Sporcarsi di gesso
Il lavoro degli insegnanti
nel racconto di scuola,
da Edmondo de Amicis a Mario Fillioley
Barbara Distefano

1. Cent’anni di apologia

«Ama il tuo maestro, perché appartiene a quella grande famiglia di cinquantamila insegnanti elementari, sparsi per tutta Italia, i quali sono […] i lavoratori mal riconosciuti e mal ricompensati che preparano al nostro paese un popolo migliore del presente».1 Il mittente di questa raccomandazione è un genitore, il destinatario della lettera si chiama Enrico Bottini, l’oggetto della predica dista più di un secolo dall’ormai consolidato conflitto insegnanti-genitori, dalla violenza nelle aule, dalle ricorrenti denigrazioni mediatiche dei professori e dalle varie lettere in difesa della professoressa; e su queste distanze e sui loro sintomi letterari si intende riflettere con quanto segue. Quella riportata fra virgolette è una delle tante apologie del lavoro dei docenti disseminate nel libro Cuore, l’ipotesto2 che detta il discorso egemonico sui maestri e costruisce il modello di scuola nell’Italia postunitaria. Com’è noto, dallo scrittore di Oneglia si può far partire la storia del racconto di scuola in forma diaristica, genere rivitalizzato negli anni Ottanta proprio da Starnone e decisamente produttivo ai nostri giorni.

In questo contributo, tuttavia, si riconduce alle lettere del padre di Enrico l’affermarsi di una letteratura non soltanto di argomento scolastico, ma propriamente apologetica del lavoro degli insegnanti, che oggi si presenta come un fenomeno editoriale estremamente vivace nel nostro paese. Una produzione che all’epoca difende il maestro e i supplenti dal riso eretico e minoritario di Franti, e che oggi si accorda senza troppe sfasature con la presse missionaire: definizione di Jean-Claude Milner per indicare la linea editoriale pro-insegnanti di certi quotidiani, come i francesi «Le Monde» e «Libération».3

2. Accordi e disaccordi

Nelle epistole firmate dal Signor Bottini senior, Domenico Starnone legge le peggiori sviolinate del romanzo più celebre di Edmondo De Amicis.4 E in effetti, tendendo all’occultazione dei conflitti e all’esaltazione ruffiana del corpo docente della neonata nazione, Cuore contiene solo suggerimenti timidi e velati sulle cause dei malumori e degli sfoghi di rabbia della categoria magistrale di allora, che vengono abbozzate sommariamente, come i lineamenti del personaggio di Franti. Ma il testo esce dalla stessa penna che quelle esistenze umiliate e sballottate e quegli stipendi da fame – denunciati anche dal Collodi di Occhi e nasi – li addita di pari passo, con il Romanzo d’un maestro.5

Ai tempi di De Amicis, il bombardamento mediatico sulla miserabile condizione dei maestri, ancora mitizzati dalla retorica dello stato unitario piuttosto che denigrati, ma già vittime di politiche scolastiche ostili, è una precoce realtà. Lo scrittore è perciò «protagonista di una possibile era preistorica delle comunicazioni di massa», per rubare le parole ad Antonio Faeti.6 Ed è con il piglio del giornalista che l’autore del Romanzo d’un maestro racconta di vite professionali segnate da lavoro sottopagato e stipendi arretrati, prepotenze di sindaci e visite ispettoriali, indebitamenti ed esaurimenti nervosi, crolli di entusiasmi didattici e ambizioni letterarie fallite, perenni trasferimenti di maestri e martellanti calunnie di maestrine. Alla genesi del romanzo concorrono certamente casi di cronaca come quello di Italia Donati,7 maestra elementare in un piccolo borgo toscano, suicida per l’incapacità di reggere alle maldicenze diffuse sul proprio conto e testimone di un periodo storico che mette sistematicamente alla gogna la lavoratrice nubile.

Se i testi letterari, dunque, non vanno letti come documenti, il Romanzo d’un maestro è un esempio di letteratura nata dai documenti scolastici. Il reporter che è in De Amicis saccheggia abbondantemente i giornali magistrali, attinge alla fonte di decreti, leggi e circolari ministeriali, si premura di fornire numeri come quello dei «cinquantamila insegnanti elementari» citati in apertura. Alla letteratura finisce per assegnare, quindi, il compito di diffondere dati, cioè una funzione analoga a quella assunta dalle nuove narrazioni sulla scuola: includendo in questo storytelling contemporaneo tanto il lamento “social” dei professori deportati, tanto i prodotti di un vero mercato editoriale. L’obiettivo è quello di informare, l’effetto è quello di puntare sull’emotività, il risultato quello di spiegare, attraverso il ricorso alle storie individuali, il funzionamento di decreti legge altrimenti oscuri.

Ma torniamo per un attimo a rimarcare le distanze. Ai tempi di De Amicis, quell’alunno «tutto sgualcito, strappato, sporco»,8 a cui Umberto Eco ha dedicato delle pagine indimenticabili del Diario minimo, è il solo che si permette di ridere della scuola. L’arrivo del supplente di turno è l’unica occasione in cui l’ilarità irriverente di Franti viene per un attimo contagiata al resto dei compagni di classe. Oggi del maestro ridono tutti i non-missionari, tanto sul fronte conservatore quanto su quello progressista, e appare valida la tesi di Roberto Sandrucci: il registro comico è quello che vende maggiormente sul mercato e nei salotti italiani. Sghignazzare davanti alla scuola diventa una strategia politica per scansare la discussione seria sul riformismo scolastico, e per destituire quello che, prima di essere un’istituzione, è un sistema valoriale.

Guardando ai prodotti dell’industria cinematografica, sembra dunque che in Italia non sia possibile prendere la via dei cugini francesi e fare film come Être et avoir e Entre les murs, e che non si riesca più ritornare alla serietà di uno sceneggiato come il Diario di un maestro di Vittorio De Seta;9 ci si può chiedere, certo, in quale misura questo genere di prodotti sia incoraggiato e trascinato dalla tradizione e dal successo della commedia all’italiana. Mentre un discorso sull’uso del comico nelle rappresentazioni letterarie degli insegnanti dovrebbe forse partire dall’irruzione di personaggi buffi e derisi nel romanzo modernista,10 e sicuramente non può eludere quel punto di non ritorno che è Il maestro di Vigevano, il crudele e grottesco anti-Cuore di Lucio Mastronardi: primo sintomo nella letteratura italiana di un’irreparabile perdita dell’aureola del “maestro”, ormai abbassato a zimbello del villaggio da una società vendutasi ad altri, ruggenti pseudo-valori; e al tempo stesso, inaugurazione di una tendenza all’autoficion terapeutica che è ravvisabile nelle scritture di parecchi insegnanti-scrittori contemporanei, i quali sembrano deporre nella scrittura le speranze di un riconoscimento sociale, e che spesso la praticano come via di fuga intellettuale da un contesto lavorativo frustrante.

