Eppure, per una generazione di poeti, la Seconda guerra mondiale rappresenta un’esperienza che avrà un impatto decisivo non solo, com’è ovvio, sulle biografie, ma anche sulla scrittura poetica: in entrambe le sfere, la guerra veniva a dividere il tempo, innanzitutto come passaggio alla maturità. Una generazione che avrebbe dato le sue opere migliori fra gli anni Sessanta e i Settanta, nelle quali sotto forme tematiche o, più spesso, indirette, la guerra ritornava come «un’orizzonte permanente».3 Raboni ha descritto l’elemento che, pur nella diversità degli esiti, si situava a monte di molte scritture di questi autori. Parlando di Bertolucci, Caproni, Sereni e Luzi, il critico e poeta affermava:
Nato pochi anni dopo, Fortini può rientrare – a mio giudizio – pienamente fra i nomi elencati da Raboni. Introducendo Dieci inverni, lo stesso Fortini fa riferimento al potere formativo dell’esperienza bellica, di una formazione paradossale e, nel suo caso, legata all’ereticità del suo marxismo: «i fatti decisivi per la nostra cultura erano stati l’universo dei campi di concentramento, l’arma atomica, i processi sovietici».6 In questa citazione, è significativo che tra i fatti rievocati vengano nominate le atrocità di tutti gli attori in campo: i Nazisti, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Un modo per descrivere come, durante gli anni della guerra e in quelli immediatamente successivi, anche i “liberatori” avevano perpetrato l’orrore. Non bisogna inoltre dimenticare che, a differenza dei poeti precedentemente citati, l’esordio di Fortini cade proprio nell’immediato dopoguerra: Foglio di via e altri versi esce nel 1946, grazie all’intercessione di Vittorini presso Einaudi.7 E si tratta non solo del suo primo libro poetico, ma dell’intera produzione intellettuale. Un dato contingente, ma che pure acquista un suo valore simbolico.
L’imagery bellica è una costante dell’intera opera poetica fortiniana. Accompagna le diverse fasi della sua poesia, fino ad apparire come un elemento della psicologia profonda dell’autore. A tal proposito, recensendo una plaquette del 1969,8 Pasolini leggeva le immagini belliche come un tratto della volontà dell’autore di sentirsi in guerra:
C’è ferro ancora tra i sassi.
L’ottobre lavora nuvole.
La guerra finì da tanti anni.
L’ossario è in vetta.
Siamo venuti di notte
tra i corpi degli ammazzati.
Con fretta e con pietà
abbiamo dato il cambio.
Fra poco sarà l’assalto.
La fusione di temporalità diverse mi pare possa scongiurare di leggere il testo solo come ingenua metafora del presente. Evidentemente, dato il forte legame che la poetica fortiniana intrattiene con l’extratesto, non vi sono dubbi che il titolo di sezione, La posizione socio-politica degli anni Sessanta. Credo che la prima strofa permetta, però, di problematizzare l’immediata traslazione. La distanza temporale posta tra il presente e il passato nella prima strofa consente di leggere il testo non tanto come una metafora del presente, quanto piuttosto come una filosofia della storia che può agire anche nella lettura del presente. D’altro canto, il testo è esplicito: «la guerra finì da tanti anni». Il presente è la foce di immani catastrofi; le trincee sono ancora visibili, prima che l’azione della natura ne disperda i segni e con essi il ricordo. È possibile allora vedere nella presentificazione della seconda scena, da un lato l’idea che le svolte del destino si presentano sotto forma di catastrofe, dall’altro che solo il vivo ricordo di quelle catastrofi può disvelare la posta in gioco degli scontri del presente.
