammemorante, lo stesso sguardo pietoso. Il paradosso, forse, è che questo incontro-riconoscimento tra creature avvenga, nell’Affaire, non tra Moro e i suoi «amici delle ore liete», ma tra Moro e i suoi carcerieri. È, scrive Sciascia, «il momento più alto» toccato dalla tragedia:

In una sua lettera – quella del 29 aprile – Moro ad un certo punto dirà: «La pietà di chi mi recava la lettera (dei familiari, pubblicata da un giornale) ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna (da parte della Democrazia Cristiana: nel non voler trattare)». E direi che è il momento più alto, più cristianamente alto, toccato dalla tragedia. (Affaire, pp. 487-488)

La parola è stata pronunciata – quella parola che è il rovescio della «spaventosa parola» potere; ed è: «pietà». L’Affaire forse ancor più che altri libri dell’autore, è tutto «illuminato dalla ragione e dalla pietà»:55 a partire dalla citazione in esergo di Canetti e dalla rievocazione iniziale di un proustiano «tempo ritrovato» con la delicata «fosforescenza smeraldina» (Affaire, p. 423) delle lucciole delicatamente tenute sul palmo (quelle lucciole che sono come «reliquia o memoria di luce nella spaventosa oscurità»; ibidem); per continuare, naturalmente, con il commosso ricordo di Pasolini, «fraterno e lontano» e «ormai fuori del tempo» (Affaire, p. 424), fino alle pagine finali, in cui l’autore interpreta la telefonata del giovane brigatista a Franco Tritto proprio sotto il segno di una forse involontaria, ma evidente e ineliminabile umana pietà: «che cosa trattiene dunque il brigatista a quella telefonata, se non l’adempimento di un dovere che nasce dalla militanza ma sconfina ormai nell’umana pietà?» (Affaire, p. 513). E forse, davvero, qui la deduzione di Sciascia si fa meno cogente, e l’autore proietta il suo stesso sentimento sul suo “personaggio”. Ma la pietà dovuta alla creatura-Moro, e in un certo senso agli stessi brigatisti, non porta certo ad una responsabilità dimidiata dei singoli attori coinvolti, né, tanto meno, ad un processo assolutorio: Moro, annota Sciascia, conosceva «il segreto italiano e cattolico di disperdere il nuovo nel vecchio», aveva una contezza «tutta in negativo, in negatività, della natura umana». E con fermezza: «il che gli era al tempo stesso afflizione ed arma. Arma usata con dolore: visibilmente. Ma usata» (Affaire, p. 441, corsivo mio). E ancor più nettamente, a chiudere l’episodio dell’ultima telefonata: «forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento di una fortezza. E spero che lo devasti» (Affaire, p. 513).