Ma restiamo per il momento nello spazio extraletterario. Anche la rassegna stampa più sommaria può rendere conto del dato che, negli ultimi decenni, la professione docente in Italia è stata sistematicamente bersagliata, in un senso o in quello contrario. Il più delle volte, tanto su occhielli, titoli e sommari delle principali testate italiane, quanto nella comunicazione politica, il mestiere di insegnare viene fatto prigioniero di un discorso egemonico che tende a imporre il topos del professore fannullone, del dipendente statale pigro e improduttivo, o peggio, del forgiatore di generazioni di somari a sua volta somaro, se non addirittura del meridionale privo di cultura settentrionale. Per una sintesi di tutti i luoghi comuni sull’argomento, si prenda l’articolo pubblicato in appendice a Registro di classe di Sandro Onofri, autore di una scelta insolita che lo ha portato ad abbandonare la professione giornalistica per dedicarsi all’insegnamento:

Ma insomma, cosa vogliono questi professori? Hanno tre mesi di ferie all’anno, lavorano mezza giornata, non fanno un tubo, sono ignoranti come capre, c’hanno tutti il doppio lavoro, e adesso si mettono pure a protestare? Ma che non ce li mandiamo noi i figli a scuola? Che non lo sappiamo noi chi sono i professori? Sono tutti raccomandati, sono troppi, sono comunisti, sono terroni, vanno a simpatie, non sanno come gira il mondo, sono i sacerdoti della banalità, gli appaltatori dell’ovvio, i sabotatori di ogni innovazione, buoni soltanto a soffocare ogni genialità, a mortificare la cultura, sono la palla al piede del nostro correre a un magnifico futuro, sono i seviziatori della creatività dei nostri giovani, sono mezzemaniche, sono i prof.11

Seppure nel pieno di questa campagna denigratoria, la scuola e il lavoro dei docenti sono comunque oggetto di una costante narrazione collettiva che si guadagna un posto di primo piano nel dibattito sociale, e occupa parimenti i giornali e la letteratura. A titolo esemplificativo di questa centralità mediatica, per l’anno in corso si può citare tutto il discorrere intorno all’anniversario di Lettera a una professoressa, coronato dai libri di Cristian Raimo e Vanessa Roghi, e certamente accresciuto dalle polemiche sul romanzo di Walter Siti:12 polemiche di sicuro secondarie rispetto alla fortuna inesausta del testo coordinato da Don Milani, che ha inaugurato il genere della saggistica di argomento scolastico. E di certo non è casuale nemmeno il numero di ramificazioni novecentesche e di riscritture contemporanee di Cuore.13

Il lavoro degli insegnanti è dunque un tema di discussione pubblica, che tende a passare per osmosi dai giornali agli scrittori. Una prova osservabile dell’accordo fra letteratura e media è la stagionalità con cui si confezionano le notizie da una parte e si lanciano le novità editoriali dall’altra, a ritmo generalmente scandito dalle campanelle dell’apertura dell’anno scolastico e degli esami di maturità. Il disaccordo risiede nel discorso di fondo di molti nuovi racconti di scuola: perché se da un lato, come si diceva, ciò che mette in cattiva luce il professore di turno costituisce spessissimo un ghiotto criterio di notiziabilità, scrivere di docenti appassionati ed eroici, di contro, pare una buona carta per candidare alla pubblicazione un romanzo nel cassetto.

3. Contare gli eroi

Le narrazioni legate alla scuola sono un vero e proprio trend del mercato editoriale italiano, che forse, accogliendo il tentativo di sociologia letteraria comparativa di Giulio Iacoli, può trovare un corrispettivo solo in Francia:14 altro paese alle prese con la crisi del sistema di istruzione e i conflitti fra i governi e la categoria degli insegnanti. Sul fronte transalpino si riscontrano, infatti, casi di scrittori-professori come quelli di Daniel Pennac e Annie Ernaux; e gli anni Zero hanno visto il lancio di testi quali La classe di Francis Bégaudeau e L’ultima ora di Christophe Dufossé – entrambi tradotti per Einaudi – o di Homère et Shakespeare en banlieu di Augustin d’Humières, pubblicato in italiano da Piemme con il titolo I figli dell’ultimo banco.

Mettendo da parte gli aspetti qualitativi, il fenomeno meriterebbe uno studio quantitativo apposito per quanto riguarda l’Italia. Tra i tentativi di censimento a disposizione vanno ricordati quelli di Giulio Iacoli appunto, che nel 2012 si è soffermato sull’analisi di una serie di scritture dei tempi della Gelmini,15 e lo strumento bibliografico offerto nel 2014 da Cinzia Ruozzi.16 Senza alcuna pretesa di esaustività, si possono qui citare alcune novità editoriali della Buona Scuola, semplificando in questa dicitura tutto l’arco temporale post-Gelmini, dunque anche il periodo tecnicamente anteriore alla legge 107/2015 e quello corrente della Buona Scuola-bis. Una prima occhiata ai dati raccolti permette di osservare che il 2013, anno di transizione fra i ministeri Profumo e Carrozza, è un anno tanto politicamente instabile quanto denso di titoli: nel 2013 escono, per esempio, Vento forte fra i banchi di Marco Lodoli, Non so niente di te di Paola Mastrocola, Pronti a tutte le partenze di Marco Balzano, L’elogio del ripetente di Eraldo Affinati, Per sempre carnivori di Cosimo Argentina. Dell’anno successivo sono La scuola non serve a niente di Andrea Bajani e I bambini pensano in grande di Franco Lorenzoni, mentre il 2015 vede il ritorno di Giusi Marchetta con Lettori si cresce e Tranquillo prof, la richiamo io di Christian Raimo. L’elenco può proseguire con Primi giorni di scuola di Marco Balzano pubblicati da Sellerio, e con i due diari che si analizzeranno più avanti, rispettivamente del 2015 e del 2016: Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico di Giovanni Accardo e Lotta di classe. Diario di un anno da insegnante in prova di Mario Fillioley. Dal 2017, infine, si possono isolare due titoli utili al nostro discorso: ossia Il prof. fannullone di Chiarà Foà e Matteo Saudino e Il prof. terrone di Salvatore Mugno.

