Un’altra cosa da dire è che nella nostra casa non c’erano libri. Io non avevo una biblioteca perché i miei genitori avevano avuto un’infanzia e un’adolescenza durissime, mia madre aveva fatto la terza media, mio padre era riuscito a diplomarsi e a diventare un tecnico progettista. Ha tentato di fare l’università per corrispondenza senza riuscirci.
So ancora a memoria quali erano i titoli dei libri che avevo a casa, tipica letteratura popolare: Victor Hugo, Jack London, La vita delle api di Maeterlinck, La cena delle beffe di Sem Benelli, che non so cosa c’entrasse… però i miei genitori erano delle persone molto sensibili e aperte alla cultura.
Massimo Cappitti: Quali sono stati i tuoi maestri e quali le letture che più ti hanno formato?
SFB.: La mia educazione è stata pilotata da un professore antifascista di scuola liberale, un trentino che era stato in classe con De Gasperi e aveva ovviamente studiato a Vienna. È stato lui a dire: “Mandatelo in quella scuola lì, a quel liceo piuttosto che un altro, fategli imparare il tedesco”, eccetera. Non è stato proprio il mio tutor, però diciamo una persona che ha contato molto nella mia formazione.
Essendo vissuto in questa situazione di mancanza di libri, attribuivo alla scuola un altissimo valore, perché quello che imparavo lo imparavo lì. Ho preso la scuola sempre molto seriamente e ho avuto la fortuna di avere degli insegnanti eccezionali, specialmente al liceo. Siamo arrivati in terza liceo e parlavamo latino in classe come se fosse una lingua viva, qualunque testo greco lo traducevamo a prima vista, tant’è che quando sono arrivato all’università mi sembrava quasi troppo semplice e questo ha determinato il fatto di voler scegliere un’università di più alto livello di Trieste.
MC.: Com’era l’ambiente triestino?
SFB.: Indubbiamente Trieste ha contato molto, perché il corpo insegnante triestino – non so se questo avesse qualche legame con la tradizione asburgica – era di un livello molto molto alto.
Il tedesco ho cominciato a studiarlo privatamente, sempre con degli insegnanti che stavano nel nostro caseggiato, al secondo piano abitavano due sorelle nubili che avevano fatto le scuole austriache, si chiamavano Sacher, come la torta. Il francese lo avevo imparato alle medie, il tedesco e il pianoforte privatamente.
Anche all’università di Trieste ho trovato persone notevoli, c’era Cesare Segre, che faceva filologia romanza, il professore di latino, Mocchino, di filosofia teoretica, Campo, che erano di alto livello, era comunque un’università discreta. Poi, per esempio, ho fatto molta musica, il docente di storia della musica, Vito Levi, era un personaggio importante, è morto ultracentenario, era uno che da ragazzino suonava con Italo Svevo. Svevo apparteneva a una famiglia ricca per parte della moglie, una Veneziani, e amava molto, quando passavano da Trieste famosi concertisti, invitarli a casa sua, in quella villa Veneziani che adesso non esiste più, amava suonare e chiedeva a questi ragazzini promettenti del conservatorio di venire a suonare con lui. Vito Levi è stato compositore e direttore d’orchestra, poi è diventato docente di storia della musica.
Avevamo un attivissimo Centro Universitario Musicale a Trieste, il CUM, aveva una grande tradizione, invitavamo complessi e solisti importanti. Ricordo con particolare affetto Severino Gazzelloni, il flautista, che veniva a suonare per noi per dei cachet irrisori.
Trieste ha una grande tradizione musicale. Nel dopoguerra il direttore dell’orchestra del teatro era stato Celibidache, ho ascoltato tutti i grandi pianisti del primo Novecento, da Rubinstein a Backhaus, da Gieseking a Cortot – sono riuscito ad ascoltare un concerto di Cortot ultraottantenne. Quindi ho ascoltato moltissima musica classica, pur non avendo frequentato il conservatorio. Il risultato è stato che, quando sono andato a Milano, mi sono portato dietro un bagaglio di buona preparazione, di buona cultura classica, questo mi ha lasciato Trieste.
La seconda grande cosa che ha segnato molto la mia adolescenza è stata l’esperienza cattolica. Sono finito nell’oratorio semplicemente perché mia madre voleva togliermi dalla strada, subito dopo la fine della guerra si giocava in strada con le prime bande di ragazzini, ne abbiamo combinata qualcuna un po’ grossa e lei, un po’ spaventata, mi ha portato in oratorio pensando “almeno qui viene controllato dai preti”. Solo che, a questo punto, io sono stato coinvolto nell’ esperienza religiosa molto più di quello che i miei genitori avrebbero voluto e molto più di quello che chiedevano da me questi preti.
A un certo punto è arrivato un prete molto particolare, che univa, da un lato, un forte atteggiamento integralista sul piano della religione, dall’altro, un fortissimo atteggiamento sociale. La sua idea era “noi dell’Azione Cattolica dobbiamo fare concorrenza al Partito Comunista, lavorare e fare soprattutto per i ragazzi poveri, soprattutto per i ragazzi che diventeranno operai”, eccetera. Ha fatto installare nell’oratorio un tornio e una fresa e faceva scuola di addestramento professionale. Io, che ero l’unico che studiava al liceo, davo lezioni private a questi ragazzini e ragazzotti, anche più grandi di me, che avrebbero dovuto fare gli operai e avevano difficoltà a scuola, soprattutto con l’italiano. Quindi questo impegno sociale mi ha molto legato alla fede cattolica. Poi questo prete, naturalmente, è entrato in conflitto con le gerarchie, con la minaccia di essere sospeso a divinis, se avesse continuato con questo atteggiamento. Non era un Don Milani, era una persona strana, molto integralista dal punto di vista religioso, ma al tempo stesso con questa convinzione che la Chiesa o fa qualcosa per le classi subalterne o non ha senso. Questa cosa è durata fin quasi alla mia età di diciassette anni.
MC.: Com’è iniziato il tuo percorso politico?
SFB.: Quando ho cominciato l’università, ho incontrato un gruppo di compagni comunisti e loro mi hanno cambiato la testa. Ho deciso di lavorare con loro, però nei primi anni dell’università ero ancora nell’Intesa, ossia nell’organizzazione cattolica degli studenti. Ma erano proprio gli anni in cui l’Intesa aveva deciso di fare alleanza con l’UGI (Unione Goliardica Italiana) ossia con i laici, comunisti, socialisti, eccetera. Mi sono molto impegnato lavorando a stretto contatto con questi compagni comunisti che l’anno dopo sarebbero tutti usciti dal PCI perché c’era stata l’invasione sovietica dell’Ungheria.
Poi ho lasciato Trieste e mi sono trasferito a Milano.
MC.: I tuoi genitori non erano militanti politici, mi sembra di capire…
SFB.: Nella famiglia di mia madre erano quattro fratelli. Il padre, che faceva il marinaio, a un certo punto ha deciso di tentare la fortuna in America e, quando la sua nave ha toccato un porto americano, lui, invece di chiedere il visto per entrare, semplicemente è sceso dalla nave e ha cercato lavoro. È stato considerato disertore, perché allora chi abbandonava una nave commerciale era come se avesse abbandonato una nave militare. Quindi non ha più potuto tornare in Italia.
Perciò i suoi figli sono stati abbandonati a se stessi, uno è morto bambino e mia madre ha vissuto un’infanzia e un’adolescenza molto difficili, ha contratto la tubercolosi e tutta la sua vita è stata condizionata da questa malattia. Però questo ha molto affinato la sua sensibilità, le ha dato una specie di orizzonte culturale. Pensa a una persona del genere, che non è arrivata oltre la terza media, che ascoltava i dischi di Chopin, perché anche Chopin aveva avuto il mal sottile. Era una nazionalista molto sui generis. A un certo punto aveva vissuto fuori dalla famiglia, perché sua madre, mia nonna, poveretta, non riusciva più a mantenere i figli, ha fatto tutti i mestieri più umili e mia madre allora è andata a vivere con la nonna, la madre del padre, che viveva nei sobborghi ai margini del Carso, abitati perlopiù da contadini di lingua slovena.
Quindi, malgrado il suo nazionalismo, per lei è diventato familiare questo ambiente sloveno, cosa che ha contato moltissimo nel momento in cui sono arrivati i partigiani di Tito, perché invece mio padre aveva creduto nel fascismo e si era esposto. Quando sono arrivati i partigiani sono venuti a cercarlo, se la cosa è finita bene è finita bene grazie a mia madre. Comunque lo hanno epurato, è rimasto fuori dal cantiere quasi quattordici mesi e la persona che in questo periodo ha sempre garantito per lui è stata proprio quel professore antifascista, amico di famiglia, padre di un’amica di mia madre. Si erano conosciute in sanatorio, sono rimaste legate come sorelle tutta la vita.
La nonna di mia madre, con la quale lei ha vissuto quando era ragazza e che poi si è portata in casa quando si è sposata – ricordo la mia bisnonna, viveva con noi, è morta nel ‘44 – parlava lo sloveno. Quindi avevamo questa possibilità di interloquire con la comunità slovena, tant’è che, quando i partigiani sono venuti a cercare mio padre, non è venuto un partigiano che veniva dalla Bosnia, è venuto il vicino di casa, il figlio di una famiglia slovena che abitava accanto a noi, con la quale avevamo condiviso i rifugi antiaerei. Questo ragazzo, avrà avuto sedici o diciassette anni, era probabilmente entrato nella rete clandestina che la Resistenza yugoslava aveva organizzato soprattutto nel nostro quartiere, era venuto lì – secondo me – più che altro per minacciare, per fare una bravata. Mia madre ha telefonato alla mamma di questo ragazzo e ha sistemato la cosa. Del resto mio padre, al di là di manifestare la sua fede nel fascismo, non aveva ricoperto nessuna carica, né svolto alcun ruolo attivo, tutti lo conoscevano per la dedizione assoluta con cui assisteva mia madre coi suoi problemi di salute, per il rispetto che aveva per il lavoro – e che mi ha trasmesso.
MC.: L’esperienza religiosa – molti di noi hanno percorso l’oratorio o la parrocchia – si è concretizzata per te, in qualche maniera, in una dimensione spirituale?