E tuttavia, mi pare che questo sia un nodo centrale, la creaturalità di Moro è visibile – l’operazione di «filologia morale» dell’Affaire è lì a dimostrarlo – solo attraverso la scrittura. L’operazione dello scrittore-detective che decifra le lettere di Moro, che ne porta a superficie la coerenza, diventa allora per Sciascia, e pienamente, gesto sacro; non solo restituzione (di Moro a sé stesso) e ricompensa, ma salvezza. Come già si era visto riguardo al ribaltamento del rapporto tra realtà e finzione, anche qui Sciascia – il laicissimo Sciascia56 – fa un passo in più, o in direzione diversa, rispetto al modello Manzoni. Se, infatti, al suo crudo nocciolo, il riproporre «a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti» della Storia ha come scopo renderle «meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle»,57 Sciascia aggiunge un di più di fede nella funzione della letteratura (che corrisponde, è chiaro, ad un di meno di fede, ad uno scetticismo se non ad una chiara negazione nella e della ricompensa oltremondana). Il procedimento della «microstoria», che Sciascia aveva praticato con profitto almeno da La morte dell’inquisitore (che aveva un modello lontano, Manzoni, e un esempio recente e formalizzante in Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, del 1976),58 si configurava quindi come pratica di una riscrittura a vocazione ermeneutica; la letteratura diventava «la più assoluta forma che la verità possa assumere», ma questa verità della letteratura (a stabilire una prima e non di poco conto differenza con le prove quasi coeve di Ginzburg e dei sodali dei «Quaderni storici») è «assoluta» (anche) perché è sì scoperta dalla ragione, ma è fuori del tempo: è innanzi tutto una verità (e un’esigenza) morale. L’immagine di un Moro tutto impegnato a ripudiare la vanità del potere passato rinvia, come ha visto Mario Barenghi, al «pessimismo storico del Manzoni tragediografo, al lirico cantore di Napoleone esule e morente, inteso a celebrare i grandi caduti nella polvere solo a patto di una suprema consapevolezza riguardo alla vanagloria terrena»;59 vale a dire, nella lettura di Borgese, all’apice della poetica manzoniana: come l’Innominato, Moro «ha creduto alla forza e si è accorto della sua vanità»;60 Sciascia, come Manzoni, coglie il suo personaggio nel momento «del trapasso dall’uno – si potrebbe dire – all’altro mondo».61 È, in Manzoni come – forse paradossalmente – in Sciascia, una verità «cristianissima».62 Con, però, una differenza fondamentale: se per il Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica, la religione era l’unica e vera fonte della morale, per Sciascia il riconoscimento di una morale possibile avviene grazie alla letteratura. Se, come ha scritto Ambroise, nel ridare vita e senso alle lettere di Moro, «Sciascia sembra dire, non che “lo stile è l’uomo stesso”, ma che lo scritto è l’anima stessa»,63 è la letteratura come riscrittura interpretante e non, manzonianamente, la religione, ciò che rivela «l’uomo all’uomo».64

Note

1 L. Sciascia, D. Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Milano, Sperling & Kupfler, 1981, p. 45.

2 Cfr. B. Pischedda, Scrittori polemisti, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 104.

3 Cfr. G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2018.

4 Così Pasolini sulle Parrocchie di Regalpetra: «la ricerca documentaria e addirittura la denuncia si concretano in forme ipotattiche, sia pure semplici e lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile razionalmente […] ma anche squisitamente, sopravvivendo in tale saggismo il tipo stilistico della prosa d’arte, del capitolo». P.P. Pasolini, La confusione degli stili, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, I, pp. 1070-1088: p. 1082.

5 L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, in Id., Opere II, a cura di P. Squillacioti, Milano, Adelphi, 2014, p. 47.

6 B. Pischedda, Scrittori polemisti, cit., p. 106. Similmente, anche Enrico Testa indicava in Sciascia il campione della «tendenza verso una lingua narrativa in cui riemergono sia la sapienza linguistica del letterato italiano che tutta la ricchezza delle formule retoriche della tradizione». E. Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Torino, Einaudi, 1997, p. 329.

7 Sulla «scrittura-palinsesto» di Sciascia si veda G. Giudice, Le citazioni in Leonardo Sciascia, in «Belfagor», XLVI, 3, 1991, p. 330.

8 L. Sciascia, L’Affaire Moro, in Id., Opere II, cit., p. 494. D’ora in poi Affaire. Si consideri anche ciò che Sciascia stesso afferma nell’intervista a Giuseppe Quatriglio, in «Giornale di Sicilia», 2 luglio 1978, p. 3: «Sul caso Moro scriverò […] per esprimere le mie reazioni a quei fatti e per coglierne i nodi direi più drammatici, più pirandelliani. Uno di questi nodi, e secondo me il più importante, è quello di Moro del quale a un certo punto viene detto che non è più se stesso». Ora in Id., Opere II, cit., pp. 1321-1322.

9 In proposito si veda P. Giovannetti, Raccontare senza fatti. I non-eventi di un romanzo che non c’è, in «Todo Modo», VI, 2016, pp. 39-50.

10 G. Benvenuti, «Un solo nome». Manzoni in Sciascia, in «Studium», novembre-dicembre 2017, p. 936.

11 F. Moliterni, Sciascia moderno, Bologna, Pendragon, 2017, p. 21.

12 P. Giovannetti, Raccontare senza fatti, cit., p. 40.

13 M. Onofri, Storia di Sciascia [1994], Bari, Laterza, 2004, p. 213.

14 P. Giovannetti, Raccontare senza fatti, cit., p. 40.

15 L. Sciascia, Ora scrivo di Moro, un uomo che credeva nella dignità umana, intervista a cura di R. Ciumi, in «Corriere della Sera», 7 giugno 1978, p. 1, ora in Id., Opere II, cit., p. 1321.

