
La filologia ha una pessima fama (peggiore di quella dell’economia, la “triste scienza” che per lo meno può vantare un rapporto con la produzione) perché è considerata una disciplina che favorisce una sterile pedanteria. Nella memoria pubblica l’ombra di Edward Casaubon, il gretto personaggio di Middlemarch di George Eliot, è lenta a scomparire. Non sono ad essa sfuggiti neppure i filologi più eminenti: vi è chi pensa che l’aridità dei lavori di Housman su Manilio sia in contrasto, o in sgradevole connessione, con la splendida fioritura della sua poesia, e l’autorità di Wilamowitz sia derisa dal trionfo postumo di Nietzsche. Oggi ben pochi saprebbero citare il nome di un filologo contemporaneo. Ma questa disciplina ha goduto di una sorta di vita oltre la vita nella singolare carriera di Sebastiano Timpanaro, lo studioso e pensatore italiano scomparso nel novembre del 2000, una delle menti più luminose e originali della seconda metà del Novecento.
Timpanaro nacque a Parma nel 1923, figlio di un intellettuale siciliano del suo stesso nome, il quale – per gran parte dell’infanzia di Sebastiano – insegnò scienze in un liceo fiorentino, prima di diventare direttore della Domus Galileiana di Pisa. Timpanaro padre, che nel secondo dopoguerra si sarebbe iscritto al Partito socialista italiano, raccoglieva disegni e incisioni, e coltivava una scienza d’impronta umanistica nella tradizione di Leonardo e di Galileo. La madre di Sebastiano curava edizioni di Proclo e dei pitagorici. Quando il padre morì nel 1949, dopo una lunga malattia, il giovane Timpanaro dette alle stampe una raccolta postuma degli scritti paterni di storia della scienza.1 La somiglianza fisica tra padre e figlio doveva essere sorprendente. Nell’ingresso in penombra dell’appartamento fiorentino della famiglia Timpanaro era appeso, negli anni Ottanta, uno scarno ritratto che colpiva subito l’occhio dell’osservatore e sembrava, a prima vista, quello del figlio, nonostante i lineamenti segnati dal tempo: un errore che la moglie di Sebastiano, studiosa di storia del Settecento, dovette correggere in più di un’occasione. Benché i campi d’indagine del padre e del figlio fossero diversi, il rapporto di filiazione era chiaramente di ordine spirituale e non soltanto visivo.
Sebastiano Timpanaro jr (fu questa la firma che egli appose alla sua prima prefazione) studiò, durante la guerra, filologia classica all’Università di Firenze sotto la guida del riconosciuto maestro di quella disciplina in Italia, Giorgio Pasquali. Più tardi, fu un più giovane, e prediletto, collega del famoso esule tedesco Eduard Fraenkel, che tenne spesso dei seminari in Italia a sussidio dei corsi universitari che svolgeva a Oxford. Intorno ai venticinque anni di età, Sebastiano pubblicò alcune ricostruzioni dei versi dell’antico poeta latino Ennio, e Fraenkel pensò a lui per la preparazione di una nuova edizione critica di Virgilio. Ma questa sua aspettativa rimase delusa. Timpanaro non ebbe la pazienza, come riconobbe apertamente, di affrontare quell’immenso lavoro. Le sue straordinarie doti nel campo della critica testuale si traducevano in una quantità di puntuali annotazioni (adversaria), dalle quali scaturirono infine migliaia di pagine di meticolosa dissezione di passi di Lucrezio, Marziale, Virgilio, Frontone, Ovidio, Seneca, Lucano, Servio, Sallustio, la Historia Augusta: «Questi si potrebbero chiamare – egli scrisse – gli “scritti minori” di un filologo che non ha al suo attivo “scritti maggiori”».2 Una volta Timpanaro descrisse questa sua pratica tradizionale come quella di un cultore di microstoria nell’ambito della sua disciplina filologica. Il suo primo libro, scritto poco dopo aver compiuto i trent’anni, fu una riscoperta dei ritrovamenti testuali di Leopardi, la cui fama di poeta aveva per lungo tempo oscurato la serietà del suo lavoro di filologo classico.3 Il suo secondo libro fu uno studio (subito riconosciuto come una fondamentale revisione di opinioni tradizionali) che aveva per argomento la nascita – negli anni della Restaurazione – dei procedimenti di critica testuale associati al nome dello studioso tedesco Karl Lachmann, considerato abitualmente come il principale creatore delle moderne tecniche della recensio – contrapposta all’emendatio – di testi antichi: tecniche da lui applicate, con grande fama, a Lucrezio, al Nibelungenlied, a San Luca.4 La genesi del metodo del Lachmann assicurò a Timpanaro una rinomanza internazionale in questo campo di studi, accresciuta dal continuo flusso di correzioni e di congetture che fecero seguito a quel libro. Più tardi, egli fu eletto membro dell’Accademia dei Lincei e della British Academy.
Ma in tutto questo ci fu sempre un’anomalia. Questo grande esperto in un campo di studi estremamente tecnico (una provincia par excellence dell’erudizione accademica), non ebbe mai una cattedra universitaria o un posto in un istituto d’insegnamento superiore. Egli non disponeva neppure di mezzi economici propri. Per vivere, Timpanaro lavorò come correttore di bozze (un lavoro che non è mai stato molto considerato, e tanto meno ben pagato, che lo lasciò spesso in difficoltà finanziarie) per una casa editrice fiorentina, La Nuova Italia, di proprietà della famiglia Codignola. Notizia di questo fatto giunse all’orecchio, a quanto sembra, di George Steiner, autore del romanzo breve Proofs, il cui personaggio principale è spesso identificato dagli italiani con Timpanaro. Il collegamento si basa su un equivoco, che rivela molte più cose su coloro che compiono quell’identificazione che sull’oggetto di essa. Il correttore di bozze di Steiner è un comunista arretrato, che lotta contro la distruzione delle sue illusioni in melodrammatici dialoghi con un compagno, sacerdote cattolico, ostile come lui al consumismo capitalistico, ma più chiaroveggente di lui sullo stalinismo. Al culmine di quei colloqui, l’infelice protagonista esclama: «Siamo figli di Hagar… Non può esistere un comunista, un vero socialista, che non sia, in fondo, un ebreo»,5 per poi rientrare – con una penosa capitolazione – nelle file di un partito, ormai completamente adeguatosi al capitalismo, che non ha più bisogno di lui. Qualunque cosa si possa dire in proposito, l’autore di Proofs non può certo essere accusato di inesattezza per una vicenda narrativa che si occupa di problemi esclusivamente suoi.