È una forma mentis che troviamo in Fortini sin dal suo esordio, sebbene con modalità diverse.11 In Foglio di via, il presente stesso è saturato dall’evento bellico. Come definita da un giovane Starobinski, a proposito della lirica resistenziale francese, la poesia di questi anni non può che essere una poesia dell’evento.12 A differenza, però, di opere come il Diario d’Algeria e Il passaggio d’Enea, il tempo non è bloccato, ma il presente si rovescia nel futuro. La catastrofe negativa diventa palingenesi: in questo, agiscono su Fortini il suo sostrato ebraico-protestante e l’esperienza resistenziale in Val d’Ossola. Ciò non deve far pensare che l’attimo di rovesciamento sia puramente positivo: possiamo dire, anzi, che è la dimora nella negatività a suscitare l’immagine di un avvenire di gioia. Ad esempio, le liriche resistenziali sono sempre associate, figuralmente, alla morte. La prossimità agli ammazzati oppure all’annichilimento individuale occupa il presente, interrompe la continuità temporale, non attraverso l’inceppamento del divenire, ma grazie alla trasformazione del momento attuale nella lastra negativa del futuro (A un’operaia milanese, Coro di deportati, Valdossola (16 ottobre 1944), Per un compagno ucciso, Canto degli ultimi partigiani; TP, pp. 15, 18, 20, 21, 24). È probabilmente qui che s’instaura la figura dell’avvento di cui parla lo stesso Fortini:
La differenza fra i due testi va probabilmente ascritta a un diverso sentimento del tempo; la Resistenza e l’immediato dopoguerra erano state occasioni in cui il futuro rivoluzionario sembrava prossimo, in cui le decisioni del presente avevano un immediato effetto sullo stato di cose, qualcosa di simile all’8 settembre 1943, quando il vuoto dell’autorità costituita diveniva una chiamata alla responsabilità, e ogni scelta era decisiva. Ma dal 1946 inizia invece la lunga stagione dei “dieci inverni”: chiusa la speranza del rivolgimento, si apre la fase dell’attesa, dello sguardo di chi veglia alla finestra. L’attenzione del soggetto restringe il presente, che diventa il punto dal quale auscultare le estensioni immani del passato e del futuro. Questa nuova facies temporale investe i testi di Poesia e errore; un componimento in particolare ben descrive questa struttura del tempo: intitolato A metà (TP, p. 102), nell’edizione definitiva del 1969 dà il nome alla sezione che lo accoglie. Le ultime due quartine di questo testo ricorrono all’immagine bellica proprio per descrivere «i due orizzonti eguali e assoluti» del passato e del futuro:
e il foglio scritto è sbiadito di pioggia
e la battaglia è un’eco e la notte precipita
e chi porta il messaggio ha l’affanno del disertore
a metà della strada – tra due distanze
quando memoria e previsione hanno taciuto
tra la fine del fiume e il principio del mare
tra due orizzonti eguali e assoluti…
In Poesia e errore, data anche la vicinanza con l’esperienza bellica, numerosi sono i riferimenti alla guerra. In molti testi viene confermato l’assetto temporale descritto in A metà. In Sono morti ormai, ad esempio, prigionieri di guerra uccisi restano irredenti, perché «si crede di aspettare e la speranza si inaridisce / si spera di ricordare e non si ricorda» (TP, p. 141). Una sera di settembre, invece, ritorna alle giornate convulse dell’Armistizio, «quando fu un urlo unico la paura e la gioia», «e tutto era possibile» (TP, p. 165); un ricordo però che si è irrimediabilmente allontanato nel passato. In Ai nostri caduti di Russia, la speranza e l’attesa sono l’inganno delle classi dominanti, paragonabili alla Madonna di stagno distribuita ai combattenti della campagna di Russia e al ritornello di una canzone popolare trasmessa dagli altoparlanti per il conforto dei soldati (TP, p. 166). In V-Day il ricordo della fine del secondo conflitto mondiale riemerge come un atto di burocrazia con i «vecchi / nemici» (TP, p. 207). Se in Fra parentesi la volontà del soggetto prova a svelare che si è stati «ingannati» e ad affermare che «una di queste sere / verrà la verità» (dicendolo però tra parentesi; TP, p. 174), solo nel libro successivo cambierà veramente la posizione del soggetto di fronte al tempo.