SFB.: Sì, è stata una cosa molto seria, è stata una vera esperienza religiosa. Probabilmente io sono portato a voler estremizzare le mie esperienze. C’erano dei ragazzi più grandi di me che mi hanno molto aiutato, molto colti, per cui avevo anche un buon bagaglio di letture religiose, conoscevo bene i padri della Chiesa, la patristica, la letteratura cattolica del tempo. Ho avuto, da un lato, l’aspetto di volontariato sociale, di cui ho parlato prima e, dall’altro, un aspetto culturale che poi mi è servito anche quando ho fatto la tesi sulla Chiesa confessante.
MC.: Quella tesi nasce da una tua riflessione o ti è stata, come dire, proposta?
SFB.: Mi sono trasferito a Milano. Inizialmente avevo anche pensato alla Normale di Pisa, ma a Milano viveva un fratello di mio padre, quindi avevamo almeno una base. Però, quando mi sono trasferito lì, avevo cominciato l’università pensando di dedicarmi alla letteratura, alla critica letteraria, eccetera. Allora c’era ancora Umberto Saba vivo a Trieste, ero attirato dalla narrativa, dalla poesia. Quando sono arrivato a Milano ho incontrato un docente triestino di letteratura germanica, il tedesco un po’ lo sapevo e ho pensato che mi sarei specializzato in letteratura tedesca. Invece l’esame è andato male, per tutta una serie di cose, nel frattempo però mi ero molto legato a quello che posso considerare come un maestro, Umberto Segre. Era docente di filosofia morale e giornalista, editorialista del «Giorno». Era stato antifascista del gruppo di Lelio Basso, era stato perseguitato e la sua famiglia aveva avuto parecchi membri finiti nei Lager. Era molto legato a Delio Cantimori, avevano fatto insieme l’università alla Normale di Pisa e Cantimori aveva studiato un po’ la questione della Chiesa confessante quando aveva vissuto in Germania. Io ho avuto uno scambio di lettere con Cantimori e da lì è nata l’idea di questa tesi, da una riflessione con Cantimori e con Segre. Per poterla realizzare, sono riuscito a trovare una borsa di studio che mi dava la possibilità di iscrivermi per un semestre presso un’università tedesca. Mi sono iscritto alla facoltà di Teologia di Magonza, dove ho passato un semestre, il mio primo contatto con la Germania.
Non ero riuscito a tagliare il cordone ombelicale con Trieste, perché poi passavo dei periodi là, soprattutto d’estate, pur studiando a Milano. Quando ho deciso di non tornare più indietro, di farmi una vita definitivamente a Milano, senza più chiedere aiuto alla mia famiglia, ho passato un periodo piuttosto duro, dormivo in una specie di corridoio buio su un materasso buttato per terra, non avevo neanche una stanza. Lì però ho conosciuto finalmente tutto il giro dei compagni che poi sarebbero stati i compagni dei «Quaderni Rossi». A questo punto ho scritto la tesi in pochi mesi.
MC.: Già qui è presente la passione per la storia o ci vuole del tempo prima che trovi un’adeguata manifestazione?
SFB.:Chi mi ha messo la pulce all’orecchio, non ancora a Milano, ma a Trieste, è stato un medievalista molto bravo, Giovanni Tabacco, che oltre a insegnare storia medioevale teneva anche un corso complementare di storia dei partiti politici, che ho seguito. Con lui e con il suo assistente, un noto trotskysta triestino, mi sono trovato bene, erano molto colti e conoscevano molto bene la storia del movimento operaio. Visto che avevo fatto bene questo esame, lui mi ha chiesto se non avessi mai pensato di occuparmi di storia.
Poi la cosa è diventata più chiara, ho deciso che finita l’università avrei fatto lo storico, ma non lo storico accademico, all’università non volevo più tornare. Non so perché avessi questa avversione antiaccademica così precoce, non c’era ragione, però ce l’avevo e quindi ho fatto lo storico freelance, mi sono mantenuto facendo lavori editoriali. Non volendo chiedere aiuto da casa, mi sono trovato la possibilità di lavorare con le case editrici, sia come traduttore che come lettore e consulente. Come traduttore non mi mancava mai il lavoro.
MC.: Probabilmente anche perché era un’epoca in cui l’università era solo uno degli aspetti del lavoro culturale, c’erano le riviste, situazioni inimmaginabili ai nostri giorni.
SFB.: Ma certamente. Poi, ad esempio, a Milano, se tu volevi studiare storia e non volevi farlo nell’accademia, potevi fare ricerca con quelli che lavoravano all’Istituto Feltrinelli, che allora aveva importanti studiosi in residenza. Con Enzo Collotti mi sono legato subito perché era l’unico germanista italiano che conosceva la storia del nazismo. Umberto Segre poteva seguirmi per la parte riguardante il rapporto tra etica e politica, ma chi mi poteva guidare nei meandri della storiografia sul nazismo era Collotti.
MC.: Come è avvenuto il tuo incontro con Ranchetti?
SFB.: Mi sembra che sia stato nel ‘59, due anni prima di laurearmi, che io ebbi da Feltrinelli la prima traduzione, il volume Musica dell’Enciclopedia Tascabile Feltrinelli – Fischer. Michele non lo incontrai in quegli anni, ma qualche anno più tardi. Verso il ‘65 lo conobbi frequentando la casa editrice e fu lui che mi chiese di fargli vedere la mia tesi, che pubblicò nel 1967, cinque anni dopo che l’avevo discussa. Tra l’altro, sai che la sto ristampando proprio in questi giorni?
MC.: Sì, dovrebbe uscire a fine febbraio.
SFB.: Quindi è grazie a Michele che l’ho pubblicata. Con Michele siamo diventati amici, ma poi ci siamo persi di vista per trent’anni. L’ho recuperato a metà degli anni ‘90, c’è stato un periodo di intensissimo scambio, negli ultimi sei, sette anni della sua vita ci vedevamo spesso.
MC.: Grazie anche all’«Ospite ingrato».
SFB.: Certamente. Franco Fortini invece l’avevo conosciuto ai «Quaderni Rossi», poi l’ho incontrato un anno dopo nel giro dei «Quaderni Piacentini», sui quali ho cominciato a scrivere a partire dal terzo numero. Poi quando sono entrato all’Olivetti ho preso in certo qual modo il posto di Franco.
MC.: La percezione che si ha ascoltandoti è che la miglior cultura critica italiana sia nata nelle redazioni delle riviste, fuori dalle università e in generale dalle sedi istituzionali, esito di una riflessione libera.
SFB.: Sicuro. Le prime cose che ho scritto sui «Quaderni Piacentini» sono recensioni di studi sul nazismo. Se metti insieme la presenza dell’Istituto Feltrinelli, con la sua biblioteca notevole e questi studiosi che stavano lì in residenza, l’Istituto Nazionale della Resistenza di Milano, altro posto col quale ho collaborato, le case editrici, che erano luoghi di grande stimolo, e poi le riviste come i «Quaderni Rossi» e i «Quaderni Piacentini», cosa potevi volere di meglio? Non dimentichiamo Lelio Basso e la rivista «Problemi del socialismo».
Se pensi anche alla mia esperienza all’ Olivetti, io posso dire di aver avuto il grandissimo privilegio di entrare subito nelle poche cose che hanno fatto la cultura italiana critica degli anni successivi. Ho lavorato per Feltrinelli, per Bompiani e altri. A un certo punto Sugar mi ha affidato la traduzione di L’anima e le forme di Lukács. Era il 1962, erano scaduti dopo cinquant’anni i diritti. L’anima e le forme non è un libro qualunque, è un testo di una notevole complessità linguistica e concettuale, dopo averlo tradotto avevo un altro profilo professionale rispetto a prima.
Poi, quando sono entrato all’Olivetti, l’altra fortuna è stata che, invece di farmi fare da copywriter la pubblicità alle macchine da scrivere o alle macchine meccaniche da calcolo, come Franco Fortini o Giovanni Giudici, mi hanno messo all’elettronica. Di fatto, l’informatica in Italia è cominciata con l’Olivetti e io ho avuto la grande fortuna di vederne i primi passi. C’erano i grandi grafici, come Pintori e Bonfanti, che avevano reso celebre la pubblicità Olivetti. Giovanni Giudici aveva l’ufficio sotto il mio, in via Baracchini, a Milano. Avevamo una lunghissima pausa pranzo, dalle 13 alle 14.30, durante la quale lui scriveva le sue poesie e me le faceva ascoltare. Vivevo nel laboratorio del poeta, ho avuto un privilegio non da poco a vivere accanto a questi personaggi.
MC.: Certo. Quindi Milano è il luogo dove incontri questo tipo di ambienti, però non è ancora militanza politica, diciamo così…
SFB.: Come no? Se tu pensi che i «Quaderni Rossi» cominciano nel ‘61, nel settembre dello stesso anno diventa subito militanza politica. Dopo due mesi andiamo davanti alle fabbriche a dare i volantini, quindi la mia militanza politica comincia ancora prima che io conosca Piergiorgio, nel ‘63. Poi, quando fondiamo «Classe Operaia», io ne sono il responsabile a Milano, quindi a quel punto la mia militanza è molto intensa. Mi sono licenziato dall’ Olivetti, senza nessuna prospettiva di lavoro, per fare militanza politica. Avevo un ottimo lavoro pagato il venti per cento in più di quello che era il salario di ingresso di un laureato. Qualunque azienda culturale, editoriale, industriale, eccetera, a Milano, all’inizio degli anni Sessanta, pagava ai laureati al primo impiego 120 mila lire nette al mese. Io ne prendevo 150 mila. Inoltre lavoravo in uno degli uffici più prestigiosi ed esclusivi dell’industria italiana, se non europea. Bisognava avere la testa un po’ strana per andarsene.
La sera stessa in cui mi sono licenziato, mi ha telefonato Segre dicendomi: “Senti, ho avuto un incarico dall’Università di Trento, come tu sai ho il cuore malato, accetto se tu accetti di farmi da supplente”. Per me fare da supplente al mio maestro era un onore e una soddisfazione indicibile. L’Università di Trento non era ancora pubblica, quindi avevo un contratto privato pagato a ore. In quel periodo gli studenti facevano sciopero un giorno sì e un giorno no, perciò era tanto se facevo un’ora al mese. Per questo, dopo ho fatto l’esame di Stato per poter andare insegnare a scuola. Ricordo ancora la mattina dell’esame scritto. C’era Stefano Merli che doveva farlo anche lui, s’era portato dietro salami, formaggio e pane in abbondanza (mancava solo il fiasco di vino) perché avevamo sette ore di tempo. Io invece alle 10,30/11 avevo appuntamento con una ragazza del giro della moda che mi aveva fatto perdere la testa, m’ero dimenticato persino di portarmi dietro la biro e il foglio di protocollo. Stefano aveva i ricambi in borsa, mi rifornì di tutto e a tutti i costi voleva darmi anche un salame per tenermi su. Dolcissimo. Fummo ammessi all’orale tutti e due, io con il minimo.
