Sporcarsi di gesso
Il lavoro degli insegnanti
nel racconto di scuola,
da Edmondo de Amicis a Mario FillioleyBarbara Distefano
«Ama il tuo maestro, perché appartiene a quella grande famiglia di cinquantamila insegnanti elementari, sparsi per tutta Italia, i quali sono […] i lavoratori mal riconosciuti e mal ricompensati che preparano al nostro paese un popolo migliore del presente».1 Il mittente di questa raccomandazione è un genitore, il destinatario della lettera si chiama Enrico Bottini, l’oggetto della predica dista più di un secolo dall’ormai consolidato conflitto insegnanti-genitori, dalla violenza nelle aule, dalle ricorrenti denigrazioni mediatiche dei professori e dalle varie lettere in difesa della professoressa; e su queste distanze e sui loro sintomi letterari si intende riflettere con quanto segue. Quella riportata fra virgolette è una delle tante apologie del lavoro dei docenti disseminate nel libro Cuore, l’ipotesto2 che detta il discorso egemonico sui maestri e costruisce il modello di scuola nell’Italia postunitaria. Com’è noto, dallo scrittore di Oneglia si può far partire la storia del racconto di scuola in forma diaristica, genere rivitalizzato negli anni Ottanta proprio da Starnone e decisamente produttivo ai nostri giorni.
In questo contributo, tuttavia, si riconduce alle lettere del padre di Enrico l’affermarsi di una letteratura non soltanto di argomento scolastico, ma propriamente apologetica del lavoro degli insegnanti, che oggi si presenta come un fenomeno editoriale estremamente vivace nel nostro paese. Una produzione che all’epoca difende il maestro e i supplenti dal riso eretico e minoritario di Franti, e che oggi si accorda senza troppe sfasature con la presse missionaire: definizione di Jean-Claude Milner per indicare la linea editoriale pro-insegnanti di certi quotidiani, come i francesi «Le Monde» e «Libération».3
2. Accordi e disaccordi
Nelle epistole firmate dal Signor Bottini senior, Domenico Starnone legge le peggiori sviolinate del romanzo più celebre di Edmondo De Amicis.4 E in effetti, tendendo all’occultazione dei conflitti e all’esaltazione ruffiana del corpo docente della neonata nazione, Cuore contiene solo suggerimenti timidi e velati sulle cause dei malumori e degli sfoghi di rabbia della categoria magistrale di allora, che vengono abbozzate sommariamente, come i lineamenti del personaggio di Franti. Ma il testo esce dalla stessa penna che quelle esistenze umiliate e sballottate e quegli stipendi da fame – denunciati anche dal Collodi di Occhi e nasi – li addita di pari passo, con il Romanzo d’un maestro.5
Ai tempi di De Amicis, il bombardamento mediatico sulla miserabile condizione dei maestri, ancora mitizzati dalla retorica dello stato unitario piuttosto che denigrati, ma già vittime di politiche scolastiche ostili, è una precoce realtà. Lo scrittore è perciò «protagonista di una possibile era preistorica delle comunicazioni di massa», per rubare le parole ad Antonio Faeti.6 Ed è con il piglio del giornalista che l’autore del Romanzo d’un maestro racconta di vite professionali segnate da lavoro sottopagato e stipendi arretrati, prepotenze di sindaci e visite ispettoriali, indebitamenti ed esaurimenti nervosi, crolli di entusiasmi didattici e ambizioni letterarie fallite, perenni trasferimenti di maestri e martellanti calunnie di maestrine. Alla genesi del romanzo concorrono certamente casi di cronaca come quello di Italia Donati,7 maestra elementare in un piccolo borgo toscano, suicida per l’incapacità di reggere alle maldicenze diffuse sul proprio conto e testimone di un periodo storico che mette sistematicamente alla gogna la lavoratrice nubile.
