Requiem dell’Undici Settembre
Variazioni su September 1, 1939 di W.H. Auden
Giancarlo Gaeta
Suoni lenti dolcemente ritmati da un ragazzo, invitano una giovane alta e sottile a un passo di danza.
L’angustia del giorno al termine d’un decennio violento e disonesto, si avvolge in un velo sottile di dolore e bellezza.
Filippo Brunelleschi sapeva l’arte di sollevare in alto il peso della terra, non con ciechi edifici che frugano il cielo.
Racconta nel suo libro di pietra la gravità della materia e lo slancio dello spirito, il dolore che schiaccia e quello che innalza.
Ma perduta è da tempo la coscienza del limite, un umanesimo senza grazia ci ha spinto nello smarrimento.
È immersa nel primo sonno la piazza cullata dal gorgogliare della fontana; sognano un passato di glorie il vecchio palazzo turrito e le sculture sotto la loggia.
Ma non quelli raccolti laggiù attorno al vuoto delle torri, costretti a sognare il sogno annichilente di un pazzo.
Si muovono piano lungo il recinto dell’immensa vasca; tra cascate d’acqua che non danno ristoro, passano trasognati il dito sulle lettere dei nomi incisi.
Bambini spaventati per la perduta impunità poggiano la fronte sul marmo, sfregano la matita su un foglio per catturare un segno a cui aggrapparsi.
Onde di rabbia e paura cercano sfogo e conforto; non trovano altro che i frammenti sparsi di un sogno euforico.
La fortezza non è più così familiare, volti minacciosi denunciano da larghe fessure l’imperialismo e il torto internazionale.
Ma i governanti sanno come trarre profitto da tanto smarrimento: siamo andati, dicono, a colpire chi ci ha umiliato.
Demoni grandi e minuti hanno moltiplicato il gesto inaudito; coatti del dio psicopatico che lo aveva segretamente concepito.
A decine di migliaia altri morti si sono aggiunti, anch’essi innocenti; per loro non ci sarà commemorazione né nomi incisi a perenne memoria.
The unmentionable odour of death
Offends the September night.
dedicata a Gino Strada e a Mimmo Lucano
La stampa internazionale lo riconosce: vent’anni dopo l’ordine non è stato ristabilito. Fallito è l’intento di rimodellare mondi plurali a propria immagine. Si va via in fretta, lasciandosi dietro sofferenze e distruzioni in paesi lontani: 900.000 morti, 38 milioni di profughi. Il sipario che si voleva chiudere è crollato addosso a chi credeva di manovrarne i tiranti. E della democrazia si è nel frattempo smarrito il contenuto.
Giorni amari per l’imperium: una guerriglia impossibile da vincere ne ha ridimensionato la folle pretesa globale. Palese è oramai la misura dell’impotenza militare, inquietante l’effetto interno. Una guerra senza limiti temporali né geografici ha spezzato fondamentali ragioni d’esistenza in quanti la hanno subita, ha fatto emergere gli impulsi peggiori nella nazione che la ha immaginata. L’undici settembre è rimasto con noi.
Un popolo di sradicati preme alle frontiere in cerca di un asilo, che l’Europa incerta e spaventata non vuol dare. Non sa guardare a ciò di cui è fatta la propria entità culturale, neppure nei giorni in cui l’euforia atlantica vien meno. Meglio starsene protetti nei confini di piccole parrocchie, che aspirare a una grande patria di antichi saperi. Ma come accogliere senza coscienza storica né qualità morale l’altro che giunge dal passato?
Quel che Auden – il primo poeta ad aver compreso del XX secolo le specifiche tentazioni, scrive Brodskij – presentì ottant’anni fa è sotto i nostri occhi: la Germania era il concentrato di mali profondamente iscritti nella nostra cultura, non sarebbe bastato asportare il cancro nazista per risanare il corpo della civiltà occidentale. Non può riuscire finché ci si crede senz’altro dalla parte del bene.
Quanto a noi, ammiriamo ancora qualcuno tra quei pensatori – di Auden coetanei e parimenti partecipi del secolo – che non si accontentarono di essere nel giusto, che del male vollero indagare la diffusione, per renderne coscienti i contemporanei. Ma questa generazione non ha saputo essere parimenti immersa nel presente; di loro abbiamo fatto proficui oggetti di studio, specchi opachi in cui riflettere un piccolo io.
A congiungere il primo all’undici settembre non è solo la ripetizione oscena della violenza. Ce lo ricordava il poeta: coloro a cui male è fatto, male faranno in cambio. Tale è fin dall’inizio l’oscillazione implacabile del pendolo, che punisce automaticamente l’abuso della forza. Arrestarlo è soprannaturale e ha un prezzo alto (lo hanno imparato Antigone e Gesù); a noi dovrebbe bastare un margine di democrazia, per restare nella misura dell’umano?
Un’erudizione meticolosa basta a descrivere lo stato del mondo, non a dire le ragioni che sempre di nuovo spingono una cultura alla pazzia. Di rotture instauratrici abbiamo bisogno, per discernere gli impulsi oscuri, nell’epoca che da Lutero ad oggi conosce il trionfo dei saperi positivi. Ci occorre la parola del poeta e del mistico e dell’artista per sapere ancora la fiaba antica, ci occorre la forza dei deboli per resistere alla violenza dei forti.