MC.: Quello che mi ha sempre colpito di te, ma anche di Michele Ranchetti, di Bellocchio, di Fiameni stesso, è questa disponibilità continua a non soffermarsi in una tappa della propria vita, come se fosse una prefigurazione del lavoro autonomo. In qualche maniera c’era una distanza rispetto al lavoro dipendente tradizionale.
SFB.: C’era una certa distanza perché volevamo fare le cose che ci piacevano. Non credo che la questione fosse quella di non voler avere un padrone, dopotutto all’Olivetti noi eravamo gli unici che non timbravano il cartellino, avevamo un grado di libertà altissimo. Dovevamo solo essere puntuali alle 9 in ufficio. Io non ci riuscivo, abituato a fare la vita un po’ da esistenzialista di Brera, un po’ da militante di «Classe Operaia». I nostri cicli vitali non potevano corrispondere a quelli dell’orario di ufficio. Se non me ne fossi andato dall’Olivetti mi avrebbero cacciato loro. Comunque è stata una grande esperienza. Il livello di competizione che c’è oggi nelle aziende, tra i quadri intermedi, è pazzesco. All’Olivetti io ero il più giovane, arrivato per ultimo, e tutti si sono mobilitati per aiutarmi.
MC.: Questa è un’altra cosa che mi fa pensare a quanto la mia generazione non sia stata capace di costruire legami di amicizia e di collaborazione. Al di là dei rapporti privati, la nostra era una militanza disincarnata, diversamente da quello che tu mi stai comunicando.
SFB.: Rispetto al fatto di cambiare prospettive di vita e quindi di ricominciare da zero, devi tener conto che avevamo un mercato del lavoro un po’ diverso dal vostro, quando io mi sono iscritto all’Università di Milano, alla Facoltà di Lettere e Filosofia erano sessanta matricole, adesso sono migliaia. Questo conta moltissimo.
Ti faccio un esempio: quando ho deciso di andare a insegnare, perché era l’unica cosa che mi poteva dare da vivere, sono andato al provveditorato a chiedere delle ore di insegnamento. Mi ricordo che il funzionario mi ha fatto vedere un’enorme carta della Lombardia – la Lombardia sembra una pera rovesciata. In fondo alla pera, a sud-est, nel posto più lontano da Milano, al confine con l’Emilia-Romagna, lui ha messo il dito e mi ha detto: “Vede questo posto qua? Le va bene? Qui ho l’orario completo”. Questo significava che la mattina dovevo fare 45 minuti di macchina per andare a insegnare, però avevo l’orario completo. Alcuni anni dopo, se uno arrivava a chiedere il primo insegnamento gli davano tre ore in una scuola, cinque in un’altra, sette ore in una terza. Il lavoro era già completamente cambiato.
Contava molto anche l’abitudine a vivere con poco, questo ci veniva dalla famiglia. Nella mia famiglia siamo sempre stati abituati a contare i centesimi, perché i miei genitori hanno fatto una vita molto dura quando erano ragazzi. Anche quando mio padre ha raggiunto un reddito da piccolo-medio borghese, mi ha trasmesso questo vizio che mi porto ancora dietro di spegnere la luce quando si passava da una stanza all’altra. Quando si comprava un vestito o un paio di scarpe era un avvenimento.
A Milano l’unico punto di riferimento era il fratello di mio padre, andavo sempre a mangiare da loro, mi hanno sostanzialmente accolto. Mi sono trovato in una situazione radicalmente diversa da quella in cui ero cresciuto a Trieste, dove eravamo una famiglia di tre persone: mia madre, mio padre ed io. Mio zio a Milano aveva sposato un’artigiana, una pellicciaia, che veniva dalla campagna. Nella famiglia di questa donna, di questa mia zia, erano in ventidue tra fratelli e sorelle, la mamma di questa nidiata era analfabeta e li ha avuti da due mariti. Per me era un mondo inimmaginabile. Questa mia zia faceva la pellicciaia e aveva un laboratorio in casa, aveva una giovane lavorante e mi raccontava – lei aveva cominciato a lavorare alla fine dell’Ottocento o inizio Novecento, immagino – che tutti i pellicciai allora erano socialisti. Essere socialisti faceva parte del costume di questi artigiani appena diventavano garzoni. Lei lavorava in Corso San Gottardo, che allora era un rione della mala di cui parlano tante leggende e tante canzoni. Mi ricordo che Primo Moroni praticamente si è costruito un personaggio attorno a questa storia della mala, io pensavo fosse pura leggenda. Invece mia zia l’ha vissuta, i suoi padroni di casa erano dei rapinatori, svaligiavano banche e gioiellerie. Gli inquilini lo sapevano benissimo ed erano complici quando arrivava la polizia a fare le perquisizioni, naturalmente non dicevano nulla, nascondevano la refurtiva, perché – diceva – erano tanto buoni come padroni di casa e se non avevi i soldi per pagare l’affitto loro non facevano storie. Mia zia ha fatto le pellicce per la famosa Rusèta del Cantùn, una delle eroine delle canzoni della mala milanese, una prostituta molto bella che alle colleghe che non riuscivano a fare cassa e rischiavano di venir picchiate dai loro magnaccia dava dei soldi. Aveva questa aura di benefattrice. Mia zia mi ha confermato queste storie di un rione della mala, molto coeso, con una grande solidarietà interna. Il rubare ai ricchi per dare ai poveri esisteva davvero. Mi ricordo che una volta aveva un lavoro urgente, allora si è fatta aiutare da una sua collega. È arrivata questa vecchietta, che aveva qualche anno in più di lei, e si sono messe tra di loro a ricordare i loro anni giovanili. Mi è rimasto sempre in mente quando hanno raccontato del giorno in cui la polizia aveva scovato un famoso ladro, o scassinatore, che veniva chiamato “Russìn de la Vedra”, “Russìn” perché aveva i capelli rossi e “de la Vedra” perché stava in piazza Vetra. L’avevano scovato in un nascondiglio, lui aveva tentato di scappare sui tetti, ma gli avevano sparato e l’avevano ucciso. Raccontavano che quando si è sparsa la notizia che avevano ucciso “Russìn de la Vedra” tutta la gente ha cominciato a uscire dalle case. Purtroppo non mi è mai venuto in mente di mettermi a registrare queste storie, immagino che avrei fatto felice Primo se gli avessi portato queste registrazioni. E comunque socialista era anche mio zio, a differenza di mio padre. Mio zio era un fervente, accanito socialista. Ha fatto il pittore per tutta la vita, ma come pittore non riusciva a mantenersi, di fatto lo manteneva questa donna, questa pellicciaia.
Quando sono arrivato a Milano e non conoscevo nessuno, le prime amicizie con ragazzi della mia età sono state due. Con una sono rimasto in contatto ancora adesso, perché è stato l’altro allievo preferito del mio maestro, di Umberto Segre, io ho fatto da assistente a Segre a Trento e lui gli ha fatto da assistente alla Statale, ha raccolto le sue lezioni. Lui poi è andato a lavorare all’Olivetti e mi avrebbe fatto assumere. È uno dei più grandi esperti italiani di informatica, credo che abbia un anno più di me, lavora ancora moltissimo e sta scrivendo una storia dell’informatica italiana. Ha scritto una cinquantina di libri su tutti i programmi del computer, praticamente gli italiani hanno imparato ad usare il computer da lui. L’altro invece era l’opposto, era un ragazzo che viveva veramente ai limiti estremi, con una specie di ossessione autodistruttiva, prima con l’alcool e poi con la droga. Tant’è che poi si trasferì a Ibiza, dove ancora facevano questi esperimenti sulla droga, e sarebbe morto tragicamente qualche anno dopo per un incidente. Per sopravvivere spacciava, andava a vendere la droga nei locali di Parigi, dove suonavano jazz. Per liberarsi della droga s’imbarcó su una nave come mozzo, credo. Al suo ritorno, appena arrivato a Parigi, incontrò la persona che lo aveva iniziato alla droga, andarono insieme a Londra e lì lui morì asfissiato in albergo, per un incidente con lo scaldabagno. Era uno che viveva in maniera estrema, in questa casa senza cucina e senza bagno né gabinetto, dove io dormivo su un materasso buttato per terra nel corridoio esterno. Erano due poli estremi, tanto il primo lavorava tutto il giorno, tanto l’altro passava la giornata alzandosi alle due del pomeriggio, fumando, insomma si autodistruggeva. Tramite lui, che conosceva Pier Luigi Gasparotto, sono entrato in contatto con questo giro che poi mi ha portato nei «Quaderni Rossi». Mi ha portato a incontrare la “comune dei filosofi”, degli allievi di Enzo Paci, dove vivevano Giairo Daghini con la prima moglie, Nanni Filippini, Guido Davide Neri, Paolo Caruso, che traduceva Sartre, quindi faceva la spola con Parigi. Sono arrivati Andrea Bonomi, Paolo Gambazzi, poi Giovanni Piana. Sono diventati professori associati o ordinari, hanno preso il posto di Paci e si sono sparsi in varie università. In questa casa stupenda di via Sirtori, a Porta Venezia, con sei, sette stanze e un immenso terrazzo dove facevamo le riunioni e le letture di Marx, veniva anche Romano Alquati da Torino, dalla Fiat, leggevamo Marx e poi cercavamo di mettere in rapporto le pagine di Marx con quello che Romano aveva analizzato e capito nelle sue ricerche, o con ricerche, a Torino.