Se i testi letterari, dunque, non vanno letti come documenti, il Romanzo d’un maestro è un esempio di letteratura nata dai documenti scolastici. Il reporter che è in De Amicis saccheggia abbondantemente i giornali magistrali, attinge alla fonte di decreti, leggi e circolari ministeriali, si premura di fornire numeri come quello dei «cinquantamila insegnanti elementari» citati in apertura. Alla letteratura finisce per assegnare, quindi, il compito di diffondere dati, cioè una funzione analoga a quella assunta dalle nuove narrazioni sulla scuola: includendo in questo storytelling contemporaneo tanto il lamento “social” dei professori deportati, tanto i prodotti di un vero mercato editoriale. L’obiettivo è quello di informare, l’effetto è quello di puntare sull’emotività, il risultato quello di spiegare, attraverso il ricorso alle storie individuali, il funzionamento di decreti legge altrimenti oscuri.
Ma torniamo per un attimo a rimarcare le distanze. Ai tempi di De Amicis, quell’alunno «tutto sgualcito, strappato, sporco»,8 a cui Umberto Eco ha dedicato delle pagine indimenticabili del Diario minimo, è il solo che si permette di ridere della scuola. L’arrivo del supplente di turno è l’unica occasione in cui l’ilarità irriverente di Franti viene per un attimo contagiata al resto dei compagni di classe. Oggi del maestro ridono tutti i non-missionari, tanto sul fronte conservatore quanto su quello progressista, e appare valida la tesi di Roberto Sandrucci: il registro comico è quello che vende maggiormente sul mercato e nei salotti italiani. Sghignazzare davanti alla scuola diventa una strategia politica per scansare la discussione seria sul riformismo scolastico, e per destituire quello che, prima di essere un’istituzione, è un sistema valoriale.
Guardando ai prodotti dell’industria cinematografica, sembra dunque che in Italia non sia possibile prendere la via dei cugini francesi e fare film come Être et avoir e Entre les murs, e che non si riesca più ritornare alla serietà di uno sceneggiato come il Diario di un maestro di Vittorio De Seta;9 ci si può chiedere, certo, in quale misura questo genere di prodotti sia incoraggiato e trascinato dalla tradizione e dal successo della commedia all’italiana. Mentre un discorso sull’uso del comico nelle rappresentazioni letterarie degli insegnanti dovrebbe forse partire dall’irruzione di personaggi buffi e derisi nel romanzo modernista,10 e sicuramente non può eludere quel punto di non ritorno che è Il maestro di Vigevano, il crudele e grottesco anti-Cuore di Lucio Mastronardi: primo sintomo nella letteratura italiana di un’irreparabile perdita dell’aureola del “maestro”, ormai abbassato a zimbello del villaggio da una società vendutasi ad altri, ruggenti pseudo-valori; e al tempo stesso, inaugurazione di una tendenza all’autoficion terapeutica che è ravvisabile nelle scritture di parecchi insegnanti-scrittori contemporanei, i quali sembrano deporre nella scrittura le speranze di un riconoscimento sociale, e che spesso la praticano come via di fuga intellettuale da un contesto lavorativo frustrante.
Ma restiamo per il momento nello spazio extraletterario. Anche la rassegna stampa più sommaria può rendere conto del dato che, negli ultimi decenni, la professione docente in Italia è stata sistematicamente bersagliata, in un senso o in quello contrario. Il più delle volte, tanto su occhielli, titoli e sommari delle principali testate italiane, quanto nella comunicazione politica, il mestiere di insegnare viene fatto prigioniero di un discorso egemonico che tende a imporre il topos del professore fannullone, del dipendente statale pigro e improduttivo, o peggio, del forgiatore di generazioni di somari a sua volta somaro, se non addirittura del meridionale privo di cultura settentrionale. Per una sintesi di tutti i luoghi comuni sull’argomento, si prenda l’articolo pubblicato in appendice a Registro di classe di Sandro Onofri, autore di una scelta insolita che lo ha portato ad abbandonare la professione giornalistica per dedicarsi all’insegnamento:
Il lavoro degli insegnanti è dunque un tema di discussione pubblica, che tende a passare per osmosi dai giornali agli scrittori. Una prova osservabile dell’accordo fra letteratura e media è la stagionalità con cui si confezionano le notizie da una parte e si lanciano le novità editoriali dall’altra, a ritmo generalmente scandito dalle campanelle dell’apertura dell’anno scolastico e degli esami di maturità. Il disaccordo risiede nel discorso di fondo di molti nuovi racconti di scuola: perché se da un lato, come si diceva, ciò che mette in cattiva luce il professore di turno costituisce spessissimo un ghiotto criterio di notiziabilità, scrivere di docenti appassionati ed eroici, di contro, pare una buona carta per candidare alla pubblicazione un romanzo nel cassetto.