Timpanaro apparteneva a un altro mondo. Come suo padre, si iscrisse al Partito socialista italiano nel 1945, e fu attivo nella sinistra di quel partito per quasi vent’anni. Nelle elezioni del 1948, che determinarono una svolta nella storia dell’Italia postbellica, il Psi optò per una lista unica col Pci contro la Democrazia cristiana sostenuta dal Vaticano e dalla Cia. Timpanaro fu uno dei giovani socialisti che si opposero aspramente a tale scelta, considerando il gruppo dirigente del Pci poco più di una versione laica del Sant’Uffizio; disperato, egli scrisse – imitando le forme di una tragedia greca – una violenta parodia del congresso del Psi che aveva preso quella decisione.6 Ma l’ostilità allo stalinismo non lo portò mai ad alcuna indulgenza nei confronti della socialdemocrazia, in tutte le sue forme. Finché il Psi mantenne la sua opposizione alla Democrazia cristiana, egli rimase nelle sue file; ma quando – con un voltafaccia finale – quel partito formò nel 1964 una coalizione con la Dc (il primo governo di centrosinistra del dopoguerra), la sua ala più radicale, prevedendo giustamente che quell’esperienza, lungi dal riformare l’Italia, avrebbe invece trasformato il Psi, abbandonò il partito per creare una formazione politica autonoma. Timpanaro rimase un militante di questa organizzazione, e dei suoi esiti successivi, fino alla metà degli anni Settanta. Il suo socialismo rivoluzionario non si riduceva a un puro attaccamento sentimentale. Più tardi, respingendo la definizione di sé come un intellettuale isolato, scrisse: «Ho trascorso più tempo nel partecipare a discussioni e manifestazioni politiche, nello svolgere compiti cosiddetti di “quadro intermedio” (ma assai più vicino alla base che ai vertici), che nello studiare: intendo dare a questa affermazione un valore di esatto computo cronologico, senza alcun esibizionismo populistico, caso mai con una certa retrospettiva autoironia».7 La sua posizione politica era marxista e antistalinista; e – cosa molto più rara nelle file dell’estrema sinistra italiana – era critica anche nei confronti del maoismo.
In alcuni temperamenti, le capacità intellettuali e le simpatie politiche hanno scarsi legami fra loro, o non ne hanno alcuno. L’antisemitismo di Frege o il filostalinismo di Wittgenstein non avevano connessioni significative con la loro filosofia. Sono casi abbastanza comuni. Timpanaro era diverso. Le sue tendenze politiche non erano una sua debolezza personale o il casuale point d’honneur del filologo: ispiravano e trasformavano il suo lavoro. Il fatto di aver preso le mosse, su un piano altamente tecnico, da Leopardi non fu accidentale. Da un punto di vista formale, Timpanaro ampliò il suo campo di operazioni passando dalla critica testuale alla storia della cultura; da un punto di vista sostanziale, fu il suo impegno politico che lo portò ad estendere il campo dei suoi interessi. Il ponte fra l’una e l’altra disciplina fu Leopardi: il filologo classico che fu anche il più implacabile avversario della cultura della Restaurazione, il poeta che fu anche un materialista visionario. Le due opere principali scritte da Timpanaro a metà della sua carriera erano costruite intorno a questa eredità. Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano (1965) e Sul materialismo (1970) presentano il paesaggio intellettuale dell’Ottocento e del Novecento (il primo libro su scala italiana, il secondo su scala occidentale) attraverso il prisma di alcune personalità e di alcuni movimenti, i cui percorsi specifici si può dire definiscano un’epoca.
Il primo libro esamina la particolare posizione occupata da Leopardi, fiancheggiato a una certa distanza dall’amico Pietro Giordani, nella cultura italiana del periodo postnapoleonico, e si conclude con l’analisi di quella linea che dal patriota liberale Carlo Cattaneo – eroe dell’insurrezione milanese del 1848 contro il dominio austriaco – giunge fino allo studioso di linguistica comparata Graziadio Isaia Ascoli nel periodo postrisorgimentale. Il secondo libro svolge una critica sistematica sia del marxismo occidentale, che Timpanaro accusa di aver abbandonato l’eredità materialistica di Engels, sia dello strutturalismo, accusato di aver distorto l’eredità linguistica di Saussure. Timpanaro poteva intervenire con particolare autorità su entrambi i terreni. Pochi studiosi avevano, al pari di lui, padroneggiato in modo così completo il corpus degli scritti di Leopardi e di Ascoli; e nella vasta letteratura sullo strutturalismo, come negli scritti degli strutturalisti, nessuno era in grado di rivaleggiare con lui nella conoscenza della storia comparata della linguistica occidentale. La vivacità con cui Timpanaro poteva trattare i propositi edificanti di Alessandro Manzoni, o liquidare le affermazioni di alcune venerate autorità come Lévi–Strauss o Chomsky, era il frutto di una profonda competenza professionale.
Tre furono i temi su cui s’incentrò la produzione di Timpanaro in questo periodo della sua vita. Il primo fu specificamente culturale. Se il romanticismo europeo trionfò ideologicamente ed esteticamente sotto la Restaurazione, questo successo fu dovuto a una particolare combinazione di aspetti. Da un lato, come ideologia postrivoluzionaria, il romanticismo trasse profitto dall’esaurimento dell’aspetto aristocratico dell’Illuminismo, sostituendo alla sua superficiale galanteria una nuova serietà d’intenti e un’intima passione. Esso seppe far propri alcuni validi contenuti della lotta continentale contro l’espansionismo napoleonico: il diritto dei popoli all’indipendenza, il desiderio di pace, il rifiuto del culto della gloria militare. Infine, poté rivendicare il merito di aver liberato l’arte dalla tirannia dell’imitazione dei classici: le convenzionali unità aristoteliche, un modo di esprimersi troppo rigido e freddo. D’altro lato, il romanticismo riuscì a soddisfare il bisogno delle nuove classi borghesi di affermarsi come la forza sociale emergente dell’epoca, senza correre il rischio di una radicalizzazione plebea della lotta contro l’assolutismo come quella che aveva caratterizzato il giacobinismo. L’ideologia più confacente a questo scopo fu un flessibile cristianesimo postrivoluzionario, capace di mescolare, in dosi opportune, tradizione e progresso. Politicamente, il romanticismo di questo periodo non fu sempre conservatore: a uno Chateaubriand o a un Novalis si contrapponevano un Hugo o un Mazzini. Nondimeno, tutte le varietà del romanticismo presentavano due caratteristici limiti: una diffusa religiosità che si esprimeva nelle forme più diverse, e un lacrimoso populismo di tendenza più nazionale che democratica.
Contro questo modello dominante si ergeva, a giudizio di Timpanaro, una controcultura: la tradizione classicista, il cui maggiore rappresentante fu Leopardi. Nell’ambito di questa tradizione esistevano alcune tendenze in tutto o in parte nostalgiche, cristallizzate in forme morte. Ma l’espressione più intransigente e coerente del classicismo sfidava i sentimentalismi dell’epoca. Respingendo il culto romantico del Medioevo, essa guardava alle virtù repubblicane di Atene e Roma, e, disprezzando ogni specie di spiritualismo, si richiamava ai più intransigenti pensatori materialisti dell’Illuminismo: La Mettrie, Helvétius, Holbach. Era un classicismo, isolato dal sentimento popolare in un’epoca di stagnazione controrivoluzionaria, le cui forme estetiche erano spesso deliberatamente arcaicizzanti, veicoli di un polemico disdegno per i ritmi ruffianeschi da cui erano circondate, come, a suo tempo, lo erano state quelle di Lucrezio. Ma la sua concezione intellettuale e politica, il rifiuto di ogni compromesso con il mondo delle monarchie restaurate, era molto in anticipo rispetto a certi atteggiamenti romantici, che erano quasi di casa in quel mondo.