Seguendo il loro esempio mi è venuto in mente di fare un’altra comune, ho conosciuto altri ragazzi che cercavano casa anche loro. La trovammo in via Solferino 11, anche quella una casa stupenda con un lungo corridoio a vetrate dove si affacciavano cinque stanze, una cucina e un bagno. Ma il nostro non era un gruppo omogeneo come quello dei filosofi, eravamo un gruppo raccogliticcio di persone che si incontravano per la prima volta. Non c’era nessun progetto comunitario alla base del nostro incontro, ma solo utilitaristico. Uno avrebbe firmato il contratto per l’appartamento, perché essendo figlio di un dirigente di banca poteva dare delle garanzie, mentre io firmai il contratto per il telefono, cosa che mi costò cara perché, avendo lasciato per le bollette un grosso conto non pagato quando ce ne siamo andati, per una decina d’anni non potei più avere un telefono a nome mio. All’inizio eravamo solo in tre, all’ultimo momento si aggregò un mio cugino, che non avevo mai conosciuto prima, lavorava alla Pirelli Sapsa e guadagnava 45.000 lire al mese. Per arrotondare si era messo d’accordo con un giro di operai che rubavano gommapiuma, con la quale facevano dei cuscini che venivano loro ordinati da una specie di caporale, che ogni tanto veniva a casa nostra a ritirarli. Dopo qualche mese questo mio cugino ha conosciuto in una balera la sua futura moglie, si è sposato, ha messo su una famiglia “normale” e al suo posto è subentrato Armando Devidovich, che in seguito è diventato un pubblicitario abbastanza noto. Poi è arrivata una ragazza tedesca, che naturalmente con questa banda di disperati non si trovava molto bene e che poco dopo se n’è andata per sposare un famoso scrittore. Al suo posto è entrato un certo Tartarini, simpatico personaggio, che è morto di cirrosi epatica.
Questa casa è diventata un altro punto di riferimento per tutti quelli che cercavano un posto in cui dormire, dal barbone all’angolo di strada ai compagni dei «Quaderni Rossi» quando venivano a fare le riunioni. Allora era il periodo della guerra in Algeria, quindi c’era una rete di sostegno, una specie di succursale italiana del réseau Janson per far scappare i disertori, i cosiddetti “insoumis”, quindi noi eravamo un punto di riferimento anche per questi ragazzi francesi. Poi anche lì sono successi un po’ di pasticci. Comunque per me è stata un’esperienza bellissima, perché finalmente avevo una stanza tutta per me, un bagno, eravamo liberi e lì ho scritto la mia tesi di laurea. Siamo entrati nel dicembre del ‘60, io mi sono laureato nel ‘61, quindi in sostanza ho scritto lì quello che sarebbe diventato il mio libro sulla Chiesa confessante, l’ho scritto in questo ambiente che era diventato abbastanza noto a Milano come un posto un po’ – si direbbe oggi – trasgressivo. Veniva gente a vederci, scrivevano articoli di giornale su di noi perché eravamo vicino a Brera, ma non eravamo parte della vecchia bohème, non avevamo a che fare con gli artisti, fotografi, pittori… i Dondero, i Castiglioni, i Manzoni, quella intellettualità milanese che si trovava a Brera al Bar Giamaica; noi non la frequentavamo, perché eravamo proprio dei poveracci, tant’è che l’unico ristorante che ci faceva credito era la peggiore bettola del quartiere, dove trovavi gli scarafaggi nella pasta. Però nei confronti di questi artisti noi avevamo una specie di senso di superiorità, perché avevamo a che fare con la politica, con la guerra d’Algeria, con i movimenti rivoluzionari, tant’è che poi uno di noi è finito in mezzo al primo sequestro politico che c’è stato in Italia, quando un gruppo di anarchici ha sequestrato il Console spagnolo come ritorsione perché avevano condannato a morte un anarchico in Spagna. Nel momento in cui questo è successo noi stavamo ormai abbandonando questa casa, perché non andavamo più d’accordo, io volevo avere un luogo per vivere un po’ meno incasinato e ho finito per trovarlo in via Bandello, a due passi da San Vittore, dove almeno eravamo in tre, non in cinque, mi ci sono trasferito assieme a Massimo Paci e a un compagno di Como, Pipitone. In conclusione, posso dire che questo dei primi anni Sessanta è stato un periodo molto bello, era un modo di vivere fuori dal comune, pieno di sorprese e di scoperte.
MC.: Una reinvenzione della comunità, un modo di stare insieme che toccava vari punti…
SFB.: Le famose “comuni” che poi sono uscite fuori nel ‘68 noi le avevamo anticipate di parecchi anni. Pensa che, pur avendo una cucina, non abbiamo mai acceso il gas, nemmeno per farci un caffè, abbiamo sempre fatto colazione e mangiato fuori. Si viveva di notte, ci si alzava all’una e mezza del pomeriggio giusto in tempo per andare in questa trattoria prima che chiudesse la cucina, facevamo questa vita qua. Dopo la laurea ho cominciato a fare altri lavori, mi hanno proposto di scrivere una storia della Resistenza tedesca, è stato il primo lavoro grosso che ho fatto dopo la tesi. Quando sono andato a Berlino, nel novembre e dicembre del ‘61, pochi mesi dopo il Muro, per raccogliere la documentazione dovevo studiare e lavorare all’Università Humboldt, perché la letteratura che c’era sulla Resistenza tedesca era quasi tutta letteratura comunista. Vivevo nella Berlino ovest, stavo nella casa degli studenti protestanti evangelici dove ero già stato in precedenza, ma ogni giorno dovevo andare all’Università attraversando il confine e ogni volta mi perquisivano da cima a fondo perché gli studenti stranieri venivano usati per fare traffico di valuta e pensavano che fossi uno di questi. Berlino est qualche mese dopo il Muro era un cimitero, una cosa allucinante.
Rientrato in Italia, sono andato a vivere con Massimo Paci, come ho detto. Sono rimasto in via Solferino per un anno circa, poi ho cambiato casa. Tre giorni dopo che ho preso possesso di questa nuova abitazione torno a casa, entro nella mia stanza e nel mio letto c’è un ragazzone disteso, un po’ malandato, che era uno dei rapitori del console. Ce lo aveva portato, senza dirmelo, quello di via Solferino che aveva firmato il contratto. Me lo avesse chiesto, mi avesse almeno avvertito… niente. Il giorno dopo se n’è andato e lo hanno beccato alla frontiera, poi credo che questi rapitori se la siano cavata con poco perché – si disse allora – c’era dietro una storia di omosessualità di questo console che non doveva saltar fuori. In realtà, dei giornalisti beffarono i rapitori e riuscirono a far scappare il console, se non ricordo male. Anni dopo ho conosciuto uno dei “cervelli” del rapimento alla Calusca, ma non gli ho mai chiesto come fosse andata veramente. Rividi anni dopo anche quello che s’era ritrovato, senza saperlo, nel mio letto, se non ricordo male scrisse qualcosa per i «Quaderni Piacentini».
MC.: Mi sembra che già qui si approfondisca il tuo rapporto con la cultura critica tedesca.
SFB.: Sì, in via Bandello ho finito di scrivere questo libro di 250 cartelle, che sarebbe stato il primo libro in italiano di storia della Resistenza tedesca, infatti mi ricordo che lavoravo molto con Collotti. Era un libro basato non su documenti originali ma su letteratura secondaria, comunque sarebbe stato il primo libro in lingua italiana che raccontava un po’ di quella Resistenza, che poi è stata soprattutto Resistenza comunista. Ho consegnato il manoscritto e due settimane dopo la casa editrice è fallita, però, siccome allora c’era gente onesta in giro, il titolare, Belli Nicoletti, mi ha restituito il manoscritto e me lo ha anche pagato. Subito dopo è capitato che la Sugar, tramite il direttore editoriale Airoldi, mi proponesse la traduzione dell’Anima e le forme di Lukács. Avevano già pubblicato la Teoria del romanzo, tradotto da un altro triestino, di nome Saba Sardi. Mi ha proposto questo lavoro e io, del tutto incosciente, ho accettato senza rendermi conto che è un testo, benché meraviglioso e affascinante, tra i più ostici dal punto di vista linguistico dell’estetica contemporanea. Tradurlo è stata un’impresa di cui vado fiero.
Anche questo lavoro l’ho fatto quando abitavo in via Bandello, dove tra l’altro sono state scattate le uniche mie fotografie di quel periodo, me le aveva fatte proprio quel ragazzo, che sarebbe morto in quella maniera assurda a Londra per un guasto allo scaldabagno. Ricordo che ero molto in ritardo con la traduzione, perché avevo cominciato anche a essere attivista dei «Quaderni Rossi», ci si alzava al mattino presto per andare a volantinare davanti alle fabbriche. Sicché quello della Sugar riuscì letteralmente a sottrarre il manoscritto dal mio tavolo e lo mandò in stampa senza che io avessi fatto la revisione. Ho tentato in tutti i modi di impedirlo, ma avrei dovuto minacciarlo con la pistola per fargli cambiare idea. Quella stanza e quel tavolo che si vedono in quelle foto sono il luogo dove si è consumata la rottura tra Panzieri/Rieser e Negri/Tronti in un giorno del settembre 1963. Farò la revisione completa della traduzione di Lukács negli anni ‘90 quando SE lo ripubblicherà nella mia traduzione e ci aggiungerò una “nota del traduttore”. Ma nel ’63, malgrado tutti questi lavori da collaboratore esterno, riuscivo a malapena a campare, così ho cominciato a cercare un lavoro fisso nelle case editrici. Alla Feltrinelli, la prima a cui pensai, non assumevano, ma là dentro avevo conosciuto Carlo Ripa di Meana, che poi era diventato il direttore generale della Rizzoli e che mi disse: “Hai un buon curriculum, vieni qua, ti faccio conoscere Lecaldano, il genero di Rizzoli, che è anche l’AD”. Alla fine si combina un incontro con questo Lecaldano e lui mi chiede quanto voglio, non mi dice “le offriamo un posto così, lo stipendio è tot, punto”, no, mi chiede: “Lei quanto vuole?”. Colto di sorpresa, senza che neanche avessi chiesto prima quanto venivano pagati i laureati al primo impiego, gli ho sparato 200.000 lire al mese. Questo signore ha fatto un salto sul divano. Allora lo stipendio del laureato al primo impiego a Milano, in qualunque posto tu andassi – editoria, industria o altro – era di 120.000 lire nette. Comunque sia, all’Olivetti qualche mese dopo me ne avrebbero date 150.000. Sono entrato all’Olivetti con quello stipendio senza saper fare niente. Era lo stesso stipendio, l’ultimo, che mio padre ricevette nello stesso anno 1964, dopo quarant’anni di lavoro. Era entrato nel 1924 all’Ansaldo Cantieri di Genova. Mi è venuto da pensare: “Quest’uomo ha lavorato come un cane tutta la vita per guadagnare quello che io guadagno al primo impiego. Lui sa progettare l’impianto elettrico di un transatlantico da duemila passeggeri e io non so fare nulla”. Ho cominciato così questa esperienza all’Olivetti, Direzione Pubblicità e Stampa, a Milano, in via Clerici. All’inizio non avevo capito, non avevo capito che ero capitato in un posto straordinario, per me invece quella scelta significava aver dovuto mollare la storia e quello per cui avevo studiato, insomma la vivevo quasi come una sconfitta. Alla fine ho dovuto andarmene perché non riuscivo ad arrivare in orario. Prima mi hanno trasferito, poi mi hanno mandato a fare un corso da commerciale. Il mio lavoro, però, l’ho fatto bene, avevo imparato in fretta, non ho mangiato il pane a ufo. Anni dopo avrei visto persino alcuni miei lavori ad una mostra sulla storia della pubblicità Olivetti (che, com’è noto, ha fatto scuola in tutto il mondo).