Prima di passare ai testi selezionati, interessa soffermarsi su alcuni elementi precisi. Innanzitutto, nel nostro elenco sommario va notata la presenza di autori ormai specializzati nel genere. E d’altra parte va sottolineato che molti dei nuovi racconti di scuola sono opera di scrittori esordienti. In secondo luogo, sembra di dover ribadire quanto lamentava Lidia De Federicis quindici anni fa: la mancanza di un romanzo della scuola equivalente a ciò che il Memoriale di Volponi è per il lavoro in fabbrica, «un romanzo che abbia toccato la specifica malinconia e aporia del riformismo scolastico».17

Assunta questa assenza di una grande narrazione, i titoli riconducibili alla tematica scolastica raccolti si presentano dal punto di vista contenutistico come «una pluralità di racconti che confliggono», e da quello formale con una «varietà di scritture dell’io».18 Ci sembra, cioè, che i nuovi racconti di scuola si allineino perfettamente alle narrazioni dell’ipermodernità così come le analizza Raffaele Donnarumma: non affreschi generazionali, ma sintomi di un nuovo realismo, in un certo senso passivo rispetto ai media, che sacrifica ogni pretenziosa resa della realtà per rispondere a un bisogno di storie vere e individuali. Se, dunque, l’epoca della Buona Scuola si sminuzza in una ridondanza di diari di anni di prova, si può dire che ciò avviene perché «sempre sull’orlo di essere ridotto a fantasma dall’invadenza mediatica […], l’empirico si difende facendo la voce grossa».19

Questi racconti rappresentano, così, delle «scritture di resistenza», in lotta con il discorso egemonico imposto dalla politica e dalla cronaca, e si presentano innanzitutto nelle vesti di socially simbolic acts.20 Un testo demistificante come Per sempre carnivori, che racconta le vite tragicomiche di insegnanti un po’ alcolisti e un po’ bisognosi di notti brave, rappresenta una nota stonata. Ma la tendenza generale è abbastanza unisona e consiste nella mitizzazione dell’eccezione eroica, dell’insegnante encomiabile, oscurato dal ritornello mediatico. Basta leggere il risvolto di copertina del romanzo d’esordio di Giusi Marchetta, L’iguana non vuole, ancora ascrivibile all’era Gelmini:

ce li hanno dipinti così i professori precari di oggi: arrendevoli, menefreghisti, incompetenti. Finalmente un romanzo ce li racconta senza indulgenza o pregiudizi, per mostrarci come, in reazione alle ingiustizie di una scuola pubblica che sta cadendo a pezzi, scoppieranno – è solo questione di tempo – l’indignazione, la protesta.

E sempre mantenendosi sulle soglie del testo, interessante anche la descrizione del prodotto fornita da Ediesse, casa editrice della Cgil, sulle alette del romanzo di Giovanni Accardo:

Oramai da alcuni anni la scuola è sotto assedio, minacciata da chi la dovrebbe curare, difendere e governare, ovvero dai ministri che si succedono uno dopo l’altro e che invece si limitano a tagliare fondi e al contempo, quasi per un paradosso, aumentano il carico di lavoro degli insegnanti. Nella percezione largamente diffusa predomina un’immagine caricaturale dell’insegnante: patetico, psicopatico, lavativo, grigio, triste, ignorante. […] Esiste un’altra scuola, fatta di insegnanti che progettano percorsi innovativi, si prendono cura dei loro allievi, studiano, si aggiornano, costruiscono relazioni affettive. Ma di questa scuola nessuno parla, forse perché non fa scandalo o non fa ridere. […] Ci sono insegnanti che si dannano l’anima, che si svegliano la mattina all’alba per preparare le lezioni, che vanno a letto a notte fonda per correggere verifiche, che tentano in tutti i modi di appassionare al sapere e alla vita gli studenti che si fanno carico dei loro dolori.

Il successo di questi racconti risiede forse, oltre che nella capacità attrattiva intrinseca al tema scolastico e assodata a partire da Cuore, best seller che nel 1906 ha già venduto 330.000 copie, anche nel fatto di puntare visibilmente sull’emotività del lettore. Non solo dell’addetto ai lavori, il docente appunto, ma probabilmente anche su quella di genitori e alunni.

In definitiva, riprendendo il discorso di Donnarumma, sembra che la rinascita del romanzo di scuola, avviata da Ex cattedra di Starnone, coincida con quella fase di un «nuovo impegno» e di rinnovato interesse per i temi pubblici che caratterizza gli anni Ottanta. La scuola e il lavoro precario del professore, dunque, vanno a braccetto con il lavoro precario in generale: sono temi che alimentano le vendite e attirano i lettori, suggerendo una nuova fiducia nel potere dei racconti di modificare la realtà, nonché un tipo di scrittore «nuovo rispetto all’intellettuale postmo-derno: tanto dedito alla partecipazione civile e alla denuncia, quanto quello era estraneo o scettico o polemico di fronte a un impegno che ormai era finito».21

Se si pensa al numero di supplenti disseminati nei due romanzi di De Amicis citati, tuttavia, ci si rende conto di come, all’interno del racconto di scuola, quello del precariato non sia certamente un tema nuovo. Come spiega Cinzia Ruozzi, «il leitmotiv della precarietà accompagna per più di un secolo la storia, la cronaca e la letteratura di scuola».22 Elemento in più per concludere che questi nuovi racconti di scuola non sono né una mera operazione commerciale, né il frutto di una nevrosi collettiva della categoria degli insegnanti, ma piuttosto l’esito nella lunga durata di una tradizione letteraria nata insieme all’Italia.

4. Il lavoro parallelo della letteratura

C’è un altro pattern, ricavabile dai censimenti dei racconti di scuola degli ultimi anni, che non abbiamo ancora considerato: la maggior parte di essi è attribuibile ad autori che esercitano contemporaneamente la professione dell’insegnamento e quella della scrittura. La narrazione a tema scolastico è, cioè, perlopiù opera di uno scrittore-professore, che di quello che racconta ha fatto esperienza diretta e che generalmente può esibire una patente di specializzazione sull’argomento (pensiamo per esempio a Marco Lodoli).