Nell’opera di Leopardi questo classicismo postumo si caricò di una straordinaria tensione che era ancora in gran parte latente nell’Illuminismo. Fu questo il secondo fondamentale tema d’indagine di Timpanaro. Il Leopardi, una volta staccatosi dall’educazione ricevuta nell’ambiente familiare, combinò gli impulsi sociali e politici progressivi dell’Illuminismo più radicale con un inesorabile pessimismo sulle sorti della felicità umana, anche nella migliore società: un pessimismo che differenziò nettamente la sua opera dall’orientamento principale dell’Età della Ragione. La natura, alla quale tanti pensatori del Settecento si erano appellati come alla forza benefica che consentiva di mettere sotto accusa la tirannia del pregiudizio e l’artificiosità delle usanze tradizionali, cambiò gradualmente volto nella visione leopardiana, diventando la perfida matrigna, le cui crudeltà (malattie, debolezza fisica, senescenza, morte) condannavano in definitiva tutti gli esseri umani a un’infelicità senza speranza. Un materialisimo conseguente non concedeva conforti intellettuali. Ma la tempra del pessimismo leopardiano non era stoica: non raccomandava alcuna rinuncia alle passioni, e invitava a godere tutti i piaceri che è possibile trovare nel mondo. Le sue conclusioni non avevano nulla di comune con la più tarda metafisica della rassegnazione misantropica di Schopenhauer. La risposta di Leopardi alla debolezza e all’insignificanza della vita umana nell’universo era del tutto opposta: un “titanismo” che faceva appello alla solidarietà universale nella lotta contro la natura, una lotta in cui ogni vita è destinata a soccombere.
Timpanaro, una delle massime autorità su Leopardi (i cui eredi recanatesi gli negarono, per ragioni politiche, il diritto di pubblicare gli scritti filosofici giovanili del poeta, benché fossero ormai diventati, giuridicamente, di pubblico dominio), non era certo la sola persona che ne ammirasse il genio. Né fu il primo a indicare il significato che esso aveva per una sinistra moderna. Già altri lo avevano fatto, spesso con un certo grado di sopravvalutazione e di anacronismo. Le interpretazioni correnti di Leopardi mettevano l’accento sulla sua ostilità al clericalismo, sul suo egualitarismo repubblicano (la sua protopolitica), o sul suo materialismo. Timpanaro considerò invece il pessimismo come il più originale e importante contributo di Leopardi alla cultura della sinistra contemporanea. Era una posizione molto più radicale. La raccomandazione di un altro gobbo, Gramsci, era stata (con una famosa formula presa a prestito da Romain Rolland): «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà». Ma si trattava di un pessimismo tatticamente calcolato, la precauzione di ogni lucido stratega che invita a non sottovalutare il nemico. In carcere, Gramsci non vide in Leopardi uno spirito a lui affine, e lo criticò per la sua concezione della natura come fondamentalmente ostile all’uomo. Anzi, con un errore rivelatore, Gramsci considerò questa concezione come espressione di un «torbido romanticismo», cieco di fronte al progresso storico.8 Timpanaro sosteneva invece che quella visione non solo era compatibile con un marxismo rivoluzionario, ma ne costituiva il necessario complemento.
Era un messaggio inattuale in Italia, un paese nel quale le sollevazioni dei tardi anni Sessanta durarono fino alla metà degli anni Settanta. Timpanaro ammoniva l’estrema sinistra, a cui apparteneva, che ogni unilaterale esaltazione della “prassi” ignorava, a proprie spese, l’ineliminabile elemento di passività insito nell’esperienza umana, cioè non teneva conto di tutto quello che non viene fatto, ma inevitabilmente subìto. Riconoscerlo, insisteva, era parte integrante di ogni autentico materialismo. In un periodo di sfrenato attivismo, era difficile immaginare un messaggio più sconcertante e impopolare di questo. Timpanaro faticava a sottolineare che la liquidazione psicologistica del pessimismo di Leopardi come espressione della disperazione di un invalido (un facile argomento tradizionalmente avanzato dai suoi critici) non aveva alcun valore. La scoliosi di cui il poeta soffriva lo indusse certamente a concentrare la sua attenzione sul rapporto fra gli esseri umani e la natura, ma “l’esperienza della deformità e della malattia non rimase affatto nel Leopardi un motivo di lamento individuale, un fatto privato e meramente biografico, e nemmeno un puro tema di poesia intimistica, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo”.9 Timpanaro, in realtà, ricordava ai suoi riluttanti lettori che il pessimismo cosmico del Leopardi, la sua assoluta convinzione dell’incombente annientamento del mondo – “una confutazione di ogni mito dell’immortalità delle opere umane” – era stato condiviso dal più ottimista dei marxisti, Federico Engels. Il coautore del Manifesto del Partito comunista
Culturalmente, tuttavia, fra il tempo del Leopardi e quello dell’ultimo Engels era intervenuto un significativo mutamento. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento il romanticismo era ormai esaurito, e le reazioni classicistiche contro di esso erano svanite. Leopardi è l’ultimo grande scrittore europeo che si presenti come un diretto interlocutore dell’Antichità. Ormai, sull’onda dei sempre crescenti progressi scientifici, era il positivismo la concezione dominante dell’epoca. Un secolo dopo, nessuna ideologia aveva – nella sinistra – una stampa peggiore. Nello screditare la sua malefica eredità, tutte le varietà del marxismo occidentale erano unite. Anche su questo punto Timpanaro andò, ancora una volta, controcorrente rispetto al suo partito (nel senso in cui Marx avrebbe usato questa parola). La cultura positivistica della fine dell’Ottocento, quali che fossero i suoi limiti o le sue conclusive semplificazioni, rappresentò, sosteneva Timpanaro, una rottura con il mito religioso e con le superstizioni popolari, in un’epoca in cui la verità scientifica poteva sembrare ancora una condizione del progresso borghese e l’alta cultura non aveva ancora reciso ogni legame con le aspirazioni popolari.11 Filosoficamente il positivismo fu forse mediocre, ma i suoi risultati in altri campi – dalle scienze naturali alla storia, dalla linguistica alla narrativa – furono notevoli. Clausius, che predisse il raffreddamento del sole, Darwin, Bernard, Helmholz, Delbruck, Zola, furono tra i più eminenti rappresentanti di questa cultura.
Ma, alla svolta del secolo (Timpanaro, ovviamente, non fu il primo a notarlo), vi fu un cambiamento decisivo. Da quando ebbe inizio l’epoca dell’imperialismo, un’altra concezione generale si impose, la cui impronta era, in varia misura, idealista, soggettivista, vitalista. Il progresso scientifico e tecnico continuò in modo ininterrotto, anzi diventò più rapido. Ma ciò avvenne sempre più nel quadro di epistemologie e di filosofie antioggettivistiche (convenzionalismo, empiriocriticismo, contingentismo: Poincaré, Mach, Boutroux), il cui bersaglio era ogni concezione del mondo coerentemente materialistica, che poteva ormai essere liquidata, così come si dovevano liquidare le illusioni di un volgare “senso comune” rifiutato dallo sviluppo delle scienze stesse. Nelle arti, le tendenze naturalistiche cedevano il posto agli esperimenti simbolisti, alle istanze profonde di una sempre mutevole interiorità, alle mistiche aspirazioni o agli indizi rivelatori delle epifanie. Il risultato fu una cultura estremamente brillante, ma molto più scissa dalla vita popolare di quanto lo fossero state le culture che l’avevano preceduta. Da quel momento in poi, si sarebbe profilata una netta divisione fra l’alta cultura di una minoranza elitaria e una produzione di second’ordine destinata alle masse, «una semicultura dozzinale» che aveva il compito di ispirare al proletariato «ideali piccolo-borghesi di moralismo e sentimentalismo dolciastro».12 I compiti di unificazione culturale che il positivismo, a suo tempo, si era posto furono abbandonati. Questa divisione strutturale, sosteneva Timpanaro, si era prolungata per tutto il nuovo secolo e rimaneva ancora fondamentalmente intatta. Il modello della cultura di massa era forse mutato, la tendenza generale della cultura elitaria no. A quelle altitudini, l’idealismo – in una variante o nell’altra (quasi tutte soggettivistiche) – restava la norma.