In Una volta per sempre, il cambiamento utopico viene percepito sempre a una distanza estesa; ma ora l’io decide di assumere questa estensione, di inscriverla nelle forme stesse della sua poesia, di essere disposto ad accettare i tempi lunghi dell’attesa, oltre la morte individuale. È la prospettiva che ritroviamo in una delle più celebri poesie fortiniane, La gronda. Proprio dopo questa poesia, abbiamo la sezione eponima del libro, che si apre con un testo legato agli anni della guerra, intitolato appunto 1944-1947 (TP, pp. 261-262). Divisa in quattro momenti e costituita dal dialogo con un tu femminile, la poesia ripercorre, nel primo movimento, gli anni di guerra; nel secondo quelli della ricostruzione. Nel terzo movimento, un’immagine naturale e marina descrive l’inabissamento della verità, che tuttavia dal fondo «aspetta»; nell’ultimo movimento, infine, il dialogo si fa più intimo, come per verificare la relazione tra storia individuale e storia universale. Nel rapporto tra guerra e tempo, è particolarmente interessante l’immagine del secondo movimento, dopo che nel primo si è descritta la distruzione dei bombardamenti e l’esilio svizzero:
delle macerie di Milano andavano
verso il nostro avvenire che ora è qui,
la modesta collina del passato
che agita un poco di verde in questo aprile.
In Una volta per sempre, nella celebre Traducendo Brecht, Fortini sostiene che «la natura / per imitare le battaglie è troppo debole» (TP, p. 238). Negli anni successivi, proprio il tempo ciclico e biologico della natura interviene a rendere più complessa l’articolazione temporale della poesia fortiniana. Così come definito e analizzato da Luca Lenzini,15 lo stile tardo di Fortini presume un confronto serrato con la potenza delle forze naturali, al tempo stesso annichilenti per l’individuo e indifferenti ai destini generali. In Questo muro, abbiamo visto che i riferimenti bellici si infittivano, a rimettere all’ordine del giorno la questione della scelta e della responsabilità; la natura invece non era capace di scalzare il primato del tempo storico; come recita Le belle querce: «Il dolce sguardo d’ansia diceva / che non esistono le belle querce mai / ma soltanto creature in attesa» (TP, p. 361).
Paesaggio con serpente contiene riferimenti indiretti alla guerra che, spesso, vengono desunti da storie non appartenenti al vissuto fortiniano. È il caso di liriche come Gli anni della violenza e Editto contro i cantastorie (TP, pp. 409, 411), non a caso due testi contigui che aprono la sezione Circostanze. Gli anni della violenza è in parte montaggio di citazioni tratte dai diari di Ernesto «Che» Guevara, mentre l’Editto contro i cantastorie è ambientata in Cina e utilizza passi di scritti di Mao Tse-Tung. Sono liriche, dunque, che propongono parabole legate ai “paesi allegorici”. L’Editto fonde temporalità diverse, descrivendo una Cina attraversata dalle guerre civili; il potere consolatorio del canto viene rifiutato, perché ricorda i «poveri morti» riportando il «passato irrecuperabile»: la comunità non vuole più che la vecchia vita sia «santa e sopportabile», ma che venga riscattata dalle battaglie del presente. La messa in discussione di qualsiasi forma di consolazione estetica è radicale. Ciò non significa che la letteratura non abbia una funzione in rapporto alla memoria storica. È ciò che emerge in uno degli Otto recitativi (Perché alla fine…) (TP, p. 446), dove la dialettica non è più tra i soli tempi della storia dell’uomo, ma tra questi e la natura:
tutto il genere umano a paragone
della natura e della universalità delle cose?»
I ragazzi corrono senza fiato.
Le pinete scricchiolano al sole.
Di qui la società è invisibile.
Ma se continuiamo a non volere la verità
sarà terribile la nostra via.
È bene che lo sappiamo una volta per sempre.
La battaglia ebbe luogo prima del bivio
dove la strada fa una larga svolta.
Il nome lo rammenta Livio, lo storico antico.
E non guardate dove le stelle si riproducono? Non volete
nemmeno osservare le piccole persone
che stridono sotto le nostre scarpe?
Come l’agonizzante diventa sasso lo sapete.
Come si butta via
die Leiche il cadavere spezzato l’avete visto.