Nella storia dell’Italia unita, i casi di scrittori-professori sono un elenco tanto lungo quanto oscurato. Ci si può qui limitare a ricordare le esperienze, a vario titolo didattiche, di autori come Parini, Foscolo e Carducci, o più avanti Pavese, Pasolini, Fortini, Caproni e Manganelli; per non parlare dei docenti meridionali Pirandello, Brancati, Sciascia, Bufalino e Consolo. Non tutti hanno poi scritto di scuola, e si tratta di un lavoro invisibile per diverse ragioni. Intanto perché, nell’immaginario sociale, l’insegnamento si colloca su un gradino meno prestigioso rispetto alla scrittura letteraria, ritenuto perlopiù di sussistenza o di ripiego, e dunque spesso taciuto dall’autore e liquidato in un rigo biobibliografico dai critici: persino in casi come quello di Gesualdo Bufalino, professore a tempo pieno per tutta la vita, prima del tardivo esordio letterario. Ma lavoro invisibile anche perché inevitabilmente legato all’oralità, e dunque volatile o al limite deperibile. Anche nel caso di uno scrittore-insegnante, la lezione è orale. E forse non è una coincidenza, al di là del fatto che il ruolo del docente di scuola sia socialmente meno prestigioso, che le attività accademiche degli scrittori risultino più studiate del lavoro a scuola. Prolusioni, appunti degli studenti, etc. si conservano decisamente meglio, fatta eccezione di rarità come gli appunti delle lezioni di Cesare Pavese conservati nei quaderni di Fernanda Pivano.

I materiali custoditi negli archivi delle scuole, perciò, rappresentano senza dubbio un patrimonio utile a trovare le tracce concrete di questo lavoro parallelo di molti autori della nostra storia letteraria. Particolarmente interessante può risultare la ricostruzione del loro modo di lavorare con la letteratura stessa, nel caso in cui sia stata questa la disciplina insegnata. Ma per fare un altro esempio, da registri dei compensi, verbali e provvedimenti disciplinari si possono ricavare informazioni sulla condotta degli scrittori entro la scuola fascista, o più in generale sui rapporti con l’autorità scolastica.

Assumendo, comunque, che la scuola sia un centro di ispirazione letteraria, e che nell’atto burocratico scolastico possa persino trovarsi la genesi di un’opera (si pensi alle Cronache scolastiche di Sciascia), occorre chiedersi se le scritture di scuola presentino contrassegni particolari nel caso in cui l’autore eserciti la professione docente.

5. La scuola è sporca

La tendenza a dividersi fra cattedra e calamaio è un mutamento significativo rispetto alle origini: il fondatore del genere del racconto di scuola non era un insegnante. Edmondo De Amicis ha fatto esperienza della scuola nel ruolo di un qualsiasi alunno, perciò, come vedremo, scrive del lavoro dei maestri come può fare un giornalista.

Cuore è in un certo senso un romanzo del lavoro, affollato di «amici operai» e muratorini, che dicono delle fatiche delle scuole serali e delle tragedie degli infortuni sul lavoro, senza però mettere mai in discussione l’ordine sociale o fuoriuscire minimamente dalla retorica interclassista:

Finita la quarta, tu andrai al Ginnasio ed essi faranno gli operai. […] Quando tu sarai all’Università o al Liceo, li andrai a cercare nelle loro botteghe o nelle loro officine, e ti sarà un grande piacere il ritrovare i tuoi compagni di infanzia, – uomini, – al lavoro. […] E bada che se non conserverai queste amicizie, sarà ben difficile che tu ne acquisti altre simili in avvenire, delle amicizie voglio dire, fuori della classe a cui appartieni; e così vivrai in una classe sola, e l’uomo che pratica una sola classe sociale, è come lo studioso che non legge altro che un libro.23

Dall’ottica postrisorgimentale, l’esaltazione ampollosa del lavoro implica quella delle fatiche nello studio, e nell’ossequio a questa retorica altisonante si forgia la mente del piccolo Enrico, fino all’esplosione di un fervore artificioso:

Vedo la sera passar per la piazza tanti ragazzi che tornan dal lavoro, in mezzo a gruppi d’operai tutti stanchi ma allegri, che allungano il passo, impazienti di arrivar a casa a mangiare, e parlano forte, ridendo e battendosi sulle spalle le mani nere di carbone o bianche di calce; e penso che hanno lavorato dallo spuntar dell’alba fino a quell’ora; e con quelli tanti altri anche più piccoli, che tutto il giorno son stati sulle cime dei tetti, davanti alle fornaci, in mezzo alle macchine, e dentro all’acqua, e sotto terra, non mangiando che un po’ di pane; e provo quasi vergogna, io che in tutto quel tempo non ho fatto altro che scarabocchiare di mala voglia quattro paginuccie. […] Voglio vincere il sonno la sera, saltar giù presto la mattina, martellarmi il cervello senza riposo, sferzare la pigrizia senza pietà, faticare, soffrire anche, ammalarmi […]. Animo, al lavoro! Al lavoro con tutta l’anima e con tutti i nervi! Al lavoro che mi renderà il riposo dolce, i giochi piacevoli, il desinare allegro; al lavoro che mi ridarà il buon sorriso del mio maestro e il bacio benedetto di mio padre.24

De Amicis si conforma a una pedagogia dello stremo, negatrice di ogni gioia, che già Leopardi aggrediva nei Pensieri. Studiare è fatica, ma la fatica è allegria. L’equazione, confermata dall’immagine di questi operai «tutti stanchi ma allegri» che tornano a casa ridendo, si incrina all’altezza di domenica 25 giugno, con la «distribuzione dei premi agli operai»: davanti alla sfilata di lustrascarpe, cuochi, spazzacamini, falegnami e muratori, tutti alunni delle scuole serali, «nessuno rideva tra gli spettatori, come facevano alla nostra festa: si vedevano tutti i visi attenti e seri».25 E gli spettatori che non accennano un sorriso sono ovviamente le mogli e i figli degli operai.