3. Contare gli eroi
Le narrazioni legate alla scuola sono un vero e proprio trend del mercato editoriale italiano, che forse, accogliendo il tentativo di sociologia letteraria comparativa di Giulio Iacoli, può trovare un corrispettivo solo in Francia:14 altro paese alle prese con la crisi del sistema di istruzione e i conflitti fra i governi e la categoria degli insegnanti. Sul fronte transalpino si riscontrano, infatti, casi di scrittori-professori come quelli di Daniel Pennac e Annie Ernaux; e gli anni Zero hanno visto il lancio di testi quali La classe di Francis Bégaudeau e L’ultima ora di Christophe Dufossé – entrambi tradotti per Einaudi – o di Homère et Shakespeare en banlieu di Augustin d’Humières, pubblicato in italiano da Piemme con il titolo I figli dell’ultimo banco.
Mettendo da parte gli aspetti qualitativi, il fenomeno meriterebbe uno studio quantitativo apposito per quanto riguarda l’Italia. Tra i tentativi di censimento a disposizione vanno ricordati quelli di Giulio Iacoli appunto, che nel 2012 si è soffermato sull’analisi di una serie di scritture dei tempi della Gelmini,15 e lo strumento bibliografico offerto nel 2014 da Cinzia Ruozzi.16 Senza alcuna pretesa di esaustività, si possono qui citare alcune novità editoriali della Buona Scuola, semplificando in questa dicitura tutto l’arco temporale post-Gelmini, dunque anche il periodo tecnicamente anteriore alla legge 107/2015 e quello corrente della Buona Scuola-bis. Una prima occhiata ai dati raccolti permette di osservare che il 2013, anno di transizione fra i ministeri Profumo e Carrozza, è un anno tanto politicamente instabile quanto denso di titoli: nel 2013 escono, per esempio, Vento forte fra i banchi di Marco Lodoli, Non so niente di te di Paola Mastrocola, Pronti a tutte le partenze di Marco Balzano, L’elogio del ripetente di Eraldo Affinati, Per sempre carnivori di Cosimo Argentina. Dell’anno successivo sono La scuola non serve a niente di Andrea Bajani e I bambini pensano in grande di Franco Lorenzoni, mentre il 2015 vede il ritorno di Giusi Marchetta con Lettori si cresce e Tranquillo prof, la richiamo io di Christian Raimo. L’elenco può proseguire con Primi giorni di scuola di Marco Balzano pubblicati da Sellerio, e con i due diari che si analizzeranno più avanti, rispettivamente del 2015 e del 2016: Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico di Giovanni Accardo e Lotta di classe. Diario di un anno da insegnante in prova di Mario Fillioley. Dal 2017, infine, si possono isolare due titoli utili al nostro discorso: ossia Il prof. fannullone di Chiarà Foà e Matteo Saudino e Il prof. terrone di Salvatore Mugno.