La categoria del “remoto” credo sia associabile anche ai testi “di guerra” dell’ultimo libro poetico di Fortini, Composita solvantur. Faccio riferimento alle Sette canzonette del Golfo, nelle quali l’ironia amara è in qualche modo specchio dell’impotenza all’azione: secessione, come ha ben visto Lenzini, piuttosto che rassegnazione.17 La distanza, allora, è qui innanzitutto spaziale: la melodia delle canzonette è un’eco della guerra resa spettacolo mediatico, incapace – a differenza delle guerre precedenti – di agire sul presente dell’Occidente, di delineare una nuova configurazione del tempo. Nell’Appendice di light verses e imitazioni, tuttavia, troviamo una palinodia delle stesse Canzonette. In Considero errore… il poeta rinnega il proprio esperimento comico, riconoscendo alla Guerra del Golfo una funzione veritativa («la verità non perdona»). La mesta ironia era un errore, perché il compito di comprendere quegli avvenimenti, che in ottica fortiniana significa farli reagire con il futuro, non è del soggetto: per lui, ormai, quell’evento resta «incomprensibile e senza nome». Con un rovesciamento tipico di Fortini, l’ultimo verso instaura un nuovo tempo, da cui però il soggetto è, consapevolmente, escluso: «(Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare)» (TP, p. 573).
Forse, questo verso può essere utile per leggere diversamente anche la celebre affermazione dell’ultima poesia testamentaria, «E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente: cioè, «Proteggete le nostre verità». Se tutto è da inventare, e se la nozione di verità in Fortini è strettamente legata alla dialettica dei tempi, allora significa che quell’invito è innanzitutto un invito alla trasformazione. Da questo punto di vista, ci aspetta un compito arduo. Proprio prima di enunciare l’invito, vi è l’ultima visualizzazione bellica fortiniana, che ritorna alla Seconda guerra mondiale: è l’immagine dei ventotto di Panfilov, attraverso le parole estreme del commissario politico Klockov nel giorno e nel luogo dell’estrema vicinanza della Wermacht alla capitale sovietica («Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci. / Abbiamo Mosca alle spalle»; TP, pp. 561-562). Come mostrato in un recente saggio di Tommaso Di Dio,18 l’eroico sacrificio dei ventotto di Panfilov, che a prezzo della vita avevano fermato fanteria e carri armati tedeschi, si è dimostrato essere un falso di regime. Nel 2015, documenti dell’Archivio di Stato Russo hanno svelato che la leggenda era stata in parte costruita dalla stampa propagandista e che, con l’assenso delle dirigenze sovietiche, il mito fu alimentato e non smentito: «la storia ha un modo di ridere che è ripugnante» (27 aprile 1935, TP, p. 405).
Da questo percorso che ho delineato, possiamo trarre due tipologie di conclusioni: la prima individua il posto di Fortini all’interno di quella schiera di poeti rievocati all’inizio; la seconda ci consente di guardare al nostro presente. Il trauma della guerra nella poesia del secondo novecento è uno strappo che non permette di ricucire una storia: frutto della rimozione, i numerosi spettri che popolano i versi di autori come Sereni e Caproni sono anche la testimonianza di questa impossibilità. Il fantasma «è un passato non pacificato [che] risorge inaspettatamente come un vampiro e cerca di insediarsi nel presente».19 Per continuare con la metafora fantasmatica, potremmo dire che Fortini reduplica lo spettro: a uno che dal passato prova a insediarsi nel presente, Fortini oppone quello di un futuro in grado di sussumerlo, così da non bloccare il tempo e tentare una ricucitura, per quanto spostata in avanti, di una storia. In questo modo, la poesia fortiniana si sottrae alla natura intermittente della temporalità lirica: non alternanza di epifanie e ripetizione o la circolarità aporetica di un tempo dominato dal mutamento di una fissità, ma il tentativo di tenere connesse le ante del passato e del futuro. Ciò non significa che ci troviamo davanti a un tempo omogeneo e lineare: quello è il tempo delle magnifiche sorti e progressive cui Fortini si sottrae, non credendo nella inevitabile perfettibilità dell’uomo. La connessione si dà nell’attesa della catastrofe trasformativa: potranno cambiare estensione e durata dei tempi, ma la dialettica principale è questa.