L’altra categoria che in Cuore non accenna mai un sorriso è proprio quella dei maestri. Il «malumore» dell’insegnante di Enrico non giunge ancora alle esplosioni di violenza del talora manesco Emilio Ratti,26 protagonista dell’altro romanzo deamicisiano. Ma sin dal primo giorno di scuola, «il maestro non ride mai»;27 e di nuovo, anche quando arrivano la primavera e il buon umore, «il maestro non rideva, perché non ride mai».28

Ci si è molto soffermati sul riso di Franti, da Eco in poi, ma vale la pena leggere bene anche questa assenza di sorriso. Per i ceti dirigenti dell’Italia unita, la scuola è non un posto di lavoro, ma il luogo di lavoro, l’altare di un’ideologia che non può essere messa in discussione. Sebbene restando entro questi limiti, De Amicis prova a radiografare le espressioni seriose dei maestri anche nel suo romanzo più famoso, dove l’insegnante è un eroe costantemente in bilico verso la malattia, un campione di operosità sempre sull’orlo del burnout: così la maestra continua a dimagrire perché secondo la madre «si affanna troppo coi suoi ragazzi»,29 e pure il maestro a un certo punto crolla: «Dal troppo lavorare s’è ammalato. Cinque ore di lezione al giorno, poi un’ora di ginnastica, poi altre due ore di scuola serale, che vuol dire dormir poco, mangiare di scappata e sfiatarsi dalla mattina alla sera: s’è rovinata la salute. Così dice mia madre».30

Si tratta però, all’altezza di Cuore, della somministrazione di un’etica della laboriosità che come si è visto è trasversale a qualsiasi attività e a tutte le professioni, e anzi più pendente verso l’extrascolastico. I maestri fotografati nel diario di Enrico non sono un nitido esercito di operai. L’opera conciliatrice di De Amicis sembra mettere più a fuoco e insistere maggiormente le altre categorie di lavoratori, per cui nelle lettere dell’ingegnere e sul sofà di casa Bottini si fa posto al compagno muratorino, e in generale ai figli dei muratori:

– Lo sai, figliuolo, perché non volli che ripulissi il sofà? […] Perché l’aveva fatto coi panni di suo padre, il quale se li è ingessati lavorando; e quello che si fa lavorando non è sudiciume: è polvere, è calce, è vernice, è tutto quello che vuoi; ma non sudiciume. Il lavoro non insudicia. Non dir mai d’un operaio che vien dal lavoro: – È sporco. – Devi dire: – Ha sui panni i segni, le tracce del suo lavoro.31

Incentrata specificamente sui professionisti della scuola, invece, è la narrazione del Romanzo d’un maestro, dove le miserie della questione magistrale appaiono in primo piano e senza più filtri. In questo testo, che l’autore inizia a stendere anteriormente a Cuore, ma che viene pubblicato da Treves solo nel 1890, il lavoro scolastico salta fuori in tutta la sua azione degradante e in tutta la sua sporcizia, indipendentemente dalla visita dell’«ispettore igienista», che nella seconda parte del romanzo esce dalla classe al grido di «la scuola è sporca»32 e raccomanda ai ragazzi «studiate e lavatevi».33 Vi compaiono personaggi monomaniaci, ossessionati dalla lettura dei giornali magistrali e resi strambi da una «propaganda giornalistica, sia pur sacrosanta, fatta in favore d’una classe sociale».34 E si dà voce anche a posizioni come quella di Giovanni Labaccio, maestro primario, decorato della menzione onorevole dalla società Mutuo Soccorso degli insegnanti italiani:

Ne ho conosciuti. Ebbene… si trovano in una condizione… generalmente prospera. […] Dio mio, non fanno che lamentarsi, sempre con quel benedetto stipendio, sempre a pianger miseria. Finisce che si rendono uggiosi. Sono loro, sto per dire, che a furia di gridare che muoion di fame, rendono la professione disprezzabile. Hanno spinto le cose al punto, cospetto, che al vedere un maestro la gente si volta in là, come se fosse lo spettro del conte Ugolino.35

Il realismo della rappresentazione del Romanzo d’un maestro, narrazione in terza persona equidistante tanto dalla denigrazione quanto dalla mitizzazione, culmina nell’ultima pagina. Ed è proprio su queste righe che bisogna rileggere i risvolti di copertina degli ultimi trent’anni:

Sì, egli apparteneva a un esercito e poteva andar altero d’appartenervi. Quest’esercito aveva dei difetti, ma erano i difetti del suo paese; era mal armato e mal nutrito, ma ciò tornava più a sua gloria che a sua vergogna; e c’eran nelle sue file dei soldati inetti e pusillanimi, come in tutti gli eserciti; ma, nel nome di Dio, c’era anche una legione d’eroine e d’eroi, davanti ai quali qualunque più nobile fronte si sarebbe potuta scoprire.36

6. La lezione del giornalista

Se il lavoro insudicia e la scuola è sporca, i maestri di De Amicis non sono mai sporchi di gesso. Il romanzo d’un maestro costituisce una narrazione più documentaristica del lavoro scolastico, ma entrambi i romanzi deamicisiani raccontano la quotidianità scolastica aggirando ogni dettaglio concreto sulla lezione. Si pensi alle famose pagine di Franti cacciato dalla scuola: dopo averlo furiosamente strappato dal banco e condotto dal direttore, il maestro rientra in classe e, ancora tremulo di collera, dice ai ragazzi «riprendiamo la lezione».37 Ma il sipario della narrazione si chiude su quella battuta: il lettore può intuire quale sia la condotta abituale dei compagni di Franti, ma non capirà mai che tipo di lezione si tratti.

Difficile anche trovare segni tangibili del lavoro, attributi del mestiere e arnesi come il registro. La celebre «maestrina dalla penna rossa», connotata appunto da un oggetto tipico del corredo scolastico, rappresenta in tal senso una rara eccezione. L’unica traccia di un elaborato scolastico affiora nella visita al maestro del Sig. Bottini senior:

Alberto Bottini. Dettato. 3 Aprile 1838. […] Guarda questo foglio. Vedi? Queste sono le correzioni della mia povera madre. Essa mi rinforzava sempre gli elle e i ti. E le ultime righe son tutte sue. Aveva imparato a imitare i miei caratteri, e quando io ero stanco e avevo sonno, terminava il lavoro per me. Santa madre mia!

E baciò la pagina.38

Una descrizione più concreta del lavoro delle maestre, però, De Amicis la fornisce per illustrare «il metodo orale» adoperato al collegio dei sordomuti.