Nel ‘63, prima di tutto questo, oltre a entrare nei «Quaderni Rossi» e a scrivere il libro sulla Resistenza tedesca, avevo incontrato Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, due personaggi straordinari. Si sono concentrate tutte in quegli anni le mie esperienze politico-cultural-scientifiche: «Quaderni Rossi», «Classe Operaia», «Quaderni Piacentini», la Germania, Lukács… Tutte cose collegate tra di loro. Chissà, forse in quegli anni, prima di raggiungere la trentina, ho fatto le sole cose importanti della mia vita.
MC.: Ascoltandoti si ha un’impressione di forte coerenza tra le diverse esperienze.
SFB.: C’è da mettere in conto anche la ricchezza di Milano a quei tempi, una città dove succedeva di tutto. Tutte le cose più innovative, sia dal punto di vista della tecnica sia dal punto di vista degli studi umanistici, succedevano lì. Idem per quanto riguarda i movimenti rivoluzionari. Dalla pubblicità Olivetti, alla casa editrice e all’Istituto Feltrinelli, dai «Quaderni Rossi» al Centro Franz Fanon.
Proprio l’altro giorno stavo leggendo la vita di Giovanni Pirelli e mi sono venute in mente tutte queste cose. La comune di via Bandello durò solo un anno, finii, con l’aiuto di mia madre, per trovare una casa da solo tutta per me, in via Giuriati, una volta che lo stipendio Olivetti mi dava una certa sicurezza economica. Erano due camere, cucina e bagno, ci restai per vent’anni. Anche quella casa ha fatto parte di quel giro di appartamenti dove passavano latinoamericani appartenenti a varie formazioni guerrigliere. C’era anche questo aspetto, che per noi non aveva un particolare peso politico, perché non eravamo terzomondisti, ma eravamo persone di cui i vari réseaux di sostegno si fidavano.
Un’altra cosa per me importantissima è stata aver conosciuto la famiglia di Ermanno Bartellini, che era stato uno degli uomini più vicini a Lelio Basso durante l’attività clandestina antifascista. Basso lo avevo già conosciuto tramite Collotti. Bartellini è stato arrestato a Milano un giorno in cui aveva una riunione clandestina a cui doveva partecipare anche Lelio, che è arrivato un po’ in ritardo e l’ha fatta franca. Bartellini invece è stato arrestato, l’hanno portato a Dachau, è riuscito a evadere, ma l’hanno ripreso e l’hanno fucilato. In questa famiglia erano di casa Ferruccio Parri e tutti i personaggi più in vista dell’antifascismo. Io ho curato gli scritti di quest’uomo, sono stati pubblicati da Nuova Italia nel ‘67, il libro s’intitolava La rivoluzione in atto e altri scritti e questo mi ha permesso intanto di entrare in rapporto con Lelio Basso in maniera un po’ più stretta, ma soprattutto ha rinsaldato i miei rapporti con gli Istituti di Storia del Movimento di Liberazione, da quello centrale di Milano, con Bianca Ceva – grande amica della vedova di Bartellini – e Massimo Legnani a quello di Trieste con Ercole Miani, Galliano Fogar e Teodoro Sala, che si erano avvalsi della preziosa collaborazione di Enzo Collotti.
La moglie del figlio di Bartellini, la Giorgetta Moech, era diventata segretaria di Parri. Per cui poi andai in Ungheria e Cecoslovacchia accompagnando lei, che accompagnava a sua volta Parri a un convegno internazionale degli Istituti storici. Insomma, oltre ai «Quaderni Piacentini» e alle varie altre esperienze, ero anche entrato in questo ambiente di vecchi antifascisti, quasi l’aristocrazia della Resistenza, chiamiamola così, dalla quale sono stato in una certa misura adottato. Purtroppo questa Giorgetta, che era una donna straordinaria, nel ‘72, dopo un viaggio in Africa, ha preso una terribile epatite ed è morta, a quarant’ anni.
Nel ‘67, dopo «Classe Operaia», inizia il periodo più… movimentato, anzi convulso.
MC.: Quando ho ascoltato le conferenze che hai fatto, mi aveva colpito questa riflessione su come in Germania è stata rivista la questione dell’esperienza del nazismo. Mi sembra uno dei temi fondamentali della tua ricerca. Potresti parlarne?
SFB.: Quando andai in Germania, a Magonza, a studiare teologia protestante, per fare la tesi, eravamo ancora in piena atmosfera di rimozione del passato nazista. Sono andato nel ‘59, basta pensare che il processo per Auschwitz lo hanno fatto solo nel ‘63. Nel ‘59 se usavi la parola “Auschwitz” la gente veramente non sapeva cosa fosse, o se lo sapeva faceva finta di non saperlo. La rimozione era talmente forte che, proprio come ho raccontato in quella conferenza, se tu ti trovavi in treno, in uno scompartimento affollato, e dicevi che stavi studiando il nazismo, scendeva il silenzio. Dopo, al processo per Auschwitz, hanno assistito ventimila persone, gli insegnanti portavano i ragazzi al processo perché volevano che le nuove generazioni sapessero. In seguito è stato eletto presidente della Repubblica Gustav Heinemann, che faceva parte della Chiesa confessante, e c’è stata la svolta di Brandt, la cosiddetta Ostpolitik. Insomma era cambiata la Germania. A determinare la grande svolta precedente il ‘68 è stato il movimento pacifista, la Friedensbewegung, che ha avuto un seguito di massa tra il ‘64 e ‘66. Uno dei leader era Martin Niemöller, fondatore della Chiesa confessante, il cui ruolo durante il nazismo era stato riconosciuto come costitutivo della nuova identità tedesca.
MC.: Mi sembra di capire che siano stati gli storici dell’est ad avviare questo processo.
SFB.: Mentre all’Ovest c’era la rimozione, all’Est non si faceva altro che parlare dell’eroica resistenza dei comunisti al nazismo. Anche se però, ovviamente, lo facevano con prudenza. Sicuramente gli storici dell’Est avevano più mano libera. Erano incentivati a studiare la storia del nazismo, per esaltare il ruolo dei comunisti. All’Ovest era nato l’Institut für Zeitgeschichte di Monaco, che è stato il primo centro di studi sistematici sul nazismo nella RFT, ma doveva ancora ricevere una legittimazione politica, che è arrivata dopo il processo di Auschwitz, al quale ha portato un grosso contributo di documentazione. La documentazione, le prove su cui hanno costruito il processo, in gran parte le ha fornite l’Istituto di Monaco. È cominciata una nuova èra. Il movimento pacifista, essendo un movimento che diceva sia “no alla Nato”, sia “no al Patto di Varsavia”, aveva acquistato grossa credibilità.
MC.: Ricorre spesso, tra i tuoi punti di riferimento, Karl Heinz Roth.
SFB.: Si parla sempre della storia del ‘68 tedesco come di una storia che sta tra Berlino e Francoforte, tra Rudi Dutschke e Hans-Jürgen Krahl. Il terzo pilastro del ’68 è stata Amburgo e ad Amburgo era Karl-Heinz il leader, lui e la compagna, Angelika Ebbinghaus. A differenza di Dutschke e di Krahl, lui aveva sentito parlare dell’operaismo italiano per cui quando è finito il ‘68 tedesco, con l’attentato a Dutschke nell’aprile del ‘68, lui ha continuato fondando Proletarische Front, questo gruppetto operaista, ed è venuto a Padova per incontrarci.
Per la prima volta erano state tradotte le nostre cose in tedesco, in particolare il mio saggio sull’operaio-massa, anche perché lì parlavo degli Arbeiterräte tedeschi. Era stato tradotto a Berlino dal Merve Verlag, che ne ha fatto un opuscolo. Hanno pubblicato questo mio scritto assieme a una cosa che Cacciari aveva scritto sul Linkskommunismus per Contropiano. Quindi abbiamo cominciato a essere conosciuti in Germania, Roth è venuto in Italia a Padova, io l’ho conosciuto prima di mettere in piedi «Primo Maggio». Quando è nato «Primo Maggio» io ho cercato la sua collaborazione, dopo lui è stato arrestato e noi abbiamo fatto la campagna in suo favore, contribuendo al fatto che lo hanno messo fuori dopo un paio d’anni.
MC.: Nelle tue conferenze hai portato l’accento sull’uso pubblico della storia, sulla figura dello storico come militante.