La seconda conclusione, invece, è legata all’immagine di società che quella dialettica suscita. Se il passato, come la collina di San Siro, in qualche modo è sempre nel nostro presente, anche quando celato, il vero discrimine per Fortini credo sia il futuro. E questo ci permette anche di vedere chiaramente cosa ci divide da lui. L’omogeneità lineare e accelerata del tardo capitalismo abita le nostre menti come una seconda natura. Lo abbiamo visto in questi anni di pandemia: al netto dei traumi subiti, far fronte alla catastrofe ha significato ristabilire quanto prima la possibilità che il futuro sia in continuità con il pre-catastrofe. Sono note le molte connessioni tra le Tesi di filosofia della storia di Benjamin e la dialettica di Fortini. Tra i maggiori punti di contatto, vi è quella «debole forza messianica» capace di creare «un appuntamento misterioso tra le generazioni», che permette di dire: «siamo stati attesi»,20 come emergeva ancora negli ultimi testi di Composita solvantur. Ciò significa che anche i vivi dovrebbero avere la capacità di porsi in attesa: ma questo può avvenire se vi è una visualizzazione del futuro, un’ipotesi da immaginare. Noi cosa attendiamo?
1 A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale [1998], Milano, Bompiani, 2018.
2 W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana. 1941-1956, Torino, Einaudi, 1980.
3 G. Alfano, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2014, p. 2014.
4 G. Raboni, Il prima e il dopo, in Id., La poesia che si fa. Cronaca e storia del novecento poetico italiano (1959-2004), a cura di A. Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, pp. 187-189: p. 188.
5 N. Scaffai, «Il luogo comune e il suo rovescio»: effetti della storia, forma libro ed enunciazione negli «Strumenti umani» di Sereni, in Id., Il lavoro del poeta. Montale Sereni Caproni, Roma, Carocci, 2015, pp. 136-171.
6 F. Fortini, Dieci inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, a cura di S. Peluso, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 30.
7 Vd. F. Fortini, Foglio di via e altri versi, a cura di B. De Luca, Macerata, Quodlibet, 2018.
8 F. Fortini, Venticinque poesie 1961-1968, s.e. [1969].
9 P.P. Pasolini, Le ossessioni di Fortini, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Luade, Milano, Mondadori, pp. 1189-1192.
10 F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, p. 300; d’ora in avanti TP.
11 Sulla dialettica temporale, mi limito qui a citare alcuni lavori che sono stati utili per questo percorso: F. Diaco, Dailettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, Macerata, Quodlibet, 2017; F. Moliterni, Poesia e tempo in Franco Fortini, in Id., Una contesa che dura. Poeti italiani del Novecento e contemporanei, Macerata, Quodlibet, 2021, pp. 121-136; G. Nava, Tempo e memoria nella poesia di Fortini, in Dieci inverni senza Fortini. 1994-2004. Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa (Siena 14-16 ottobre 2004; Catania 9-10 dicembre 2004), Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 357-363.
12 J. Starobinski, Introduzione alla poesia dell’evento [1943], in «Caffè illustrato», Dossier Resistenza, a cura di G. Pedullà, 23, 2005, pp. 40-43.
13 F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni [1960], in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 563.
14 F. Fortini, Coro dell’ultimo atto, Imitazione del Tasso, in «Il Politecnico», 5, 27 ottobre 1945, p. 3.
15 L. Lenzini, Stile tardo. Poeti italiani del Novecento, Macerata, Quodlibet, 2008.
16 F. Fortini, P. Jachia, Fortini: leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993, p. 63.
17 L. Lenzini, Giacimenti di futuro. Appunti su «Composita solvantur», in Id., Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Lecce, Manni, 1999, p. 221.
18 T. Di Dio, Proteggete le nostre verità. Una lettura di «E questo è il sonno…» di Franco Fortini, in «Siculorum Gymnasium», LXXI, IV, 2018, leggibile anche qui.
19 A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. a cura di S. Paparelli, Bologna, il Mulino, 2002, p. 194.
20 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1995, p. 76.