Prima di passare ai testi selezionati, interessa soffermarsi su alcuni elementi precisi. Innanzitutto, nel nostro elenco sommario va notata la presenza di autori ormai specializzati nel genere. E d’altra parte va sottolineato che molti dei nuovi racconti di scuola sono opera di scrittori esordienti. In secondo luogo, sembra di dover ribadire quanto lamentava Lidia De Federicis quindici anni fa: la mancanza di un romanzo della scuola equivalente a ciò che il Memoriale di Volponi è per il lavoro in fabbrica, «un romanzo che abbia toccato la specifica malinconia e aporia del riformismo scolastico».17
Assunta questa assenza di una grande narrazione, i titoli riconducibili alla tematica scolastica raccolti si presentano dal punto di vista contenutistico come «una pluralità di racconti che confliggono», e da quello formale con una «varietà di scritture dell’io».18 Ci sembra, cioè, che i nuovi racconti di scuola si allineino perfettamente alle narrazioni dell’ipermodernità così come le analizza Raffaele Donnarumma: non affreschi generazionali, ma sintomi di un nuovo realismo, in un certo senso passivo rispetto ai media, che sacrifica ogni pretenziosa resa della realtà per rispondere a un bisogno di storie vere e individuali. Se, dunque, l’epoca della Buona Scuola si sminuzza in una ridondanza di diari di anni di prova, si può dire che ciò avviene perché «sempre sull’orlo di essere ridotto a fantasma dall’invadenza mediatica […], l’empirico si difende facendo la voce grossa».19
Questi racconti rappresentano, così, delle «scritture di resistenza», in lotta con il discorso egemonico imposto dalla politica e dalla cronaca, e si presentano innanzitutto nelle vesti di socially simbolic acts.20 Un testo demistificante come Per sempre carnivori, che racconta le vite tragicomiche di insegnanti un po’ alcolisti e un po’ bisognosi di notti brave, rappresenta una nota stonata. Ma la tendenza generale è abbastanza unisona e consiste nella mitizzazione dell’eccezione eroica, dell’insegnante encomiabile, oscurato dal ritornello mediatico. Basta leggere il risvolto di copertina del romanzo d’esordio di Giusi Marchetta, L’iguana non vuole, ancora ascrivibile all’era Gelmini:
In definitiva, riprendendo il discorso di Donnarumma, sembra che la rinascita del romanzo di scuola, avviata da Ex cattedra di Starnone, coincida con quella fase di un «nuovo impegno» e di rinnovato interesse per i temi pubblici che caratterizza gli anni Ottanta. La scuola e il lavoro precario del professore, dunque, vanno a braccetto con il lavoro precario in generale: sono temi che alimentano le vendite e attirano i lettori, suggerendo una nuova fiducia nel potere dei racconti di modificare la realtà, nonché un tipo di scrittore «nuovo rispetto all’intellettuale postmo-derno: tanto dedito alla partecipazione civile e alla denuncia, quanto quello era estraneo o scettico o polemico di fronte a un impegno che ormai era finito».21
Se si pensa al numero di supplenti disseminati nei due romanzi di De Amicis citati, tuttavia, ci si rende conto di come, all’interno del racconto di scuola, quello del precariato non sia certamente un tema nuovo. Come spiega Cinzia Ruozzi, «il leitmotiv della precarietà accompagna per più di un secolo la storia, la cronaca e la letteratura di scuola».22 Elemento in più per concludere che questi nuovi racconti di scuola non sono né una mera operazione commerciale, né il frutto di una nevrosi collettiva della categoria degli insegnanti, ma piuttosto l’esito nella lunga durata di una tradizione letteraria nata insieme all’Italia.
4. Il lavoro parallelo della letteratura
C’è un altro pattern, ricavabile dai censimenti dei racconti di scuola degli ultimi anni, che non abbiamo ancora considerato: la maggior parte di essi è attribuibile ad autori che esercitano contemporaneamente la professione dell’insegnamento e quella della scrittura. La narrazione a tema scolastico è, cioè, perlopiù opera di uno scrittore-professore, che di quello che racconta ha fatto esperienza diretta e che generalmente può esibire una patente di specializzazione sull’argomento (pensiamo per esempio a Marco Lodoli).
Nella storia dell’Italia unita, i casi di scrittori-professori sono un elenco tanto lungo quanto oscurato. Ci si può qui limitare a ricordare le esperienze, a vario titolo didattiche, di autori come Parini, Foscolo e Carducci, o più avanti Pavese, Pasolini, Fortini, Caproni e Manganelli; per non parlare dei docenti meridionali Pirandello, Brancati, Sciascia, Bufalino e Consolo. Non tutti hanno poi scritto di scuola, e si tratta di un lavoro invisibile per diverse ragioni. Intanto perché, nell’immaginario sociale, l’insegnamento si colloca su un gradino meno prestigioso rispetto alla scrittura letteraria, ritenuto perlopiù di sussistenza o di ripiego, e dunque spesso taciuto dall’autore e liquidato in un rigo biobibliografico dai critici: persino in casi come quello di Gesualdo Bufalino, professore a tempo pieno per tutta la vita, prima del tardivo esordio letterario. Ma lavoro invisibile anche perché inevitabilmente legato all’oralità, e dunque volatile o al limite deperibile. Anche nel caso di uno scrittore-insegnante, la lezione è orale. E forse non è una coincidenza, al di là del fatto che il ruolo del docente di scuola sia socialmente meno prestigioso, che le attività accademiche degli scrittori risultino più studiate del lavoro a scuola. Prolusioni, appunti degli studenti, etc. si conservano decisamente meglio, fatta eccezione di rarità come gli appunti delle lezioni di Cesare Pavese conservati nei quaderni di Fernanda Pivano.