SFB.: Per farmi capire debbo riprendere il racconto dal ‘66/’67. Nel ‘66 sono diventato assistente di Umberto Segre a Trento, poi lui mi ha fatto avere un mio insegnamento e lì ho incontrato gli studenti che poi avrebbero dato vita alle occupazioni. Mi sono trovato un po’ nell’occhio del ciclone, tant’è che del gruppo di compagni che poi avrei portato dentro Potere Operaio molti erano studenti-lavoratori di Trento, primo tra tutti Mario Dalmaviva. Mi trovavo molto meglio con loro, con gli studenti-lavoratori, che con gli studenti come Rostagno, Curcio, eccetera, perché questi erano terzomondisti e ce l’avevano con noi che eravamo operaisti. Gli studenti-lavoratori capivano molto meglio il nostro discorso, quindi io potuto reclutare un gruppo di compagni con cui poi avremmo fatto l’intervento alla Fiat, da cui è nata l’assemblea operai-studenti. Prima però c’era stato il Maggio Francese, poi il CUB della Pirelli, ho scritto il saggio sul Maggio assieme a Daghini per i «Piacentini» e l’opuscolo sulle lotte alla Pirelli assieme a Raffaello De Mori, uno dei fondatori del CUB, e poi l’opuscolo sulle lotte all’ENI, per la precisione alla SNAM Progetti, che s’inseriva nell’interesse che avevo maturato sin dai tempi dell’Olivetti per i tecnici, per quelli che Serge Mallet aveva chiamato “la nouvelle classe ouvrière”. Poi abbiamo costituito Potere Operaio, nel settembre 1969. Io sono stato con loro fino al novembre del ‘70, poi me ne sono andato. In fin dei conti, se pensi a una vita trascorsa bene o male nella militanza, Potere Operaio ha rappresentato ben poco, solo un anno di questa vita. Perciò non ne conservo un gran ricordo e soprattutto un buon ricordo. Per un anno, dopo essere uscito, sono rimasto un po’ spaesato, nel ‘72 mi sono sposato, tra l’altro, e nel ‘73 ho fondato «Primo Maggio», incominciando una nuova strada. Da lì ha preso corpo il discorso sulla storia militante, abbiamo messo su un bel gruppo di americanisti, Gambino, Cartosio, Fasce, Portelli… tutti collaboratori di «Primo Maggio».
MC.: Collaboratori di prim’ordine…
SFB.: Si, erano tutti giovani, io ero l’unico che aveva una posizione universitaria solida. Quando abbiamo incominciato «Primo Maggio», Marcello Messori era un ricercatore, Marco Revelli e Cartosio pure. Poi quando «Primo Maggio» è finito loro sono tutti arrivati in cattedra e io sono stato l’unico cacciato dall’università.
MC.: Tornando al ‘68… è stata veramente “l’ultima rivoluzione”, come affermato in quei saggi curati da Pierpaolo Poggio?
SFB.: In un certo senso sì. Tra l’altro, i protagonisti della cosiddetta “Primavera di Praga” io li avevo conosciuti tutti quando ero andato lì con Giorgetta Bartellini e Parri, doveva essere il ‘67. Erano i ragazzi che poi sono diventati un po’ i leader della “Primavera di Praga”, Bartoschek, il figlio di Slansky, eccetera. Poi dopo loro sono scappati in Francia e non ho più avuto contatti, invece in Germania ne avevo molti, conoscevo tantissimi gruppi ed ero conosciuto, tant’è che una volta mi hanno svegliato alle tre di notte e un tale dall’altro capo del filo mi dice: “Sei Sergio Bologna? Ti volevamo dire che qui a Berlino abbiamo appena occupato la Freie Universität”. Io sono andato in Francia, ma non sono andato a Berlino, perché avevamo troppo da fare qui, in un certo senso. Il ‘68 berlinese purtroppo non l’ho vissuto.
MC.: Comunque, questa capacità di creare intrecci, ogni volta che ascolto mi sorprende.
SFB.: Certo, dipende da varie ragioni. Dentro «Classe Operaia» io ero il cosiddetto ‘responsabile dei contatti internazionali’, me li ero fatti dare, questi contatti, in buona parte da Danilo Montaldi. Quando abbiamo fondato «Classe Operaia» io vivevo già con Massimo Paci in via Bandello. Io e Massimo siamo andati da Danilo, per chiedergli se voleva entrare in «Classe Operaia». Lui, con nostra sorpresa, perché eravamo ingenui, ha detto che non si fidava né di Panzieri né di Tronti e che preferiva stare per conto suo. Era molto contento che noi fossimo andati a cercarlo e ci disse che noi avremmo trovato da lui sempre la porta aperta, ma che di entrare in questa cosa non se la sentiva. Con Danilo ho avuto un rapporto bellissimo, molti contatti internazionali che ho avuto me li ha fatti conoscere lui, aveva una rete impressionante. Per gli Stati Uniti invece il creatore della nostra rete di contatti è stato Ferruccio Gambino, in molti casi però erano gli stessi contatti che aveva Danilo da tempo con la cosiddetta “Johnson-Forest Tendency”.
MC.: È anche vero che c’era un ambiente che si muoveva in quella direzione.
SFB.: Sicuramente. L’altro giorno, mentre leggevo la vita di Giovanni Pirelli (che tra l’altro io ho incontrato solo una volta, quando è venuto a casa mia a prendere una ragazza tedesca che stava da me), mi sono sorpreso perché quasi tutti i nomi citati là dentro li conoscevo. Questi réseaux internazionali, che andavano dall’Algeria alla guerriglia latino-americana (venezuelani, boliviani, peruviani), ci davano la sensazione di far parte di questo movimento rivoluzionario mondiale. Avevamo questa illusione di essere parte di una rivoluzione mondiale.
MC.: Credo fosse anche vero in qualche misura.
SFB.: In parte era vero. Almeno delle cose che succedevano in Italia eravamo partecipi per davvero, dopotutto, l’Operaismo italiano era un sistema di pensiero di tutto rispetto. Molti altri magari avevano molto più attivismo, capacità organizzative, ma non un sistema di pensiero così organico. Poi, purtroppo, quando io, che avevo tutti questi contatti, me ne sono andato da Potere Operaio, credo che nessuno abbia preso il mio posto. L’unico che manteneva i rapporti era Gambino, con l’America, ma nessuno di loro ha continuato questo lavoro internazionale, un po’ anche per la miopia di ex leader studenteschi che guardavano troppo il proprio ombelico. Gambino stesso ha messo in piedi iniziative che erano abbastanza indipendenti da Potere Operaio, se non proprio esterne, come Zero Work.
MC.: Da quello che dici, mi viene da pensare che gli anni più dolorosi siano stati gli anni ‘70, quelli in cui questa carica umana e politica ha perso forza.
SFB.: Perché i gruppi hanno tradito le istanze libertarie da cui erano nati, si sono trasformati in caricature di partitini. Non è che io non abbia avuto responsabilità in questa cosa, perché l’ho accettata anch’io all’inizio, me ne sono accorto un anno dopo. Anch’io ho accettato di fare Potere Operaio con un gruppo dirigente, con disciplina di partito, eccetera. Non mi voglio tirar fuori, ci sono cascato anch’io nella “sindrome bolscevica”. Poi mi sono reso conto che questi gruppi stavano diventando dei partitini repressivi. Si agitavano molto, facevano molte cose, Lotta Continua ha fatto anche delle cose bellissime, Potere Operaio soltanto nel Veneto ne ha fatte belle, però erano cose sterili. Che rapporto c’era con le lotte operaie? Nelle lotte operaie c’erano i veri protagonisti, questi con chi tenevano i rapporti? Quando ho fatto «Primo Maggio» e ho conosciuto Primo Moroni, la prima cosa è stata dire “no” a questi partitini, a queste caricature di partitini bolscevichi. Poi il maschilismo che c’era in questi gruppi lo si è visto dalla ribellione delle donne. Il femminismo nasce anche da una ribellione delle donne di Potere Operaio, poi c’è stata la ribellione delle donne di Lotta Continua, quindi vuol dire che c’erano degli aspetti repressivi anche su questo piano, sul piano della quotidianità, dei rapporti sessuali (anche in tal caso non mi tiro fuori, ero come gli altri). Dobbiamo ammettere queste cose, purtroppo. Alla fine la parte più coerente di questa deriva bolscevica (senza nulla togliere alla grandezza dell’esperienza russa, ma qui si tratta di epigoni velleitari) è quella che va verso la lotta armata. Gli altri si sono fermati a metà strada, loro sono andati fino in fondo, ma le premesse erano uguali. Potevi metterci dentro tutto il maoismo che volevi, ma quello era.
MC.: In più occasioni hai parlato di un superamento dell’operaismo.
SFB.: Secondo me il vero superamento è stato provocato dal ‘77, non prima. Da soli noi non ci siamo arrivati a superarlo. La mia preoccupazione, quando facevo «Primo Maggio», era di tornare a fare un operaismo applicato alla disciplina storica, era stare comunque dentro una specie di ortodossia operaista, che poi significava però Socialisme ou barbarie, significava C.L.R. James e Rawick negli Stati Uniti, avevamo antenati illustri. Quando viene il ‘77 è un movimento anti operaio, in un certo senso, la fabbrica non è il luogo della solidarietà, ma il luogo dell’oppressione-repressione (lettura foucaultiana), fabbrica, manicomi e carcere sono la stessa cosa. A quel punto lì è chiaro che l’operaismo viene messo in discussione, noi cerchiamo di capirlo, lo capiamo a metà, però quello è lo scossone grosso.
MC.: Io avevo anche pensato che dietro questo superamento ci fosse una presa d’atto del cambiamento radicale della società italiana e non solo.
SFB.: Sicuramente da allora si è chiusa l’epoca fordista e forse anche l’epoca comunista. Comunismo e fordismo, più o meno, sono fratelli. Dopo è iniziato questo periodo, che non so se mai finirà, della scomposizione della forza lavoro, ricomposizione, flessibilità, eccetera, in cui non si riesce a combinare nulla, di fatto. Non siamo riusciti a fare un movimento di precari, il nostro sindacato dei freelance, ACTA, è fragile, con pochi iscritti dopo quattordici anni che esiste (ma come fai a misurare coi vecchi parametri una consistenza organizzativa se ti trovi con 500 iscritti paganti e 10 mila followers?). Oggi ci sono queste lotte nella logistica, che riproducono la vecchia conflittualità operaia, sono gli immigrati che fanno quello che faceva il petrolchimico nel ‘68.
MC.: Credo di avertelo già chiesto. Bellocchio, a proposito dei «Quaderni Piacentini», sostiene che non siano stati in grado di cogliere questa “catastrofe antropologica”, come lui la chiama. Mi sembra che la tua posizione sia diversa.