Un famoso episodio dello scontro culturale avvenuto alla svolta del secolo suscitò in Timpanaro una particolare attenzione. Freud aveva iniziato la sua carriera come un tipico rappresentante della cultura positivistica largamente condivisa dalla professione medica dell’età vittoriana. Le sue premesse originarie erano state robustamente materialistiche, ma la sua teoria psicoanalitica, nel corso del suo sviluppo, si andò sempre più staccando dalle ipotesi neurofisiologiche che l’avevano inizialmente sorretta, per approdare a un sistema speculativo che si era efficacemente sottratto ai controlli scientifici. «Il caso di dottrine che, incominciate come “metafisiche” più o meno immaginose, sono diventate scienze, è normale (basterebbe citare l’evoluzionismo biologico)», scriveva Timpanaro. «La psicanalisi ha seguito il cammino inverso: nata con serie aspirazioni scientifiche, quantunque fin dall’inizio commiste di tendenze speculative, è sempre più regredita da scienza a mito del decadentismo europeo. Oggi assistiamo al fatto paradossale che, mentre la psicanalisi terapeutica registra sempre maggiori insuccessi, i più recisi fautori della psicanalisi sono appunto i letterati e i filosofi».13 Ma ciò non significava che essa fosse intellettualmente futile. Senza alcun dubbio Freud aveva notevolmente arricchito la nostra conoscenza di noi stessi; ma l’aveva fatto nel senso di Musil o di Joyce, più che nel senso di Darwin o di Einstein. Per dimostrare questa differenza, Timpanaro sottopose a indagine un testo, la Psicopatologia della vita quotidiana, che, secondo quanto dichiarato dallo stesso Freud, non costituiva una parte indispensabile della sua teoria generale, ma era stato accolto favorevolmente più di ogni altra sua opera. Il lavoro che Timpanaro dedicò a questa pietra di paragone è un vero tour de force tecnico, ed è anche il più avvincente dei suoi scritti. Il lapsus freudiano (1974) mise in relazione le attitudini del filologo con le pretese dello psicoanalista, utilizzando i procedimenti della critica testuale per investigare il meccanismo della spiegazione freudiana degli atti mancati (parapraxes, secondo la terminologia inglese introdotta da Jones). Esaminando ad uno ad uno gli esempi forniti da Freud nella Psicopatologia, Timpanaro mostrò quanto spesso gli errori di memoria o i lapsus linguistici che Freud aveva attribuito a materiali sessuali rimossi fossero spiegabili in modo più persuasivo come il risultato di una serie di deviazioni dalla norma lessicale, di “corruzioni” che i filologi avevano sottoposto a una sottile e accurata classificazione. Le spiegazioni di Freud erano, invece, tipicamente capziose e arbitrarie, essendo fondate su catene di associazioni che potevano essere alterate o lambiccate più o meno a piacere: Timpanaro si divertì a proporre, partendo dagli stessi materiali e seguendo la stessa logica, alcune sue personali varianti, giungendo a conclusioni ancora più stiracchiate. Veri casi di lapsus “freudiano” esistevano certamente, egli sosteneva, ma la maggior parte di quelli analizzati da Freud (e, a più forte ragione, la maggior parte di quelli che si riscontrano nella vita quotidiana) erano più vicini agli errori dei copisti antichi e medievali: dittografia, lectio facilior, aplografia, saut de même au même, metatesi, faute critique, lapsus polare, ecc. Un materiale psichicamente represso poteva aprirsi la strada verso la superficie attraverso degli atti mancati o errati; l’insistente affermazione di Freud secondo cui la loro molla doveva essere di origine sessuale rappresentava un’ulteriore debolezza della spiegazione da lui proposta, perché quella molla poteva essere anche di natura sociale o esistenziale (timore delle classi subalterne o paura della morte), sfuggita al controllo della censura.
Il lapsus freudiano è una pirotecnica esibizione di erudizione, nella quale la buia notte dell’analisi è attraversata dai proiettili traccianti di una festevole e polemica dottrina. Timpanaro leggeva gli esempi contenuti nella Psicopatologia con l’occhio del correttore di bozze e con la mente di uno studioso di antichità classica. Il fatto che Freud avesse scelto – per il più ampio dei suoi esercizi di interpretazione di un atto mancato – la dimenticanza di un “giovane ebreo austriaco” delle parole con le quali, nell’Eneide, Didone morente invoca un vendicatore (Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor), non avrebbe potuto prestarsi meglio a una critica postuma. Non occorre avere una conoscenza di prima mano del latino per leggere con divertimento la spiegazione, data da Timpanaro, della strana costruzione di quel verso virgiliano, e delle ragioni che potevano indurre qualcuno a dimenticare aliquis, indipendentemente dalle sue inquietudini erotiche. «Che dalle mie ossa sorga un vendicatore»: poteva essere il poeta stesso ad invocare, attraverso i secoli, l’intervento del filologo contro i maltrattamenti subìti dai suoi versi.
Dietro l’arguzia e l’energia del Lapsus freudiano c’era il segreto della professione esercitata da Timpanaro. Egli fu un correttore di bozze non per scelta o per ragioni di circostanza, ma sotto la pressione di una grave forma di nevrosi. In conversazione, egli disse una volta: «Il mio rancore nei confronti di Freud deriva dall’incapacità della psicoanalisi di curarmi». Egli era paralizzato da due paure. La prima era la paura di parlare in pubblico. Fu questa che gli impedì di occupare una cattedra universitaria. L’idea di insegnare in un’università lo atterriva: aveva paura di ammutolire nel momento in cui avrebbe dovuto aprir bocca. L’unica volta in vita sua, mi disse, in cui vinse ogni paura, e scoprì all’improvviso di poter parlare in pubblico con facilità e senza incertezze, fu alla fine degli anni Sessanta. «In quell’atmosfera le mie inibizioni svanirono, e, con mia sorpresa, non ebbi difficoltà a prendere la parola in riunioni di massa». Egli riferiva quel fatto, di carattere eccezionale, frutto dell’agitato clima politico di quegli anni, senza alcuna allusione compiaciuta al dono della parola così “miracolosamente” ottenuta, anzi con una certa ironia. In quei momenti, sui suoi lineamenti così espressivi si disegnava una smorfia. In gioventù, l’aspetto di Timpanaro dovette essere straordinario: un volto forte e delicato, con un accenno di naso aquilino, una bocca ferma e non rilevata, e penetranti occhi scuri. Quando io lo conobbi, i suoi difetti fisici erano visibili, ed egli non cercava di nasconderli. Di statura media, aveva il timbro della voce aspro; l’andatura aveva qualcosa di rigido e meccanico, anche per una lieve tendenza al piede piatto. Gli occhi, di luminosa bellezza e intelligenza, dominavano ogni altro lineamento.
Il suo rigido modo di camminare ebbe forse a che fare con un’altra sua paura. Timpanaro soffriva di una grave forma di agorafobia, che gli faceva paventare ogni genere di viaggio. Se ricordo con esattezza una dolente osservazione di sua moglie, una sola volta in vita sua egli lasciò l’Italia per un breve viaggio in Jugoslavia. La mia impressione è che, con l’andar del tempo, egli diventò sempre più prigioniero di Firenze, una città ormai infestata e rovinata dal turismo della quale parlava senza ammirazione. Un’idea di quel che poteva significare muoversi anche soltanto entro le mura di Firenze può essere ricavata da un passo di un testo da lui scritto alcuni anni dopo Il lapsus freudiano.