I materiali custoditi negli archivi delle scuole, perciò, rappresentano senza dubbio un patrimonio utile a trovare le tracce concrete di questo lavoro parallelo di molti autori della nostra storia letteraria. Particolarmente interessante può risultare la ricostruzione del loro modo di lavorare con la letteratura stessa, nel caso in cui sia stata questa la disciplina insegnata. Ma per fare un altro esempio, da registri dei compensi, verbali e provvedimenti disciplinari si possono ricavare informazioni sulla condotta degli scrittori entro la scuola fascista, o più in generale sui rapporti con l’autorità scolastica.
Assumendo, comunque, che la scuola sia un centro di ispirazione letteraria, e che nell’atto burocratico scolastico possa persino trovarsi la genesi di un’opera (si pensi alle Cronache scolastiche di Sciascia), occorre chiedersi se le scritture di scuola presentino contrassegni particolari nel caso in cui l’autore eserciti la professione docente.
5. La scuola è sporca
La tendenza a dividersi fra cattedra e calamaio è un mutamento significativo rispetto alle origini: il fondatore del genere del racconto di scuola non era un insegnante. Edmondo De Amicis ha fatto esperienza della scuola nel ruolo di un qualsiasi alunno, perciò, come vedremo, scrive del lavoro dei maestri come può fare un giornalista.
Cuore è in un certo senso un romanzo del lavoro, affollato di «amici operai» e muratorini, che dicono delle fatiche delle scuole serali e delle tragedie degli infortuni sul lavoro, senza però mettere mai in discussione l’ordine sociale o fuoriuscire minimamente dalla retorica interclassista:
L’altra categoria che in Cuore non accenna mai un sorriso è proprio quella dei maestri. Il «malumore» dell’insegnante di Enrico non giunge ancora alle esplosioni di violenza del talora manesco Emilio Ratti,26 protagonista dell’altro romanzo deamicisiano. Ma sin dal primo giorno di scuola, «il maestro non ride mai»;27 e di nuovo, anche quando arrivano la primavera e il buon umore, «il maestro non rideva, perché non ride mai».28
Ci si è molto soffermati sul riso di Franti, da Eco in poi, ma vale la pena leggere bene anche questa assenza di sorriso. Per i ceti dirigenti dell’Italia unita, la scuola è non un posto di lavoro, ma il luogo di lavoro, l’altare di un’ideologia che non può essere messa in discussione. Sebbene restando entro questi limiti, De Amicis prova a radiografare le espressioni seriose dei maestri anche nel suo romanzo più famoso, dove l’insegnante è un eroe costantemente in bilico verso la malattia, un campione di operosità sempre sull’orlo del burnout: così la maestra continua a dimagrire perché secondo la madre «si affanna troppo coi suoi ragazzi»,29 e pure il maestro a un certo punto crolla: «Dal troppo lavorare s’è ammalato. Cinque ore di lezione al giorno, poi un’ora di ginnastica, poi altre due ore di scuola serale, che vuol dire dormir poco, mangiare di scappata e sfiatarsi dalla mattina alla sera: s’è rovinata la salute. Così dice mia madre».30
Si tratta però, all’altezza di Cuore, della somministrazione di un’etica della laboriosità che come si è visto è trasversale a qualsiasi attività e a tutte le professioni, e anzi più pendente verso l’extrascolastico. I maestri fotografati nel diario di Enrico non sono un nitido esercito di operai. L’opera conciliatrice di De Amicis sembra mettere più a fuoco e insistere maggiormente le altre categorie di lavoratori, per cui nelle lettere dell’ingegnere e sul sofà di casa Bottini si fa posto al compagno muratorino, e in generale ai figli dei muratori:
Se il lavoro insudicia e la scuola è sporca, i maestri di De Amicis non sono mai sporchi di gesso. Il romanzo d’un maestro costituisce una narrazione più documentaristica del lavoro scolastico, ma entrambi i romanzi deamicisiani raccontano la quotidianità scolastica aggirando ogni dettaglio concreto sulla lezione. Si pensi alle famose pagine di Franti cacciato dalla scuola: dopo averlo furiosamente strappato dal banco e condotto dal direttore, il maestro rientra in classe e, ancora tremulo di collera, dice ai ragazzi «riprendiamo la lezione».37 Ma il sipario della narrazione si chiude su quella battuta: il lettore può intuire quale sia la condotta abituale dei compagni di Franti, ma non capirà mai che tipo di lezione si tratti.