16 Così in La Sicilia come metafora: «Dalla scrittura-inganno quale era per il contadino e quale è stata per me stesso, sono arrivato alla scrittura-verità, e mi sono convinto che, se la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche rendendola più oscura, per come la realtà stessa è».

17 L. Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, in Id., Opere II, cit., p. 279.

18 Cit. in L. Sciascia, Opere II, cit., p. 1328.

19 A. Manzoni, Storia della colonna infame, a cura di G. Vigorelli, Milano, Centro nazionale di studi manzoniani, 2002, p. 225.

20 P. Frare, La scrittura dell’inquietudine. Saggio su Alessandro Manzoni, Firenze, Olschki, 2006, pp. 80-81.

21 «Rileggo, dopo tanti anni, Armance. È il libro di Stendhal che ho letto solo due volte […]. Eppure è un bel libro, e molto stendhaliano. Forse me ne ha allontanato la costruzione: equilibrata e direi convenzionale, senza quelle imperfezioni e distrazioni, senza quel senso del non finito, che nelle altre cose di Stendhal immettono il lettore in un cerchio di confidenza, di complicità». L. Sciascia, Nero su nero, in Id., Opere II, cit., p. 1009. D’ora in poi NsN.

22 L. Sciascia, La scomparsa di Majorana, in Id., Opere II, cit., p. 288.

23 G. Benvenuti, «Un solo nome», cit., pp. 942, 941.

24 Così recitava la quarta di copertina, probabilmente scritta con il concorso di Sciascia stesso di La strega e il capitano: «Costruire finzioni è uno fra i compiti dello scrittore, ma […] appartiene alla ricchezza del mestiere di scrivere farsi umili glossatori di documenti e ricercatori della verità, quando le finzioni siano ammesse e fomentate dagli uomini di toga e di potere, sulla pelle della gente».

25 C. Ginzburg, Postfazione a Natalie Zamon Davis, «Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento», in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 298-299.

26 C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Milano, Mursia, 1974, p. 235.

27 «Il cavaliere Charles Auguste Dupin, l’investigatore di Poe, poneva a precetto di ogni investigazione la capacità di identificarsi, di immedesimarsi. Precetto assolutamente valido, anche al di fuori di quel genere letterario denominato “poliziesco”, nella pratica» (Affaire, p. 446).

28 M. de Montaigne, Dell’educazione dei fanciulli, in Id., Saggi, a cura di F. Garavini e A. Touron, Milano, Bompiani, 2012, p. 265.

29 E già in L’ordine delle somiglianze del 1967 (poi raccolto in Cruciverba), del resto, Sciascia aveva riconosciuto nel pensiero della morte uno dei caratteri precipui dei siciliani: i siciliani sono «sensuali avidi violenti, tesi al possesso della donna e della roba, ma in ogni loro pensiero è annidata accettata vagheggiata la morte». L. Sciascia, L’ordine delle somiglianze, in Id., Cruciverba, Opere 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2004, pp. 989-990.

30 «Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura c’è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, se pure molecolari, trovano necessità – e quindi spiegazione – nel tutto; e il tutto nelle parti» (Affaire, p. 438).

31 Si veda M. Porro, Accenni eraclitei nell’ontologia di C. E. Gadda, in «Edinburg Journal of Gadda Studies».

32 A.N. Whitehead, Processo e realtà. Saggio di cosmologia, trad. it. di L. Vanzago, Milano, Bompiani, 2019, p. 273.

33 L. Vanzago, Introduzione a A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., p. 41.

34 Ivi, p. 16.

35 L. Sciascia, Dalla parte degli infedeli, in Id., Opere II, cit., p. 562.

36 C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 238.

37 Così, assai efficacemente, commenta Onofri: «colpisce particolarmente l’ingenuo lettore […] il fatto che, dopo un libro di tale chiarezza e intensità, la classe politica che gestì il caso Moro non avesse sentito l’imperativo di dimettersi in blocco. Perché delle due, l’una: o Sciascia diceva delle inoppugnabili verità, irrevocabilmente accusando quegli uomini di aver in qualche modo voluto la morte di Moro […], o Sciascia avanzava delle incredibili menzogne, da scatenare in quegli stessi uomini […] un’orgogliosa e decisa reazione, un’altrettanto puntuale e plausibile ricostruzione dei fatti: cosa che non fu». M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., pp. 212-213.