L’accettazione della spiegazione politica che Freud aveva dato della propria fobia era caratteristica del modo di pensare di Timpanaro: era espressione della sua equanimità nei confronti di un personaggio che, per altri versi, aveva così aspramente criticato, e del senso storico che sempre lo animava. Ma dietro quel suo saggio c’era anche una finalità contemporanea. In quelle pagine Timpanaro esprimeva la sua ripugnanza per la persecuzione cattolica degli ebrei, e la sua simpatia per il modo in cui Freud si era identificato col suo popolo. «Per tutta la vita Freud rimase convinto che la scoperta, da lui compiuta, di una teoria così compiuta e “rivoluzionaria” come la psicanalisi fosse stata facilitata dalla sua condizione di ebreo, impegnato in una lotta contro una “maggioranza compatta”, conformista, piena di pregiudizi, ostile a chiunque asserisse la propria diversità». Quando nel 1926 si iscrisse all’associazione B’nai B’rith, «dichiarò che, pur non essendo un credente nella religione ebraica e neppure un “nazionalista ebraico”, si sentiva legato alla comunità ebraica, perché ciò lo aveva reso “immune da molti pregiudizi che limitavano altri nell’uso del loro intelletto”».16 L’ammirazione di Timpanaro per questo spirito libero, così leale e imparziale, è evidente.
Ma egli concludeva il suo saggio facendo presente che le cose erano cambiate.
Le idee politiche di Timpanaro non vacillarono con l’età, e trovarono la loro più compiuta espressione in un singolare libro di quegli anni, Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del «Primo maggio» (1983), un’opera di lucida polemica che occupa un posto speciale nei suoi scritti. È dedicata a una delle più strane carriere letterarie dell’Ottocento europeo. Nella storia della letteratura italiana, Edmondo De Amicis (1846–1908) è ricordato principalmente per due opere, del tutto diverse fra loro, che gli dettero originariamente grande fama. La prima, Vita militare (1868), era un libro di edificazione patriottica, basato sull’esperienza che De Amicis aveva fatto, come ufficiale piemontese, nell’ultima fase del Risorgimento, combattendo contro gli austriaci a Custoza. La seconda, Cuore (1886), è un dolciastro libro per ragazzi, che diventò un gigantesco best-seller (ebbe, all’epoca, duecento edizioni e, una decina d’anni dopo, fu tradotto in inglese e in altre lingue europee) ed è ancora un testo modello nelle scuole elementari italiane. Franco Moretti lo ha sbeffeggiato in un brillante saggio sul ruolo del romanzo strappalacrime (l’equivalente di Cuore nella letteratura inglese è Incompreso). A quell’epoca De Amicis era diventato un esemplare punto di riferimento per l’educazione civica e il moralismo sentenzioso dei benpensanti.
Tuttavia, nei primi anni Settanta del Novecento, Italo Calvino “riscoprì” uno degli ultimi romanzi di De Amicis, Amore e ginnastica, apprezzandone la vena erotica. Più tardi, nel 1980, venne pubblicato il manoscritto di un romanzo che De Amicis aveva scritto quasi cent’anni prima, ma aveva lasciato in un cassetto. Il suo titolo era Primo Maggio: un romanzo sul socialismo. Era noto che, nei suoi ultimi anni, De Amicis aveva predicato quella che veniva generalmente considerata una dottrina sentimentale di commiserazione sociale e di armonia interclassista. La reazione pressoché unanime dei critici – e degli stessi curatori del testo – nei confronti di Primo Maggio fu quella di liquidarlo come un abborracciato prodotto di queste vacuità sentimentali, un’opera di scarso interesse politico e di nessun valore estetico. Il libro di Timpanaro è una mordace polemica contro questo tipo di accoglienza riservata al romanzo. Attraverso un’attenta lettura, egli fu in grado di mostrare che Primo Maggio, lungi dall’essere un trattatello senza vita che predicava un ottuso riformismo, con personaggi di cartapesta dagli atteggiamenti del tutto prevedibili, non solo mostrava una notevole abilità di caratterizzazione, ricca di sfumature, ma conteneva una critica rivoluzionaria dell’ordinamento sociale borghese dell’epoca, una critica così intransigente che De Amicis forse lasciò inedito il romanzo per paura di essere incriminato se quelle pagine avessero visto la luce. Nel passare in rassegna i temi principali del romanzo (il modo in cui De Amicis descrive e giudica l’esercito, la scuola, la religione, la famiglia; il quadro dei rapporti fra capitale e lavoro; l’immagine della donna e la questione della libertà sessuale; la concezione che De Amicis aveva della rivoluzione; la sua idea di ciò a cui uno Stato socialista non avrebbe dovuto assomigliare; la sua simpatia per l’anarchismo come contrapposto al socialismo), il commento di Timpanaro ha un tono di vivace critica intellettuale che fa pensare a una sua rapida e appassionata stesura. Primo Maggio non era un pamphlet in forma narrativa: in questo libro De Amicis dava voce in modo persuasivo ai critici di ogni idea di rivoluzione proletaria e offriva una perspicua rappresentazione dei costi di ogni mal calcolata dimostrazione contro l’ordine costituito. Il romanzo aveva indubbiamente le sue debolezze: più ambizioso, era anche meno compiuto di Amore e ginnastica. Nessuno lo considererebbe un capolavoro. E con ciò? Timpanaro concludeva il suo libro con queste allegre, irridenti parole:
Nel corso di tutte queste vicende, egli non cessò mai di lavorare come filologo di grande perizia tecnica. Uno dei suoi ultimi libri è dedicato alla tradizione della filologia virgiliana antica, e si propone di riportare alla luce un’attività di commento testuale nel mondo romano, spesso trascurata come non meritevole di attenzione da parte degli studiosi moderni. Il personaggio centrale dell’indagine di Timpanaro è un oscuro grammatico del primo secolo d. C., Valerio Probo di Beirut, un filologo assolutamente meritevole – come viene dimostrato con dovizia di particolari – del rispetto degli studiosi contemporanei: i suoi meriti non debbono essere sopravvalutati, come fecero i suoi discepoli, ma neanche minimizzati, come hanno fatto i posteri.21 Ci troviamo di fronte a una delle motivazioni più profonde di tutto il lavoro di Timpanaro, legata indissolubilmente all’impulso filologico che lo animava. Il recupero di talenti o di scrittori trascurati, ai quali restituire la fama di cui erano meritevoli, apparteneva allo stesso tipo d’impresa che mira a ripristinare i testi antichi nella loro integrità. Timpanaro iniziò la sua carriera con una rivalutazione della filologia classica di Giacomo Leopardi, messa in ombra dalla sua poesia. Quando scrisse il suo libro sulla genesi del metodo del Lachmann, Timpanaro dovette mettere fra virgolette questa formulazione, perché la sua scoperta fondamentale fu che la classificazione genealogica delle versioni manoscritte non era stata iniziata realmente dal Lachmann, ma da alcuni meno noti studiosi dell’epoca (Madvig, Zumpt, Bernays), il cui lavoro enciclopedico non aveva ottenuto la stessa canonizzazione di quello del Lachmann, «un grande semplificatore, coi pregi e coi difetti che ciò comporta».22 Parlando del classicismo italiano, egli conferì un insolito rilievo a Pietro Giordani accanto a Leopardi; e, sul materialismo, sfidò l’opinione corrente della sinistra, assegnando il posto d’onore a Engels anziché a Marx.