Difficile anche trovare segni tangibili del lavoro, attributi del mestiere e arnesi come il registro. La celebre «maestrina dalla penna rossa», connotata appunto da un oggetto tipico del corredo scolastico, rappresenta in tal senso una rara eccezione. L’unica traccia di un elaborato scolastico affiora nella visita al maestro del Sig. Bottini senior:
E baciò la pagina.38
Ben altra attenzione tutta la famiglia Bottini dedica agli insegnanti delle scuole speciali, che affrontano un handicap e combattono quotidianamente per attenuarne le conseguenze: maestri di ciechi, di sordomuti, di rachitici. Allora Enrico è ammirato, la mamma pure, persino il maestro, quasi che prima nessuno di loro avesse mai visto un insegnante all’opera. Il lavoro lì c’è, lo sforzo di istruire appare titanico, le tecniche sono visibili e narrabili, i risultati stupefacenti. Pare quasi che raccontare le scuole speciali serva a dire, in controluce, che le scuole normali non funzionano.40
Per un’ipotesi più calzante in questo caso, occorre forse tornare al dato biografico: della vita in mezzo ai banchi, De Amicis conosce solo quello che gli dicono le già martellanti battaglie combattute sui giornali. Egli è un giornalista, non un maestro che scrive di scuola. Dunque, non stupisce che l’istinto sia quello di ricordare l’esistenza di alunni esclusivamente dialettofoni nei villaggi delle alpi piemontesi,42 o la diatriba pedagogica fra i sostenitori del metodo espositivo o di quello interrogativo,43 piuttosto che andare più vicino alla lavagna a impolverarsi di gesso.
7. Il gesso digitale
A differenza di quanto avviene con De Amicis alle origini del genere, la narrazione contemporanea della scuola generalmente affonda dentro la quotidianità didattica. Il fatto che gli autori emergenti siano innanzitutto degli insegnanti è un dato con forti ripercussioni formali sul modo di raccontare la scuola. Anche quando la forma è quella tradizionale del diario, è spesso nella compilazione del registro di classe che va cercata la genesi della scrittura.
Un esempio calzante in questo senso è Un’altra scuola di Giovanni Accardo, che dal punto di vista narrativo si esaurisce nella descrizione minuta della giornata lavorativa del docente e del suo esatto carico didattico. In questo testo, l’annotazione puntigliosa delle attività didattiche sembra proprio debordare direttamente dall’atto burocratico:
Pranzo con un’insalata al bar della scuola.
Alle 14.30 sportello di recupero sull’analisi del testo in quinta: lavoriamo su Nebbia di Pascoli e Città vecchia di Saba. Riempio la lavagna di schemi, dopo faccio scrivere gli studenti.
Alle 16.30 prendo la bici e ritorno a casa.45
Ciò che importa sottolineare a questo punto è la dimensione assunta dal lavoro della letteratura dentro il racconto di scuola. L’io narrante ci informa sempre con puntiglio sull’argomento delle sue lezioni, sia esso Calvino, o il canto VI del Purgatorio o un incontro degli alunni con Andrea Bajani in carne e ossa. Tuttavia, se molto spazio è dedicato alla programmazione mentale della didattica, non è però detto che la lezione possa avere luogo.