Ecco come si fa. Voglio farle dire e. State attento. – La maestra aperse la bocca, come si apre per pronunciare la vocale e, e accennò alla bimba che aprisse la bocca nella stessa maniera. La bimba obbedì. Allora la maestra le fece cenno che mettesse fuori la voce. Quella mise fuori la voce, ma invece di e, pronunziò o. – No – disse la maestra, – non è questo. – E pigliate due mani della bimba, se ne mise una aperta sulla gola e l’altra sul petto, e ripeté: – e. – La bimba, sentito con le mani il movimento della gola e del petto della maestra, riaperse la bocca come prima, e pronunziò benissimo: – e. – Nello stesso modo la maestra le fece dire c e d, sempre tenendosi le sue piccole mani sul petto e sulla gola. – Avete capito ora? – domandò.39

La fatica dell’insegnamento resta quindi invisibile dentro le aule normali, e può essere osservata solo nelle scuole speciali per ciechi, sordomuti e rachitici. Questa scrittura “evitante” di De Amicis che, appunto, evita di mostrare la quotidianità dell’intra moenia e imbavaglia la lezione impacchettandola dentro un velo di autocensura, viene così interpretata da Domenico Starnone:

Certo, da Enrico sappiamo che questi bambini – in ispecie se poverissimi – sragionano di pomeriggio ripetendo ad alta voce nozioni grammaticali o risolvendo problemi o facendo il dettato tra un lavoro da garzone e l’altro. Ma i maestri non li vediamo mai all’opera. Evidentemente il ragazzino non osa parlarne, gliene deriverebbero troppi guai. Gran parte del tempo, in quelle classi, doveva passare nella rissa, nell’urlo, nella minaccia, nella punizione, nella fatica di stare in una stanzetta fatiscente, superaffollata e asfittica, rigidi, composti, in silenzio, pena l’arrivo del Direttore. Meglio sorvolare, meglio tacere.

Ben altra attenzione tutta la famiglia Bottini dedica agli insegnanti delle scuole speciali, che affrontano un handicap e combattono quotidianamente per attenuarne le conseguenze: maestri di ciechi, di sordomuti, di rachitici. Allora Enrico è ammirato, la mamma pure, persino il maestro, quasi che prima nessuno di loro avesse mai visto un insegnante all’opera. Il lavoro lì c’è, lo sforzo di istruire appare titanico, le tecniche sono visibili e narrabili, i risultati stupefacenti. Pare quasi che raccontare le scuole speciali serva a dire, in controluce, che le scuole normali non funzionano.40

Con una motivazione analoga si potrebbe spiegare il fatto che nel Romanzo d’un maestro i riferimenti concreti allo svolgimento delle lezioni siano perlopiù confinati entro la cornice delle visite ispettoriali.41 Tuttavia, il testo in questione va evidentemente oltre il divieto di svelare più da vicino la frustrazione dei maestri: in via teorica, il De Amicis parallelo a Cuore non teme di mostrare la quotidiana baldoria delle aule, e dunque di attentare al modello trionfante di scuola proposto dallo stato postunitario.

Per un’ipotesi più calzante in questo caso, occorre forse tornare al dato biografico: della vita in mezzo ai banchi, De Amicis conosce solo quello che gli dicono le già martellanti battaglie combattute sui giornali. Egli è un giornalista, non un maestro che scrive di scuola. Dunque, non stupisce che l’istinto sia quello di ricordare l’esistenza di alunni esclusivamente dialettofoni nei villaggi delle alpi piemontesi,42 o la diatriba pedagogica fra i sostenitori del metodo espositivo o di quello interrogativo,43 piuttosto che andare più vicino alla lavagna a impolverarsi di gesso.

7. Il gesso digitale

A differenza di quanto avviene con De Amicis alle origini del genere, la narrazione contemporanea della scuola generalmente affonda dentro la quotidianità didattica. Il fatto che gli autori emergenti siano innanzitutto degli insegnanti è un dato con forti ripercussioni formali sul modo di raccontare la scuola. Anche quando la forma è quella tradizionale del diario, è spesso nella compilazione del registro di classe che va cercata la genesi della scrittura.

Un esempio calzante in questo senso è Un’altra scuola di Giovanni Accardo, che dal punto di vista narrativo si esaurisce nella descrizione minuta della giornata lavorativa del docente e del suo esatto carico didattico. In questo testo, l’annotazione puntigliosa delle attività didattiche sembra proprio debordare direttamente dall’atto burocratico:

Mercoledì 15. Ultima verifica di italiano, dedicata ai Promessi sposi. Siamo ai capitoli finali: la morte di frate Cristoforo, l’incontro tra Renzo e Lucia, lo scioglimento del voto di castità, il ritorno al paese, le ultime viltà di Don Abbondio, finalmente le nozze e il sugo della storia. […] Riepilogo la guerra partigiana raccontata dagli scrittori: la versione avventurosa e comica di Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno, quella antieroica e antiretorica di Una questione privata di Fenoglio, il manicheismo di Vittorini in Uomini e no, il senso di colpa di chi non ha avuto il coraggio di scegliere e si è nascosto, come nella Casa in collina di Pavese. Su Pavese mi soffermo più a lungo, spostando il discorso anche su La luna e i falò; su questo romanzo, che i ragazzi hanno letto integralmente, domani ci sarà la verifica.44

Fatta eccezione per qualche apertura sulle battaglie della categoria, i contenuti si ripiegano asfitticamente dentro l’agenda del professore. La narrazione scandita per date tipica del genere diaristico fa da cornice a ulteriori suddivisioni della giornata, ed entro queste fasce orarie annotate puntigliosamente, tra un consiglio di classe, un’email inviata all’alba e un’assemblea sindacale, al lettore si offre l’immagine di un lavoratore tanto incalzato quanto scrupoloso:

Finito l’incontro mi restano tre ore di lezione: Pascoli in quinta (Il gelsomino notturno), il canto II dell’Inferno e l’alimentazione nel Medioevo in terza.

Pranzo con un’insalata al bar della scuola.

Alle 14.30 sportello di recupero sull’analisi del testo in quinta: lavoriamo su Nebbia di Pascoli e Città vecchia di Saba. Riempio la lavagna di schemi, dopo faccio scrivere gli studenti.