Dopo che ebbe scritto il suo libro su Freud, un amico gli parlò di un saggio pubblicato nel 1923 da un linguista tedesco, Rudolf Meringer, il quale criticava la Psicopatologia della vita quotidiana secondo criteri che anticipavano in parte quelli di Timpanaro. Immediatamente egli lo tradusse e lo fece pubblicare, con un lungo poscritto, per essere sicuro che ogni ristampa del Lapsus freudiano contenesse un riconoscimento della priorità del saggio del Meringer.23 Di tutti i suoi atti di giustizia retrospettiva, il più notevole fu il recupero di un romanzo doppiamente spregiato, Primo Maggio, opera di un autore denigrato per altre ragioni. Ma forse il più affettuoso e commosso è il suo ritratto del libero pensatore livornese Carlo Bini, un carbonaro minore che tradusse Byron e aiutò Mazzini, e – nel carcere dell’isola d’Elba – scrisse alcuni testi splendidamente corrosivi prima di sprofondare nel silenzio, nella malattia e in una prematura morte da bohémien, con grande scandalo dei suoi amici di destra.24 Il lungo saggio di Timpanaro su Bini è uno dei più personali. Uomo di grande modestia egli stesso, abituato a sottolineare i suoi limiti, è forse possibile cogliere un senso di fraternità nella simpatia da lui dimostrata per chi era stato immeritatamente sconfitto o condannato all’oscurità. Ma dietro a tutto questo c’era dell’altro: un egualitarismo insolitamente forte, istintivo. In conversazione, Timpanaro usava raramente il “lei” con chiunque parlasse. In fatto di stile, egli deprecava ogni accenno di esibizionismo o di presunzione, e detestava soprattutto quella che chiamava “civetteria intellettuale”. Sulle questioni relative al carattere delle persone, le sue categorie conservavano un tono settecentesco: il termine di disprezzo da lui usato più di frequente era “mascalzone”.
Quale giudizio possiamo dare dei suoi interessi di studioso? Il contrasto filosofico-politico che egli istituisce fra romanticismo e classicismo nell’epoca della Restaurazione è visto come un fenomeno continentale. Ma la sua dimostrazione rimane nell’ambito nazionale: è in Italia che egli sottopone a verifica la sua tesi. Le prove sono notevoli, ma Timpanaro non spinge molto lontano la sua indagine sulle condizioni di possibilità. In ogni caso, è del tutto chiaro storicamente che fu l’arretratezza dell’Italia – la sua atrofia politica e culturale sotto il dominio straniero e la censura clericale – a produrre così tardivamente il paradosso di un classicismo di avanguardia e, al tempo stesso, di retroguardia. In Italia assai più che altrove, l’Illuminismo esercitò una spinta inesausta e potente, che lo spinse ben oltre i più audaci avamposti naturalistici dei philosophes, confinandolo tuttavia in una posizione di isolamento. Osservando che una delle più grandi figure dell’Europa della Restaurazione schieratasi a favore del romanticismo, rimanendo però fedele all’eredità di Helvétius e di Destutt de Tracy, fu Stendhal, Timpanaro omise di considerare il paradosso di segno contrario, cioè il fatto che in Italia Henry Beyle trovò una vita sentimentale da lui identificata con tutto quanto è romantico, in contrasto con le aride convenzioni della sua patria razionalistica. Una questione di questo tipo non aveva interesse per Timpanaro. Ostile a ogni genere di nazionalismo – e caustico critico degli usi contemporanei del concetto gramsciano di “nazional-popolare” – era poco incline a istituire confronti fra un paese e l’altro. Inoltre, nella sua formazione non vi era nulla di storicista. Più energicamente della maggior parte degli intellettuali di sinistra, egli avversava l’influenza di Croce. Ma ciò che più rimproverava a Croce era il fatto di aver contribuito a «sbarrare porte e finestre» alla cultura non italiana sotto il fascismo, infliggendo così un duplice danno. Come scrisse in un saggio su Giorgio Pasquali, che aveva resistito all’influsso di Croce, «dapprima abbiamo avuto la chiusura provinciale; ora abbiamo, per reazione, l’altrettanto provinciale entusiasmo acritico dinanzi a una cultura europea, specialmente francese».25
Quale fu la posizione di Timpanaro nell’ambito della cultura del suo paese? Da un certo punto di vista, la sua esistenza di solitario non fu poi così atipica. Il mondo universitario italiano – per molti aspetti arcaico, e burocratico in sommo grado – ha per lungo tempo spinto molte delle migliori intelligenze italiane a cercare disperatamente rifugio all’estero. Arnaldo Momigliano, esule in Inghilterra in seguito alle leggi razziali del 1938, decise di non tornare in Italia dopo la guerra (anche se era stato reintegrato nella cattedra di Torino), benché, nel suo caso, le ragioni di questa scelta fossero legate al ricordo stesso della sua emigrazione forzata. Luca Cavalli-Sforza, Carlo Cipolla, Franco Modigliani e Giovanni Sartori ebbero cattedre in America. Studiosi più giovani come Carlo Ginzburg, Franco Moretti, Giovanni Arrighi rifiutarono tutti, quasi per disperazione, posizioni accademiche in patria, e si trasferirono al di là dell’Atlantico. Non si trattò mai di una vera emigrazione intellettuale, perché queste personalità hanno continuato a partecipare attivamente alla vita culturale italiana, dall’estero o durante frequenti soggiorni di lavoro in patria. Se Timpanaro fu un isolato nel suo paese, ciò non dipese dal suo lavoro di correttore di bozze, ma dal fatto che i temi da lui affrontati erano sgraditi alla cultura che lo circondava. Il grado della sua solitudine non va però esagerato. Egli intrattenne una corrispondenza di un’ampiezza che può ben dirsi settecentesca, e non solo con i suoi colleghi filologi. A Firenze collaborò regolarmente, per oltre un trentennio, a «Belfagor», la più insigne e anticonformista “rivista di varia umanità” italiana, fondata da Luigi Russo (direttore – nel dopoguerra – della Scuola Normale di Pisa), che a quel suo periodico dette il nome del lascivo arcidiavolo di Machiavelli contro gli espressi moniti di Benedetto Croce («un titolo troppo chiassoso») che gli consigliava di non mescolare la letteratura con la politica. È difficile immaginare la produttività di Timpanaro senza quel supporto. All’estero, le risposte più serie al suo lavoro vennero dall’Inghilterra, dove Raymond Williams scrisse un’ammirata critica della concezione della natura difesa da Timpanaro, proponendo una sensibilità materialistica alternativa; in campo psicoanalitico, Charles Roycroft approvò in larga misura il suo trattamento degli atti mancati. La «New Left Review», che pubblicò testi di e su Timpanaro, fu una rivista che rappresentò per lui un punto di riferimento esterno, pur infliggendo regolarmente (sotto la mia direzione) a uno studioso del suo temperamento e della sua preparazione i peggiori oltraggi tipografici, un fiume di refusi che si riversava nella diagnosi che egli stava facendo proprio di quegli errori (un esempio per tutti: «ebreo australiano», al posto di «ebreo austriaco», nella prima pagina del testo in cui Timpanaro smantellava la Psicopatologia della vita quotidiana). Egli si doleva molto di una simile incuria.