Ciò che si racconta del lavoro in cattedra ai tempi della lavagna digitale, in definitiva, è proprio l’impossibilità della lezione. È così che, nel romanzo di Accardo, l’interrogazione su Alcyone si interrompe su «mio padre mi picchia»48 e Frate cipolla si conclude con Matteo che esclama «Berlusconi!» e una risata collettiva.49
Giovanni Accardo, che ha esordito nel 2006 narrando di precarietà con Un anno di corsa, è uno dei tanti docenti meridionali in servizio a Bolzano, un siciliano della provincia di Agrigento. Il suo diario, però, di Sicilia non parla mai e si allinea perfettamente e diligentemente a quella militanza apologetica di cui si è detto in apertura di questo contributo. All’opposto, un continuo andirivieni fra Terni e Siracusa e un incontenibile venir meno alla mitizzazione del lavoro dei professori è Lotta di classe, il diario dell’insegnante in prova Mario Fillioley. Altro docente meridionale, rientrato nel piano di assunzione della Buona Scuola, a cui piace commentare il ritornello della deportazione con il rimando all’articolo 98 della Costituzione e al «servizio della nazione» previsto per i dipendenti pubblici.
Un altro diario, anche questo verosimile, che si dichiara popolato di studenti reali ma inesistenti. La narrazione procede qui per incastri spaziali e temporali, con il sistematico uso del flashback: la scuola di San Gemini è continuamente paragonata all’istituto professionale siciliano di provenienza, l’anno di prova messo in dialogo con l’adolescenza al liceo classico siracusano. E dal grigiore lavorativo, che l’autore pare osservare con un sorriso imperturbabile, affiorano, data dopo data, le psicologie di alunni.
Un merito del testo di Fillioley è senz’altro quello di usare il lavoro dell’insegnante come pretesto per parlare d’altro, e dunque di sporcare la narrazione con questioni più ampie e più grevi, come il razzismo o come l’unità nazionale, di cui il racconto si contamina dai tempi del ragazzo calabrese. Il tutto con una scelta linguistica fortemente marcata in senso regionale e con la leggerezza di un registro comico sapiente:
In effetti io sono indietro anche con tante altre cose, anzi per la verità faccio un po’ tutto a cavolo e ho sempre la coscienza sporca.
Per esempio la bidella mi ama molto per come firmo le circolari, ci sto sì e no dieci secondi perché tanto non leggo niente.51
Siamo, quindi, parecchio lontani dal poterlo incasellare in qualche intento «apologetico», e semmai, addirittura in presenza di auto-smascheramenti del narcisismo di categoria: come quando, all’incontro con i genitori, il docente sente che «è un sogno che si realizza: finalmente qualcuno mi ha dato un pulpito»;54 o come alla fine dell’anno scolastico:
1 E. De Amicis, Cuore [1886], Milano, Feltrinelli, 1993.
2 Sulle vicende di Cuore da “ipotesto” a “intertesto” si veda G. Iacoli, Il lettore inzuccherato. Strati di una ricezione: «Cuore» da De Amicis alle riscritture contemporanee, in L. Dolfi, M.C. Ghidini, A. Pessini, E. Pessini (a cura di), Libri e lettori (tra autori e personaggi. Studi in onore di Mariolina Bertini), Parma, Nuova Editrice Berti, 2017, pp. 383-396.
3 Cfr. J.C. Milner, De l’école, Paris, Seuil, 1984.
4 «Come se si potesse pensare che da una condizione docente di vessazioni continue, di precarietà, di miseria, di fame, fosse possibile tirar fuori qualcosa di diverso dal maestro castigamatti, prono davanti ai potenti, fedele alla linea, ideologo sempre, istruttivo quasi mai, ignorante e pomposo»: D. Starnone, Paura di Franti, in De Amicis, Cuore, cit., p. XVI.
5 A questo romanzo meno noto, pubblicato solo nel 1890, in realtà De Amicis mette mano ben prima di Cuore. Di fatto, lo scrittore interrompe la stesura del Romanzo d’un maestro per le pressioni di Emilio Treves che, con lungimiranza da editore, lo esorta a dedicarsi più massicciamente al futuro best seller. De Amicis ritornerà sulla documentazione raccolta per quel vecchio progetto solo dopo il 1886, anno di pubblicazione del diario di Enrico Bottini.