SFB.: Sì, però ha anche ragione Piergiorgio, solo che la conclusione che ne ha tratto lui è che ormai non abbiamo più niente da dire. Ha chiuso i «Quaderni Piacentini», ha fatto «Diario» con Berardinelli e poi ha fatto la persona solitaria. Io, invece, col discorso sul lavoro autonomo ho rilanciato un’ipotesi di aggregazione sociale e politica anche di questa nuova forza lavoro, ho lasciato aperto un minimo di prospettiva che mi fa capire meglio anche la mia nuova professione, il fatto che non sono più un funzionario pubblico, non vedo più le cose da lontano, ma le vivo dall’interno. Sicuramente ho visto molte più aziende e fabbriche da quando ho iniziato a fare il consulente che quando facevo il militante di Potere Operaio. Tra l’altro, con molta più capacità di analisi e conoscenza di cose che, se vedi dall’esterno, non capisci mai. La mia differenza da Piergiorgio è questa. A Eugenio Gazzola, che ha scritto la storia dei «Quaderni Piacentini», ho detto: “Io sono stato un ospite – non so se ingrato o meno – dentro i «Quaderni Piacentini», perché io non ero né mi sentivo parte del loro gruppo”. A parte il fatto che la maggioranza era simpatizzante di Lotta Continua, in genere erano gente che non aveva un credo. Io ero operaista, la mia Bibbia era Operai e capitale. Quindi, da questo punto di vista, ero un corpo estraneo. Mi sono sempre sentito un corpo estraneo, trattato molto bene, con grandissima amicizia, con grande affetto reciproco verso Grazia e Piergiorgio. Io scrivevo sui «Quaderni Piacentini», ma non facevo parte del gruppo, anche perché avevo la mia rivista, «Primo Maggio», che era un po’ la mia casa. Piergiorgio non credo avesse simpatia né per Toni Negri né per Tronti, era troppo laico e disincantato. Però quando c’è stato il 7 aprile si sono schierati. Piergiorgio si sentiva invece molto vicino a Panzieri. Molti collaboratori dei «Piacentini» venivano dall’esperienza di «Quaderni Rossi», tutti però si fermavano a Panzieri, che non veniva messo in discussione da nessuno. Probabilmente pensavano che «Classe Operaia» fosse un tradimento, una corruzione dell’operaismo originario. Io venivo considerato tra quelli di «Classe Operaia» quello un po’ più ragionevole, “l’operaista buono”, diciamo così.
MC.: Arriviamo allora al periodo che tu chiami “convulso”.
SFB.: Con il ‘67 è iniziato il periodo più movimentato. Nel ‘68 c’è stato il maggio francese, poi è uscito l’articolo che ho scritto con Daghini e l’altra cosa importante, ad ottobre, è stato il CUB della Pirelli. Quando abbiamo pubblicato l’opuscolo Linea di massa. Lotte alla Pirelli, l’ho scritto io sulla base di un’intervista che ho fatto a uno dei due fondatori del CUB, Raffaello De Mori. A partire da lì è iniziato il periodo in cui ho cominciato a riorganizzare le fila con quelli che erano rimasti in «Classe Operaia», coinvolgendo però anche tutti questi studenti-lavoratori di Trento, tra cui c’è Dalmaviva, che è quello che apre l’intervento alla Fiat. Il primo maggio del ‘69 riusciamo a uscire con il primo numero della «Classe», poi subito dopo c’è l’intervento alla Fiat, e a Torino praticamente si coagula tutto. Il movimento studentesco romano, Potere Operaio pisano, i trentini, noi della «Classe», il movimento studentesco di Torino e in tal modo si forma l’assemblea operai-studenti delle Molinette. Dopo l’estate inizia l’autunno caldo, noi fondiamo Potere Operaio e gli altri fondano Lotta Continua. Con l’autunno caldo noi siamo praticamente tagliati fuori, il sindacato riprende in mano la situazione.
MC.: Da lì nascono i gruppi.
SFB.: Sì, da lì nascono i gruppi. In quel periodo io entro all’Università di Padova, in questo Istituto di Dottrina dello Stato, vero capolavoro che Toni ha fatto in quegli anni mettendo insieme un gruppo molto omogeneo di ricercatori, un’equipe ben affiatata, come succede di solito nelle facoltà scientifiche.
Quindi vado a Padova continuando a operare a Milano. Nel settembre del ‘70 ottengo un mio incarico di insegnamento (Storia del movimento operaio) e dopo poco esco da Potere Operaio, i rapporti con Toni diventano un po’ difficili, si rimediano un po’ quando facciamo la collana «Materiali marxisti». A questo punto lui perde l’interesse per Padova, una volta che ha costruito quest’Istituto lo lascia andare avanti da solo, si trasferisce a Milano e comincia la sua attività milanese, dove la situazione è molto complessa perché da Potere Operaio sono usciti quasi tutti, sono usciti con me.
MC.: Cosa vi ha spinto ad abbandonare il gruppo?
SFB.: Sostanzialmente le divergenze, il fatto che loro siano andati avanti senza neanche informarmi. Hanno stabilito rapporti con il Manifesto, hanno preso contatti con Feltrinelli e al convegno di Bologna hanno proposto Magnaghi come segretario generale.
Due anni dopo è cominciato «Primo Maggio», che è sostanzialmente un tentativo di riprendere una riflessione operaista, dal punto di vista teorico, su testi di Marx che prima non erano stati analizzati né da Alquati, né da Negri, né da Tronti. Io mi interesso ai testi marxiani di carattere storico, anche se sono testi di tipo giornalistico sono dei testi molto importanti, quindi viene fuori questo discorso sulla moneta e quello sui trasporti. L’incontro importante, in quella vicenda, è con gli scritti e la personalità di David S. Landes. Purtroppo non l’ho mai conosciuto personalmente, ma nella mia formazione ha contato moltissimo, perché è quello che ha capito meglio di tutti l’importanza della rivoluzione dei trasporti nella seconda Rivoluzione Industriale.
Quindi i due filoni su cui «Primo Maggio» si muove – moneta e trasporti – sostanzialmente nascono da quell’articolo che scrivo su Marx. Poi arrivano in redazione Lapo Berti, Marcello Messori, Brunello Mantelli, Cesare Bermani, Christian Marazzi, Franco Gori, Andrea Battinelli, Mario Zanzani, tutto il gruppo che si occuperà della moneta e andrà avanti per conto suo. Ho seguito meglio la parte riguardante il trasporto merci, i portuali, nonché le inchieste operaie sulla cassa integrazione, l’Innocenti, eccetera.
Questo è il quadro di «Primo Maggio» fino al 1980, ovvero fino a quando l’ho diretto io. Ho collocato questa rivista in uno spazio che era un porto franco, non controllato da nessun gruppo, aperto a tutti, compresi quelli della lotta armata. L’unico spazio dove, bene o male, tutti erano tollerati. L’altra cosa importante è naturalmente la Calusca.
MC.: Il garante era Primo Moroni.
SFB.: Esattamente, il garante era lui. Le dinamiche competitive dei gruppi extraparlamentari queste cose non le consentivano. La Calusca aveva questo spazio di grande libertà. Per quanto riguarda l’Istituto di Padova, il fatto che Toni non se ne occupasse più (veniva a fare lezione, ma se ne andava subito) ha avuto un effetto positivo, perché gli altri che tenevano gli insegnamenti – oltre a me c’erano Ferrari Bravo, Gambino, Mariarosa della Costa – hanno potuto sviluppare meglio dei propri percorsi individuali. Non c’è stato più un lavoro collettivo, l’ultimo che abbiamo fatto è stato quella ricerca sul Mezzogiorno finita nel ‘71 o ‘72. Successivamente, un po’ perché Toni aveva perso l’interesse per questo lavoro accademico, ciascuno ha potuto sviluppare un proprio filone di ricerca e di pensiero – Mariarosa della Costa con il femminismo, Ferruccio con la questione dell’America – e questo è stato un fatto positivo.
Quando arriviamo agli anni ‘80, soprattutto tramite la redazione torinese (Marco Revelli e gli altri) seguiamo da vicino la sconfitta alla Fiat. Si capiva chiaramente che sarebbe stata una sconfitta. Poi con il ‘79 e il 7 aprile c’è stata una frattura storica.
MC.: È la prima volta che si istituzionalizza lo stato d’emergenza.
SFB.: Esatto, si istituzionalizza dopo il movimento del ‘77 e sicuramente dopo il rapimento Moro. Tra l’altro, in seguito «Primo Maggio» viene attaccato anche su questo piano, praticamente sembra che «Primo Maggio» sia organico alle Brigate Rosse, tant’è che Marco Revelli querela Giuliano Ferrara, che lo aveva accusato in questi termini. Lui dopo se la prende con me in un articolo su «Rinascita» che esce pochi giorni dopo la morte di Moro, invece di querelarlo vado a Roma a chiedere ai pochi amici che ho ancora nel PCI d’intervenire per fargli cambiare idea. Comunque è stato un brutto momento, ormai poteva succedere di tutto, se si pensa come le cose siano avvenute in successione, il rapimento Moro, il 7 Aprile, la bomba di Bologna, la sconfitta alla Fiat. Nel giro di due anni è cambiato il mondo. Anche per queste ragioni ho deciso di andarmene in Germania, perché se fossero riusciti ad incastrare me avrebbero incastrato tutto «Primo Maggio». Io ero l’unico su cui loro potevano fare leva, infatti quando mi sono dimesso dalla direzione di «Primo Maggio» è stato anche per togliere questa spada di Damocle che pendeva sulla testa di quelli del mio “giro”. Ti ricordi come si muovevano i magistrati antiterrorismo, no? Decidevano che uno era capofila di una filiera e arrestavano trecento persone che loro pensavano appartenessero a quella filiera. Quindi me ne sono andato in Germania, è stata un’ottima scelta anche dal punto di vista psicologico, perché ero veramente distrutto, e da lì piano piano ho ricostruito il legame anche con Karl Heinz Roth e con questo circuito di compagni tedeschi che era stato sempre molto importante per noi.
MC.: Mi ricordo che ne avevi parlato la volta precedente.