Il rapporto di Timpanaro col mondo accademico italiano non fu mai identico a quello che avevano i suoi compatrioti all’estero (la sua posizione economica era molto meno solida, ed egli non poteva contare su quella collegialità – di cui gli altri godevano fuori d’Italia – che valesse a compensare una potenziale fredda accoglienza in patria); ma nel suo atteggiamento di distacco e in quello degli intellettuali italiani all’estero c’era un elemento comune, che è l’esatto contrario di quell’atmosfera di sordidi intrighi e di muffa che aduggia ancora molte università. Proprio perché l’insegnamento superiore non è mai stato realmente modernizzato in Italia (esso rimane ancora, in gran parte, in uno stato di incerta dilapidazione) la professionalizzazione postbellica del mondo accademico non è mai completamente avvenuta. Gli inconvenienti di questo fenomeno sono stati spesso sottolineati. Ma ciò ha determinato anche uno scarso sviluppo di alcune perniciose conseguenze ben note altrove: la mania diffusa negli Stati Uniti di fare riferimento, in modo conformistico e superstizioso, all’Index of Citations, apparati critici gratuiti, gerghi pretenziosi, vanità corporativa, tutto quanto ostacola il progresso intellettuale nella nostra cultura anglosassone. Nella parziale assenza di queste remore, le condizioni esistenti in Italia possono far nascere un rapporto con le idee, non mediato da alcun protocollo istituzionale, di una schiettezza e di un’immediatezza del tutto particolari. Questo effetto (lo si potrebbe chiamare un vantaggio della semi-arretratezza) non è circoscritto a uno specifico punto di vista o a una particolare collocazione politica. Destra, sinistra e centro sono ugualmente rappresentati fra gli studiosi italiani che lavorano all’estero; Norberto Bobbio, che ha sempre lavorato nelle università italiane, ne è un esempio, come lo è Giovanni Arrighi, che ha invece abbandonato quel sistema universitario. Al tempo stesso, l’orribile qualità della cultura di massa italiana (spettacoli televisivi capaci di scoraggiare il più convinto sostenitore di un approccio di tipo popolare) ha rappresentato una salvaguardia contro quelle affettazioni populiste che altrove sono diventate un tipico compenso dell’involuzione professorale.
Mancando l’equivalente di una Modern Language Association o di una BBC, si è conservato in Italia maggiore spazio per un tipo d’immaginazione più antica. Due aspetti la caratterizzano. Il primo è la capacità di far proprie le idee del passato – prossimo o remoto che sia – come se avessero l’immediatezza di quelle attuali, senza alcuna inclinazione celebrativa o ostentazione di dottrina. Rousseau o Mill in Sartori, Bodin o Vico nelle pagine di Bobbio, Agostino o Voltaire in quelle di Ginzburg, Hegel o Rilke in Moretti, Weber o Hicks in Arrighi, ci parlano con straordinaria vivacità e immediatezza. Ciò è in parte l’effetto della seconda virtù di questo atteggiamento così tipicamente italiano: la sua particolare chiarezza e sobrietà espressiva. Sartre una volta osservò che la lingua italiana del dopoguerra era trop pompeuse pour être maniable, simile a un palazzo in decadenza nel quale gli scrittori si aggirassero smarriti, non sapendo più dove trovar posto. Una sintassi a maglie troppo larghe, che praticamente permette alla frase di assumere una forma qualsiasi o una qualsiasi mancanza di forma, ha contribuito a produrre quei sontuosi décombres. Chiunque, in Italia, abbia ascoltato un discorso politico, esaminato un documento amministrativo o dato un’occhiata a un quotidiano, si sarà reso conto di questo. Il modo di scrivere di quella che potrebbe essere chiamata – con una certa, ma incompleta, variazione di significato – la controcultura illuminata di questo periodo, è nato per reazione alla fiacchezza ampollosa di tanti discorsi pubblici in Italia. Ciò che accomuna gli autori che praticano questo modo di scrivere è uno stile semplice e piano che mira all’essenzialità e alla trasparenza. Più ancora di ogni variante contemporanea della lingua francese, potrebbe essere definito un esempio di prosa classica.
Timpanaro apparteneva a questa tendenza nazionale, pur possedendo caratteristiche personali che lo collocavano, in qualche modo, a parte. Sospettoso di ogni ricercato effetto letterario, scriveva in modo schietto ed energico, anche a costo della rifinitura formale, quand’era necessario. Lucano o Bopp sono presentati da Timpanaro con maggiore distanza contestuale, conformemente alla sua grande preparazione, ma in modo rude e potente, capace di sconcertare le attese tradizionali. Ma queste erano solo sfumature. Ciò che faceva di Timpanaro qualcosa di veramente diverso era la sua completa indifferenza per le mode intellettuali, il suo consapevole rifiuto di ogni consacrata scuola di pensiero. Nel giudicare la soverchiante tendenza degli intellettuali occidentali ad essere – in una speciosa forma o in un’altra – antimaterialisti, egli prese posizione al di fuori di ogni consenso, conservatore o progressista. La sua affermazione che la tendenza dell’alta cultura, a partire quanto meno dalla Belle Époque, era sempre stata prevalentemente idealistica è perentoria. Aveva torto? Egli giunse a tale conclusione molto prima dell’alta marea del poststrutturalismo nelle arti e del convenzionalismo nelle scienze: né Kuhn né Derrida, per non parlare di Geertz o di Rorty, trovano menzione nella sentenza da lui pronunciata sulla deriva epistemologica della sua epoca. Si poteva addirittura pensare che, come egli denunciava, tutto quello che lui stava descrivendo non aveva ancora raggiunto il suo parossismo.
Ma l’equilibrio complessivo delle forze intellettuali è un’altra questione. Negli ultimi anni del Novecento c’erano molti segni di un’inversione di tendenza. Nel modo più evidente la nuova genetica ha cominciato ad avere la stessa influenza culturale che la vecchia genetica aveva avuto ai tempi di Darwin. I modelli evolutivi mutuati dalla più recente biologia si stanno diffondendo nei campi più diversi: scienza economica, psicologia, letteratura, sociologia rapporti internazionali. Non si parla che di adattamento, disadattamento, mutazioni, replicazioni. La fama di divulgatori come Gould o Dawkins rivaleggia con quella di cui godettero, ai loro tempi, Spencer o Huxley, naturalmente a un livello superiore. Nel campo stesso della filosofia, tradizionale terreno di coltura delle più raffinate tendenze idealistiche, la neuropsicologia ha i suoi combattivi campioni. Traendo fiducia dagli spettacolari successi che le scienze naturali hanno conseguito negli ultimi venticinque anni, dall’astrofisica al genoma, il positivismo (non il nome, ancora piuttosto sgradito, ma la cosa) sta ritornando in forze. Fino a che punto il suo ritorno in queste forme sarebbe stato fonte di soddisfazione per Timpanaro è impossibile sapere. Certamente ad esso non si è accompagnato uno spostamento a sinistra nel campo politico; è avvenuto, notoriamente, il contrario. Ma Timpanaro non equiparò mai il progresso intellettuale al progresso sociale.