6 A. Faeti, Letteratura per l’infanzia, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 8.
7 Cfr. E. Catarsi, Il suicidio della maestra Italia Donati, in Id., L’educazione del popolo. Momenti e figure dell’istruzione popolare nell’Italia liberale, Bergamo, Juvenilia, 1985, pp. 103-112.
8 De Amicis, Cuore, cit., p. 67.
9 Cfr. R. Sandrucci, La scuola sotto il segno della commedia. Rappresentazioni della scuola pubblica italiana: studio su sette casi, Pisa, ETS, 2012.
10 Cfr. A. Godioli, Laughter from Realism to Modernism. Misfits and Humorists in Pirandello, Svevo, Palazzeschi, and Gadda, Oxford, Legenda, 2015.
11 Articolo originariamente pubblicato su «L’Unità» e ora in appendice a S. Onofri, Registro di classe, Torino, Einaudi, 2000, p. 77.
12 Cfr. C. Raimo, Tranquillo prof, la richiamo io, Torino, Einaudi, 2015; V. Roghi, Lettera sovversiva, Bari, Laterza, 2017; W. Siti, Bruciare tutto, Milano, Rizzoli, 2017.
13 Cfr. Iacoli, Il lettore inzuccherato, cit.
14 Cfr. G. Iacoli, Scrivere ai tempi della Gelmini, in «Studi culturali», IX, 1, aprile 2012.
15 Ibidem.
16 Cfr. C. Ruozzi, Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento, Torino, Loescher, 2014.
17 L. De Federicis, Il romanzo della scuola, in «Belfagor», LVII, 2, 31 marzo 2002, p. 232.
18 Cfr. R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014.
19 Ivi, p. 127.
20 F. Jameson, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico, trad. it. di L. Sosio, Milano, Garzanti, 1990.
21 Donnarumma, Ipermodernità, cit., p. 203.
22 Ruozzi, Raccontare la scuola, cit., p. 158.
23 De Amicis, Cuore, cit., p. 157.
24 Ivi, p. 83.
25 Ivi, p. 122.
26 A. De Amicis, Il romanzo d’un maestro [1890], a cura di P. Boero, A. Ascenzi, R. Sani, Genova, De Ferrari, 2007, pp. 201-202.
27 De Amicis, Cuore, cit., p. 4.
28 Ivi, p. 138.
29 Ivi, p. 11.
30 Ivi, p. 110.
31 Ivi, p. 45.
32 È possibile ritrovare il motivo della sporcizia anche nel Maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi, dove lo “sporco” sembra il contrassegno del lavoro scolastico, e come tale viene lamentato da Ada, che nelle prime pagine del testo si pena d’aver sposato un maestro, e poco più avanti si sente «sporca, anzi sporchissima».
33 De Amicis, Il romanzo d’un maestro, cit., p. 253.
34 Ivi, p. 286.
35 Ivi, p. 244.
36 Ivi, p. 394.
37 De Amicis, Cuore, cit., p. 67.
38 Ivi, p. 151.
39 Ivi, p. 210.
40 Starnone, Paura di Franti, cit., pp. XVI-XVII.
41 De Amicis, Il romanzo d’un maestro, cit., pp. 71 e 122.
42 De Amicis, Il romanzo d’un maestro, cit., pp. 71 e 122.
43 «Riconobbe subito che per farsi capire dai più piccoli, gli bisognava parlar con loro in dialetto», ivi, p. 53.
44 G. Accardo, Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico, Roma, Ediesse, 2015, p. 243.
45 Ivi, p. 118.
46 Ivi, p. 232.
47 Ivi, p. 100.
48 Ivi, p. 82.
49 Ivi, p. 220.
50 M. Fillioley, Lotta di classe. Diario di un insegnante in prova, Roma, minimumfax, 2016, pp. 18 e 21, corsivi miei.
51 Ivi, p. 154.
52 Ivi, p. 131.
53 Ivi, p. 108.
54 Ivi, p. 124.
55 Ivi, p. 161.
56 Ivi, p. 55.