38 Cfr. B. Pischedda, Scrittori polemisti, cit., p. 114.

39 Nell’intervista del dicembre 1978, ovvero dopo la scoperta del covo delle BR di via Monte Nevoso e del dattiloscritto del Memoriale, Sciascia così si esprime: «Da quello che è venuto fuori fino a questo momento sul caso Moro e dalle carte che sono state trovate dopo la pubblicazione dell’«Affaire Moro» non credo che io abbia nulla da cambiare nel mio libro. Tutto lo comprova. Così come l’ho scritto. «Una cortina di stupidità per esorcizzare la paura», intervista di A. Calaciura, in «Giornale di Sicilia», 3 dicembre 1978, p. 3. Cit. in L. Sciascia, Opere II, cit., p. 1329.

40 Così affermava Sciascia nell’intervista a Tony Zermo: «comincio sempre i miei lavori con una frase emblematica, che è un po’ il simbolo-guida di ciò che voglio scrivere». Cit. in L. Sciascia, Opere II, cit., p. 1324.

41 Ivi, p. 1324.

42 L. Sciascia, Verismo e fotografia, in Id., Opere 1971-1983, cit., p. 1127.

43 C.A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno. Verga, Capuana, De Roberto Pirandello, Tomasi di Lampedusa Sciascia Consolo Camilleri, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 205.

44 Cfr. F. Moliterni, Sciascia moderno, cit.

45 «Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati». L. Sciascia, Opere II, cit., p. 1272.

46 F. Moliterni, Sciascia moderno, cit., p. 26.

47 C.E. Gadda, Apologia manzoniana, in Id., Saggi giornali favole I, Milano, Garzanti, 1991, p. 680 (corsivi miei).

48 In proposito si veda C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit.

49 L. Sciascia, Introduzione a A. France, Il procuratore della Giudea, in Id., Opere 1984-1989, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2002, p. 1317.

50 L. Sciascia, La sentenza memorabile, in Id., Opere II, cit., p. 678.

51 M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., p. 206.

52 Ivi, p. 207.

53 L. Sciascia, Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, in Id., Opere I, a cura di P. Squillacioti, Milano, Adelphi, 2012, p. 997.

54 L. Sciascia, Morte dell’inquisitore, in Id., Opere II, cit., p. 225.

55 L. Sciascia, Manzoni e il linciaggio del Prina, in Id., Opere I, cit., p. 711.

56 C’è, ha scritto giustamente Bruno Pischedda, «un nucleo di laicità corrosiva, un tono scettico e sdegnosamente composto nell’affrontare le cose del mondo, davvero inseparabile dalla figura di Sciascia» che si giustappone, senza risolversi, ad una pasoliniana «attitudine vaticinante». B. Pischedda, Scrittori polemisti, cit, p. 117.

57 Cfr. A. Manzoni, Storia della colonna infame, cit.

58 È, del resto, Carlo Ginzburg stesso a ritrovare, nelle pagine manzoniane, «una teorizzazione della microstoria e dell’uso sistematico di nuove fonti documentarie». C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit., p. 307.

59 B. Pischedda, Scrittori polemisti, cit., p. 124.

60 G.A. Borgese, Lezioni di estetica. Tenute dal Chiariss. Prof. G. A. Borgese raccolte a cura di M. Gorra. Posizioni verso il Croce. Posizioni verso il Manzoni, Milano, Tipo-litografia Mariani, 1931, p. 62.

61 Ibidem.

62 B. Pischedda, Scrittori polemisti, cit., p. 124.

63 C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 239.

64 Cfr. A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di G. De Rienzo, Milano, Mondadori, 1997, p. 14.