Storicamente, anche nei più grandi intelletti dell’Illuminismo i due progressi potevano essere discordanti. Rousseau, il più avanzato pensatore politico della sua generazione, era sentimentalmente un pietista; Voltaire, politicamente favorevole a un benevolo assolutismo, si faceva beffe delle consolazioni del cristianesimo savoiardo. Per Timpanaro, Leopardi aveva rappresentato la possibilità di una sintesi, al di là dell’uno e dell’altro: fermo repubblicanesimo, intransigente ateismo. Una generazione più tardi, Georg Büchner (sembra strano che Timpanaro non abbia mai accennato a lui) avrebbe attuato una saldatura ancora più ardente delle due posizioni. Entrambi morirono prima che la logica politica del loro pessimistico materialismo potesse essere realmente messa alla prova. Nel caso di Leopardi, Timpanaro riconosceva che le sue convinzioni repubblicane avevano subìto un ripiegamento via via che la sua disperazione cosmica – «L’esistenza non è che un neo… un’imperfezione… a paragone del nulla»26 – si approfondiva, dando luogo a sporadiche espressioni di indifferentismo politico. Ma alla fine, sosteneva Timpanaro, Leopardi aveva raggiunto un difficile equilibrio fra le due posizioni. Certo, la sua comprensione della società restava limitata: era assurdo fare di lui un protosocialista. Ancora più assurdo era il tentativo di farne un ecologista ante diem. Una delle ultime grandi polemiche di Timpanaro fu quella condotta contro il suo amico Adriano Sofri, già leader di Lotta continua, oggi in carcere a Pisa per la condanna subìta in seguito alla testimonianza di un pentito. A quell’epoca Sofri era un teorico del movimento verde, e aveva cercato di annettere Leopardi a quello che Timpanaro considerava un ambientalismo edulcorato, librantesi al di sopra della lotta di classe in una missione di soccorso per la salvezza di Madre Natura, alla quale tutti potevano imparzialmente associarsi.27 La visione leopardiana della natura come perfida matrigna, che infligge sofferenze «infinite e insanabili» agli esseri umani, era l’antitesi di una simile concezione. Il suo pessimismo non poteva in alcun modo essere posto al servizio di Gaia.
Che dire, infine, del pessimismo di Timpanaro? Egli non faceva mistero delle sue fonti biografiche. «Quanto ai pensieri sul rapporto uomo-natura e sulla fragilità biologica dell’uomo», ha scritto, «essi non sono nati in me come un “ripiego”; e mi sia lecito aggiungere che non sono nati semplicemente da una fonte libresca […], ma anche da una precedente e perdurante riflessione diretta, personale, su tutta quella vasta parte di infelicità umana che non può ricondursi alla socialità dell’uomo, ma alla sua biologicità».28 Da alcuni passi delle sue opere risulta chiaramente che la lunga, dolorosa malattia e la morte di suo padre furono profondamente traumatiche per Timpanaro, portandolo vicino al crollo. Le sue stesse invalidità psichiche, benché legate a quell’esperienza, furono sicuramente rafforzate dalle conseguenze intellettuali di essa, e lo avrebbero in ogni caso avvicinato a Leopardi. Soffrendo di un altro genere di deformità, egli pervenne a un analogo pessimismo, altrettanto impersonale, altrettanto ragionato. Ma era un pessimismo non identico a quello del Leopardi, perché Timpanaro aveva un ben più forte senso dell’oppressione e dell’ingiustizia sociale, al di sopra e al di là della nostra caducità naturale. Talvolta, in rapporto all’infelicità umana, la società sembrava a Leopardi di scarsa importanza: l’imperatore e il mendicante cadevano entrambi a capofitto nella tomba. Così inteso, il pessimismo filosofico rischiava sempre di diventare disfattismo politico. Timpanaro non era soggetto a una simile tentazione. Era animato da una fortissima – alle volte, per sua stessa ammissione, troppo veemente – passione politica. Ma era anche del tutto esente dalla monomania del “panpoliticismo”, come una volta lo chiamò. Le idee di progresso storico e di catastrofe naturale non contrastavano in lui. Ma forse il tempo gli giocò ugualmente uno scherzo. Egli aveva cominciato con l’idea che una rivoluzione egualitaria fosse possibile, e un miglioramento della nostra condizione naturale impossibile. Paradossalmente, oggi è l’opinione opposta che tiene banco: il capitalismo non può essere abolito, la nostra infermità sì. Nel Seicento Descartes era sicuro che la scienza avrebbe ben presto garantito agli uomini di vivere in eterno. Stando a certi segni, sembra che vi sia un ritorno di questa fiducia. Timpanaro, quando morì, fu definito da un altro filologo un nemico del Novecento. In tali condizioni, come si può pensare che egli rimanga attuale nel nuovo secolo? Timpanaro non avrebbe avuto nulla a che fare con una simile questione. «L’attualità», scrisse una volta, «intesa come perdurante validità e indiscutibilità di risultati, è un criterio di giudizio riduttivo, antistorico, filisteo».
1 S. Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, Sansoni, Firenze 1952.
2 Contributi di filologia e di storia della lingua latina, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1978, p. 7.
3 La filologia di Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1955.
4 La genesi del metodo del Lachmann, Le Monnier, Firenze 1963.
5 Proofs and Three Parables, London 1992, p. 35 (trad. it. Il correttore, Garzanti, Milano 1999, p. 50).
6 Il congresso del partito. Scherzo filologico-politico, in «Il Ponte», gennaio 1981, pp. 65-80; il testo, come spiega Timpanaro, fu scritto nel 1949.
7 Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Edizioni ETS, Pisa 1982, p. 12.
8 Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 1187.
9 Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965, p. 158.
10 Dialettica della natura, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 51.
11 Sul materialismo, 2a edizione riveduta e ampliata, Nistri-Lischi, Pisa 1975, p. 111.
12 Ivi, p. 115.
13 Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 201.
14 La “fobia romana” e altri scritti su Freud e Meringer, Edizioni ETS, Pisa 1992, pp. 69-70. [Il saggio sulla “fobia romana” di Freud uscì per la prima volta, tradotto in inglese, nella «New Left Review», n. 147, settembre-ottobre 1984, pp. 4-31. Come Timpanaro spiega nella prefazione al libro appena citato (p. 19), il saggio fu da lui ritradotto in italiano e in gran parte riscritto, con l’aggiunta di nuove osservazioni. In questa traduzione le citazioni tratte dal saggio sulla “fobia romana” riproducono il testo riveduto del libro, tranne nel caso della nota 17 (N.d.T.)].
15 Ivi, p. 30.
16 Ivi, pp. 32-33.
17 Freud’s “Roman Phobia”, «New Left Review», n. 147, September-October 1984, pp 30-31.
18 Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del “Primo Maggio”, Bertani, Verona 1983, p. 192.
19 Antileopardiani e neomoderati cit., p. 327.
20 Nuovi studi sul nostro Ottocento, Nistri-Lischi, Pisa 1995, p. XI.
21 Per la storia della filologia virgiliana antica, Salerno, Roma 1986, pp. 18, 127.
22 La genesi del metodo del Lachmann cit., pp. 69-72.
23 R. Meringer, Die täglichen Fehler im Sprechen, Lesen und Handeln, e S. Timpanaro, Postscriptum a Meringer, in «Critica storica», n. 3, 1982, pp. 393-485. [Entrambi gli scritti sono ora raccolti in S. Timpanaro, La “fobia romana” e altri scritti cit. Il primo è alle pp. 86-142: nella traduzione dello stesso Timpanaro Gli errori quotidiani nel parlare, nel leggere e nell’agire (a proposito della “Psicopatologia della vita quotidiana” di Sigmund Freud); il secondo è alle pp. 142-176 (N.d.T.)].
24 Alcuni chiarimenti su Carlo Bini, in Antileopardiani e neomoderati cit., pp. 199-285; cfr. anche Due cospiratori che negarono di aver cospirato, in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., pp. 103-125.
25 Pasquali, la metrica e la cultura di Roma arcaica, saggio introduttivo a G. Pasquali, Preistoria della poesia romana, Sansoni, Firenze 1981, pp. 48-49.
26 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri [4174].
27 Il “Leopardi verde”, in «Belfagor», novembre 1987, pp. 613-637.
28 Antileopardiani e neomoderati cit., p. 11.
29 Pasquali, la metrica e la cultura di Roma arcaica cit., p. 76.