SFB.: A Brema pensavo di riuscire a trovare un insegnamento, invece mi hanno dato due incarichi per due semestri, ma la situazione era molto difficile anche dal punto di vista economico. C’era una grande deindustrializzazione, il Land non aveva soldi, licenziavano professori tedeschi, quindi chiaramente per me non c’era posto. Poi sono andato a Parigi, dove ho raggiunto i rifugiati. Tra l’altro ho rivisto Toni, ma anche a Parigi non sono riuscito a inserirmi da nessuna parte. Quindi, visto che nel frattempo mi avevano buttato fuori dall’università e non avevo uno stipendio, sono dovuto tornare in Italia per cercare di sopravvivere. L’unica possibilità era vendere la casa dei miei genitori, che nel frattempo erano morti, all’inquilino che ci abitava. Così sono riuscito a pagare i debiti e a proseguire. A questo punto mi sono dovuto inventare una nuova vita e mi è venuta questa idea geniale di aprire una piccola società di consulenza proprio in trasporti e logistica, che bene o male è una conoscenza rara. Poca gente s’intendeva di queste cose, quindi non avevo molta concorrenza e da lì, con una serie di colpi di fortuna incredibili, dopo una decina d’anni mi hanno dato l’intera responsabilità del piano nazionale dei trasporti per la parte merci. Ho lavorato per tre anni al Ministero come consulente. È chiaro che una volta raggiunte quelle posizioni sei a posto. Dopo sono diventato per dieci anni consulente del CNEL, ho fatto consulenza anche all’amministratore delegato di Trenitalia, per quanto riguarda il trasporto merci. Insomma ho ricoperto tutta una serie di incarichi molto impegnativi e questo mi ha permesso anche di rientrare in contatto con i tedeschi, che sono più o meno i leader mondiali della logistica. A un certo punto sono diventato vicepresidente dell’Associazione Italiana di Logistica e questo mi ha consentito di tornare a Brema vent’anni dopo, perché il quartiere generale dell’Associazione Tedesca di Logistica è a Brema. Abbiamo scoperto di avere amici in comune, loro mi hanno dato la tessera di socio onorario, che ho ancora oggi, e da lì è iniziato un nuovo periodo di ricerca, che è durato sei o sette anni, per preparare il libro Le multinazionali del mare, che è la cosa più completa che ho scritto su questo tema, tant’è che si vende ancora oggi ed è stato adottato in varie università. Grazie a Franco Amatori ho potuto pubblicarlo con Egea, i soldi però ce li ha messi la compagnia dei portuali genovesi ”Pietro Chiesa”.
Nell’ ‘85, quando sono tornato dalla Francia, «Primo Maggio» esisteva ancora, lo dirigeva sempre Cesare Bermani ma il mondo era cambiato e avevano molte difficoltà. Io ho ripreso i contatti con loro, forse ho scritto ancora una volta, ma soprattutto ho ripreso i contatti con Primo Moroni, la Calusca e da lì, alcuni anni dopo, dopo aver chiuso «Primo Maggio», è nata l’idea di fare la Libera Università di Milano e del suo Hinterland (LUMHI). Siamo a metà degli anni ‘90. Il passo precedente era stato nel ‘91, quando con Ranchetti, Fortini, Edoarda Masi, eccetera, abbiamo fatto «Altre ragioni».
MC.: Sì, conoscevo un redattore di Porretta Terme, Rudi Lionelli.
SFB.: Lì però sono rimasto soltanto per un numero o due, poi ho lasciato la rivista. L’hanno gestita Ferruccio e Giovanna Procacci, che l’hanno portata avanti alcuni anni. Invece con Primo Moroni e altri abbiamo messo in piedi questo progetto di Libera Università di Milano e del suo Hinterland (LUMHI). Nel frattempo la Calusca si era trasformata in uno dei centri del movimento cyberpunk, con la Shake Edizioni, eccetera. È lì che ho scritto i saggi sul lavoro autonomo, che infatti sono stati pubblicati in coedizione da Feltrinelli e Shake. Le altre due cose importanti prodotte da questa esperienza sono state il libretto su Nazismo e classe operaia, che è un saggio bibliografico, e le lezioni sul revisionismo storico gestite da Pierpaolo Poggio.
MC.: In effetti, in quel momento Pierpaolo inizia ad essere un interlocutore privilegiato per tutti. È stato il suo grande progetto quello di tenere insieme anime diverse, questo gli va riconosciuto, ciascuno di noi ha qualcosa per cui ringraziarlo.
SFB.: Certo. Se tu pensi al lavoro sul revisionismo, al lavoro sul comunismo eretico, lui ha dato un contributo fortissimo. Purtroppo LUMHI non è andata avanti perché è stata gestita male da un punto di vista amministrativo e io mi sono ritrovato con cinquanta milioni di debiti. C’era ancora la lira, non sapevo come fare e lì ho avuto la fortuna di trovare tre-quattro persone che hanno sanato i debiti.
MC.: Tu pensi che avrebbe senso riproporre, con le dovute differenze, un’esperienza di quel genere in questo momento?
SFB.: Io penso di no, perché lì c’erano troppe cose che coincidevano: la nascita di questo movimento di cyberpunk, di questa generazione di smanettoni, la Calusca, gli ultimi anni della vita di Primo. Quello era un ambiente abbastanza irripetibile, noi stessi avevamo ancora qualcosa da dire. È stata una congiuntura un po’ eccezionale, abbiamo posto le basi di cose che si sviluppano ancora adesso. Per riprodurla non saprei da che parte cominciare.
MC.: Manca uno spazio di elaborazione di idee e di esperienze. Capisco le difficoltà, ma in un momento storico di questo tipo c’è poco altro. Quando le esperienze sono così ricche come quelle che tu racconti, bisognerebbe riuscire a creare una situazione di università – uso un termine equivoco – popolare.
SFB.: Sì, certo. Comunque poi anche lì è avvenuta una frattura storica, soprattutto con la morte di Primo. La Calusca non poteva resistere alla sua morte, è diventata un’altra cosa. Ci vado ogni tanto, ho ancora degli amici lì, ma non è più il mio punto di riferimento.
Nel 2001, con le Torri Gemelle, sicuramente la storia è cambiata. In quel periodo mi sono dedicato molto a questa attività professionale. Nel 2004 è nata ACTA, delle persone che avevano letto il mio libro si sono messe insieme, io le ho conosciute e da allora lavoro con loro, dando un contributo con la creazione di reti internazionali. Abbiamo fondato questa rete europea, che poi si è sciolta, e io ho contribuito soprattutto su questo piano. Sapendo tessere relazioni internazionali da sempre, mi sono assunto questo ruolo. Poi è venuta una ragazza a seguire l’estero, che purtroppo è morta due anni fa, e adesso sono praticamente senza nessuno che conduca avanti questo lavoro. Abbiamo rapporti con SMART, una grande società di mutuo soccorso presente in nove Paesi, ma è l’unico contatto internazionale che abbiamo.
MC.: Mi sembra che comunque non sia mai venuto meno un rapporto virtuoso con la militanza.
SFB.: Quello sicuramente tramite ACTA sono riuscito a mantenerlo, però gli anni duemila sono senza dubbio quelli in cui la parte dedicata alla professione è stata preponderante. Nel 2014 mi hanno fatto presidente di questa società a Trieste, l’Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi (AIOM) quindi c’è stato un ritorno insperato alla città natale. L’aspetto professionale mi occupa molto.
MC.: Anche perché accompagnato da un aspetto, chiamiamolo così, sempre militante, in senso positivo.
SFB.: Sì, e anche perché non è una professione in cui ho sposato le teorie dominanti, ma un tentativo, in parte riuscito, di inventare una politica della logistica, uno sguardo sulla logistica e sul mondo del lavoro a essa correlato che non c’era mai stato. Questo è stato un po’ il mio contributo. Adesso ho creato anche una piccola rete di persone molto più giovani, che seguono anche i Cobas. All’interno della professione, della consulenza, in ruoli anche importanti come può essere un presidente di porto o di interporto ci sono persone che svolgono ruoli istituzionali con uno sguardo, un’impostazione molto diversa dal mainstream e molto più simile a quella che sono riuscito a sviluppare nei miei interventi, nei miei scritti.
MC.: Una questione spinosa: rispetto al conflitto, alla guerra, capisco che è difficile dire qualcosa…
SFB.: È una cosa troppo grossa per noi, abbiamo fatto questo appello per la pace, che lascia il tempo che trova. Purtroppo ha raccolto pochissime firme, in Germania ne ha raccolto un numero uguale al nostro, è stato un po’ un flop. Non credo ci sia possibilità di soluzione negoziale a breve termine.
MC.: Secondo te, stava nell’ordine delle cose un conflitto di questo genere?
SFB.: No, o forse ci stava ma non ce ne siamo accorti.
MC.: Sì, questo è l’aspetto che più dà da pensare. Altra questione, quella dell’attualità del comunismo, questione che va affrontata senza cedere a discussioni eccessivamente ideologizzate.
SFB.: Forse non esplicitandolo, io mi sono mosso su una falsariga secondo la quale, finito il fordismo, è finito anche il comunismo. Il comunismo è figlio del fordismo. Quando il fordismo tramonta, i parametri con cui ragionavamo sul comunismo diventano obsoleti. Contrariamente ad altri (es. il Negri della moltitudine) sono rimasto attaccato a delle figure professionali, ho cercato sempre di trovare un aggancio con figure simbolo di modelli di sviluppo capitalistico, figure che simboleggiano il modo di produzione che cambia ed è cambiato fortemente dal fordismo in poi, direi soprattutto con la finanziarizzazione dell’economia.
Questo è un po’ il contributo di lungo termine che ha portato il lavoro sulla moneta di «Primo Maggio», l’aver intuito precocemente che la finanziarizzazione dell’economia stava cambiando le carte in tavola.
MC.: Una struttura che organizzasse delle lezioni sarebbe preziosa per questo. Pensavo anche ai lavori di Carlo Tombola, in tutt’altro ambito, che sono ricchissimi di elementi di riflessione. Bisognerebbe riuscire a trovare dei luoghi, anche dei luoghi virtuali, grazie ai quali queste idee trovassero una loro circolazione.
SFB.: Non so se su questo terreno riuscirei ancora a dire qualcosa di utile. Mi sento sempre più attratto dalla storia. Tornare a occuparmi di storia, come ho fatto con il lavoretto sul Lloyd Triestino, nel 2021, o con le tre lezioni sui modi di fare storia, tenute alla Casa della Cultura di Milano nel febbraio del 2022, mi sembra il modo più appropriato per occupare ancora il tempo che mi resta.
[Testo raccolto da Irene Conti e Massimo Cappitti nella primavera del 2022]
* Dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 27 aprile 2022 sul doppio cognome ho scelto d’inserire nel mio cognome anche quello di mia madre, almeno una parte, perché si chiamava Laura Buffon Fontegher.