Alle 16.30 prendo la bici e ritorno a casa.45

Talvolta non è solo il registro scolastico a sconfinare nel diario, ma è proprio il Miur che viene a invadere i sogni: «stanotte ho sognato che il ministro dell’Istruzione convocava una conferenza stampa e invitava gli italiani ad amare la scuola».46 È il vissuto lavorativo che sembra prolungarsi dentro i pensieri dell’io narrante in maniera persecutoria, creando un cortocircuito nevrotico:

Mattina e pomeriggio a scuola. Zola e il naturalismo, Donne ch’avete intelletto d’amore, il nodo che ritenne Bonaggiunta, il Notaro e Guittone, Dante e l’amore che ditta dentro; l’analisi del testo poetico con esempi da Pascoli, Sereni e Cardarelli. Schemi alla lavagna, fotocopie, letture.47

Dentro il diario di Accardo sono archiviate scritture di vario tipo: lettere di colleghi, lettere al sindaco, lettere all’INVALSI, mail di alunni, temi, relazioni, appunti del corso di formazione, e quindi testi poetici.

Ciò che importa sottolineare a questo punto è la dimensione assunta dal lavoro della letteratura dentro il racconto di scuola. L’io narrante ci informa sempre con puntiglio sull’argomento delle sue lezioni, sia esso Calvino, o il canto VI del Purgatorio o un incontro degli alunni con Andrea Bajani in carne e ossa. Tuttavia, se molto spazio è dedicato alla programmazione mentale della didattica, non è però detto che la lezione possa avere luogo.

Ciò che si racconta del lavoro in cattedra ai tempi della lavagna digitale, in definitiva, è proprio l’impossibilità della lezione. È così che, nel romanzo di Accardo, l’interrogazione su Alcyone si interrompe su «mio padre mi picchia»48 e Frate cipolla si conclude con Matteo che esclama «Berlusconi!» e una risata collettiva.49

Giovanni Accardo, che ha esordito nel 2006 narrando di precarietà con Un anno di corsa, è uno dei tanti docenti meridionali in servizio a Bolzano, un siciliano della provincia di Agrigento. Il suo diario, però, di Sicilia non parla mai e si allinea perfettamente e diligentemente a quella militanza apologetica di cui si è detto in apertura di questo contributo. All’opposto, un continuo andirivieni fra Terni e Siracusa e un incontenibile venir meno alla mitizzazione del lavoro dei professori è Lotta di classe, il diario dell’insegnante in prova Mario Fillioley. Altro docente meridionale, rientrato nel piano di assunzione della Buona Scuola, a cui piace commentare il ritornello della deportazione con il rimando all’articolo 98 della Costituzione e al «servizio della nazione» previsto per i dipendenti pubblici.

Un altro diario, anche questo verosimile, che si dichiara popolato di studenti reali ma inesistenti. La narrazione procede qui per incastri spaziali e temporali, con il sistematico uso del flashback: la scuola di San Gemini è continuamente paragonata all’istituto professionale siciliano di provenienza, l’anno di prova messo in dialogo con l’adolescenza al liceo classico siracusano. E dal grigiore lavorativo, che l’autore pare osservare con un sorriso imperturbabile, affiorano, data dopo data, le psicologie di alunni.

Un merito del testo di Fillioley è senz’altro quello di usare il lavoro dell’insegnante come pretesto per parlare d’altro, e dunque di sporcare la narrazione con questioni più ampie e più grevi, come il razzismo o come l’unità nazionale, di cui il racconto si contamina dai tempi del ragazzo calabrese. Il tutto con una scelta linguistica fortemente marcata in senso regionale e con la leggerezza di un registro comico sapiente:

Sabato pomeriggio ho incontrato mezza classe coi rispettivi genitori al supermercato, che qua è uno solo. Fanno la spesa. Tutti i ragazzini mi hanno salutato timidamente, ma poi devono aver detto ai genitori chi ero, perché subito tutti i genitori sono tornati indietro a salutarmi con un bel sorriso e grandi strette di mano, a dirmi che erano contenti di conoscermi. A Siracusa avrebbero accelerato per evitare di parlarmi, o in alternativa mi avrebbero parlato per dirmi: Se ci metti male carte a mio figlio ti brucio la macchina e ti ballo sopra la panza. […] Devo dire che qua mi sento più sereno, solo che ogni tanto mi prende il senso di colpa per non essere là a farmi il sangue acqua.50

A differenza di Accardo, lo scrittore siracusano non si presenta affatto come un lavoratore diligente e meticoloso:

L’anno di prova significa che, oltre a farti trovare in classe dalla preside, devi compilare un sacco di moduli, questionari, relazioni, griglie, valutazioni, riflessioni, autoriflessioni e io con tutte queste cose sono molto indietro.

In effetti io sono indietro anche con tante altre cose, anzi per la verità faccio un po’ tutto a cavolo e ho sempre la coscienza sporca.

Per esempio la bidella mi ama molto per come firmo le circolari, ci sto sì e no dieci secondi perché tanto non leggo niente.51

Fillioley racconta la quotidianità della Buona Scuola smascherando tutor che non hanno idea di cosa sia il bilancio delle competenze e risolvendo l’esame finale dell’anno di prova nell’ennesima occasione per portare i pasticcini a scuola. All’opposto di quanto avviene in Un’altra scuola, scompaiono tutte le idealità della programmazione didattica. I contenuti vengono continuamente sottoposti ad un ridimensionamento che, più che comico, è realistico: così, ci si imbatte in interpretazioni storiografiche come quella che Galileo Galilei è «un fango di uomo»52 o in «questa passione che abbiamo sempre avuto per la briscola in cinque», che si scopre causa delle guerre del Cinquecento.53

Siamo, quindi, parecchio lontani dal poterlo incasellare in qualche intento «apologetico», e semmai, addirittura in presenza di auto-smascheramenti del narcisismo di categoria: come quando, all’incontro con i genitori, il docente sente che «è un sogno che si realizza: finalmente qualcuno mi ha dato un pulpito»;54 o come alla fine dell’anno scolastico:

L’anno prossimo Fillioley non c’è. Piangete bene, piangete parecchio, mi sono messo a mormorare mentre loro scrivevano sui cellulari. Poi Loredana ha pianto qualche lacrima veramente e io mi sono sentito molto contento. Piccola, perché piangi, le ho detto, perché sono un grande artista?55

Eppure, al di sotto di questa rappresentazione comica sicuramente rischiosa, si impone l’urgenza di raccontare per filo e per segno la difficoltà dell’insegnamento:

Abbiamo letto in classe «Chi è questa che vèn ch’ogn’om la mira». Leggeva Ernesto e mentre leggeva si girava verso il banco di Antonella e di Iolanda, al che io gli ho detto: Ernesto, leggi senza girarti, per favore, e tutti a fare risolini, fino a quando Gaspare ha detto: Non ci può riuscire, è più forte di lui. Allora Biagio si è alzato in piedi e ha detto: Gaspare dice così perché pure lui è innamorato di Iolanda. Gaspare non s’è scomposto. Ha detto: è vero, è vero, ma io mica rosico però. Insomma: è venuto fuori che Ernesto e Iolanda si sono fidanzati.56

Ritorna ancora una volta la difficoltà della lezione, dunque, con la differenza che Fillioley osserva con un sorriso anche il quesito di fondo: se la letteratura sia ormai un lavoro impossibile o qualcosa che continua a prendere vita.

Note

1 E. De Amicis, Cuore [1886], Milano, Feltrinelli, 1993.

2 Sulle vicende di Cuore da “ipotesto” a “intertesto” si veda G. Iacoli, Il lettore inzuccherato. Strati di una ricezione: «Cuore» da De Amicis alle riscritture contemporanee, in L. Dolfi, M.C. Ghidini, A. Pessini, E. Pessini (a cura di), Libri e lettori (tra autori e personaggi. Studi in onore di Mariolina Bertini), Parma, Nuova Editrice Berti, 2017, pp. 383-396.

3 Cfr. J.C. Milner, De l’école, Paris, Seuil, 1984.

4 «Come se si potesse pensare che da una condizione docente di vessazioni continue, di precarietà, di miseria, di fame, fosse possibile tirar fuori qualcosa di diverso dal maestro castigamatti, prono davanti ai potenti, fedele alla linea, ideologo sempre, istruttivo quasi mai, ignorante e pomposo»: D. Starnone, Paura di Franti, in De Amicis, Cuore, cit., p. XVI.

5 A questo romanzo meno noto, pubblicato solo nel 1890, in realtà De Amicis mette mano ben prima di Cuore. Di fatto, lo scrittore interrompe la stesura del Romanzo d’un maestro per le pressioni di Emilio Treves che, con lungimiranza da editore, lo esorta a dedicarsi più massicciamente al futuro best seller. De Amicis ritornerà sulla documentazione raccolta per quel vecchio progetto solo dopo il 1886, anno di pubblicazione del diario di Enrico Bottini.

6 A. Faeti, Letteratura per l’infanzia, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 8.

7 Cfr. E. Catarsi, Il suicidio della maestra Italia Donati, in Id., L’educazione del popolo. Momenti e figure dell’istruzione popolare nell’Italia liberale, Bergamo, Juvenilia, 1985, pp. 103-112.

8 De Amicis, Cuore, cit., p. 67.

9 Cfr. R. Sandrucci, La scuola sotto il segno della commedia. Rappresentazioni della scuola pubblica italiana: studio su sette casi, Pisa, ETS, 2012.

10 Cfr. A. Godioli, Laughter from Realism to Modernism. Misfits and Humorists in Pirandello, Svevo, Palazzeschi, and Gadda, Oxford, Legenda, 2015.

11 Articolo originariamente pubblicato su «L’Unità» e ora in appendice a S. Onofri, Registro di classe, Torino, Einaudi, 2000, p. 77.

12 Cfr. C. Raimo, Tranquillo prof, la richiamo io, Torino, Einaudi, 2015; V. Roghi, Lettera sovversiva, Bari, Laterza, 2017; W. Siti, Bruciare tutto, Milano, Rizzoli, 2017.

13 Cfr. Iacoli, Il lettore inzuccherato, cit.

14 Cfr. G. Iacoli, Scrivere ai tempi della Gelmini, in «Studi culturali», IX, 1, aprile 2012.

15 Ibidem.

16 Cfr. C. Ruozzi, Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento, Torino, Loescher, 2014.

17 L. De Federicis, Il romanzo della scuola, in «Belfagor», LVII, 2, 31 marzo 2002, p. 232.

18 Cfr. R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014.

19 Ivi, p. 127.

20 F. Jameson, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico, trad. it. di L. Sosio, Milano, Garzanti, 1990.

21 Donnarumma, Ipermodernità, cit., p. 203.

22 Ruozzi, Raccontare la scuola, cit., p. 158.

23 De Amicis, Cuore, cit., p. 157.

24 Ivi, p. 83.

25 Ivi, p. 122.

26 A. De Amicis, Il romanzo d’un maestro [1890], a cura di P. Boero, A. Ascenzi, R. Sani, Genova, De Ferrari, 2007, pp. 201-202.

27 De Amicis, Cuore, cit., p. 4.

28 Ivi, p. 138.

29 Ivi, p. 11.

30 Ivi, p. 110.

31 Ivi, p. 45.

32 È possibile ritrovare il motivo della sporcizia anche nel Maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi, dove lo “sporco” sembra il contrassegno del lavoro scolastico, e come tale viene lamentato da Ada, che nelle prime pagine del testo si pena d’aver sposato un maestro, e poco più avanti si sente «sporca, anzi sporchissima».

33 De Amicis, Il romanzo d’un maestro, cit., p. 253.

34 Ivi, p. 286.

35 Ivi, p. 244.

36 Ivi, p. 394.

37 De Amicis, Cuore, cit., p. 67.

38 Ivi, p. 151.

39 Ivi, p. 210.

40 Starnone, Paura di Franti, cit., pp. XVI-XVII.

41 De Amicis, Il romanzo d’un maestro, cit., pp. 71 e 122.

42 De Amicis, Il romanzo d’un maestro, cit., pp. 71 e 122.

43 «Riconobbe subito che per farsi capire dai più piccoli, gli bisognava parlar con loro in dialetto», ivi, p. 53.

44 G. Accardo, Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico, Roma, Ediesse, 2015, p. 243.

45 Ivi, p. 118.

46 Ivi, p. 232.

47 Ivi, p. 100.

48 Ivi, p. 82.

49 Ivi, p. 220.

50 M. Fillioley, Lotta di classe. Diario di un insegnante in prova, Roma, minimumfax, 2016, pp. 18 e 21, corsivi miei.

51 Ivi, p. 154.

52 Ivi, p. 131.

53 Ivi, p. 108.

54 Ivi, p. 124.

55 Ivi, p. 161.

56 Ivi, p. 55.