Antonio Prete,
Carte d’amore
Laura Barile

Antonio Prete, Carte d’amore, Torino, Bollati Boringhieri, 2022.

Cosa fare con i libri sui sentimenti che Antonio Prete viene scrivendo da vari anni, dalla nostalgia alla lontananza, alla compassione, all’amore? Leggerli come un romanzo, sfogliarli fermandosi ai motivi che più ci riguardano, o centellinarli, con le infinite diramazioni e rimandi ad altri libri, a pitture, a opere musicali, stimolati a un dialogo con l’autore che richiederebbe più tempo e più spazio, fra obiezioni e digressioni?

Forse una via possibile, prima di lasciarsi catturare in Carte d’amore da questo racconto, frammentario e per frammenti, di narrativa e poesia e musica e pittura, è quella più elementare: fermarsi prima di tutto a capirne la struttura, entrare nella concezione del libro e circoscriverne almeno alcuni temi e rimandi. Vediamo dunque prima di tutto il titolo, l’indice e la bibliografia: perché Carte d’amore? Perché qui si parla sì di scritture poetiche, ma anche di lettere, in uno dei paragrafi più attraenti, «Lettera amorosa» che vedremo. Il libro è tripartito: la prima parte è un lungo elenco di figure, una sorta di “abbecedario essenziale della lingua dell’amore”, secondo l’autore: sedici figure, alcune delle quali davvero essenzialissime. Segue un Intermezzo sul Simposio di Platone, e infine un altro gruppo di sette voci sul Paesaggio dell’amore.

Le prime due figure sono l’«Apparizione» e il «Turbamento». L’apparizione – il cosiddetto colpo di fulmine – come nota l’autore ha qualcosa di magico che risiede nel lampo dello sguardo: dall’Angelo della Annunciazione a Werther a Jacopo Ortis a Madame Arnoux nell’Educazione sentimentale, e ancor più quello che percorre l’intero libro, l’éclair, il lampo dello sguardo nella poesia À une passante delle Fleurs du mal (tradotte come si sa da Prete), v.9: «Un éclair… Puis la nuit! – Fugitive beauté / Dont le regard» etc. E poi ancora Anna Karenina appena scesa dal treno, fino alle fanciulle in fiore di Proust, e agli occhi asiatici grigio verdi di Madame Chauchat, che ricordano a Hans Castorp gli occhi kirghisi del compagno di scuola Pribislav Hippe nella Montagna magica di Thomas Mann. Il tutto a partire da Beatrice a nove anni e poi a diciotto nella Vita Nuova, con la relativa regola di Amore, che passa dagli occhi, nella dottrina d’Amore della poesia trobadorica e trecentesca: è la luce (che si materializza nelle metafore del sole e la luna e le stelle).

Ma subito un’obiezione: l’Apparizione nella Recherche proustiana non è, non è quella del gruppo fluttuante delle fanciulle in fiore! bensì l’indimenticabile lampo turchese superbo e rapace dello sguardo del barone di Charlus nella sua prima, aristocratica e orgogliosa apparizione, che folgora l’autore e il lettore, e che come un tema fondamentale in quella grandiosa sinfonia che è il libro ritorna nei volumi successivi. Fino all’ultimo: quando il narratore scopre la sua predilezione per un certo tipo di efebo, «l’éphèbe dont la forme, intaillée dans le saphir qu’étaient les yeux de M. de Charlus, donnait à son regard ce quelque chose de si particulier qui m’avait effrayé le premier jour à Balbec (Le temps retrouvé, Paris folio p. 125), l’efebo la cui forma, intagliata nello zaffiro che erano gli occhi di M. de Charlus, dava al suo sguardo quel nonsoché di così particolare che mi aveva spaventato il primo giorno a Balbec… fino a quando dopo il colpo apoplettico quegli occhi perderanno infine il loro splendore prima di spengersi per sempre.

E anche, subito, una divagazione: ancora in Le Temps retrouvé pp. 226-7, Proust, ponendosi come dice in una «nobile filiazione», trova un esempio di reminiscenza o memoria involontaria non tanto fortuita ma decisiva in Baudelaire: vedi l’odeur d’une femme cercato nella sua capigliatura o nel suo seno, sensazione che in La chevelure evoca e crea «l’azur du ciel immense et rond» (v. 22) e «un port rempli de flammes et de mâts» (v. 12). Verso quest’ultimo, aggiungiamo, e immagine, che ispira i vv. 7-8 di Lo sai debbo riperderti e non posso… nelle Occasioni montaliane: «paese di ferrame e alberature / a selva nella polvere del vespro»: il porto di Genova al tramonto. E ritroveremo queste alberature, con la baudelairiana “nostalgia di un paese che non si conosce”, nella traduzione di Prete del verso 12 proprio di La chevelure in una figura successiva del libro, «I confini del corpo»: «mare d’ebano, un sogno lucente in te respira / di rematori e fiamme e vele e alberature». Alla quale segue una citazione da Les bijoux: «Era dunque sdraiata, e si lasciava amare» La figura termina con l’addio di Castorp a madame Chauchat nella Montagna magica.

Ma basta digressioni, torniamo allo spavento del giovane Marcel di fronte all’apparizione di Charlus: con lo spavento eccoci alla seconda figura, il «Turbamento», che è fatto anche di paura e spavento, uno spavento presago del dolore che l’amore infliggerà. A partire dalla donna “terribilis” del Cantico dei Cantici, e sulle sue orme Cavalcanti («e fa tremar di caritate l’aere»); ma soprattutto Saffo, il cui desiderio è intriso di stupore e paura (il thauma greco). Perché il desiderio “atterrisce”, è confusamente consapevole de «le pene che questo desiderio dovrà soffrire», nota Leopardi in Zib. 3445, 16 sett. 1823. E poi, dopo i grandi romanzi ottocenteschi e il De l’amour di Stendhal, ecco nel ventesimo secolo un piccolo grande libro sul Turbamento – ma senza spavento: Ernesto di Saba.

Sostiamo ancora nella figura «Lettera amorosa», che è il titolo in italiano di un libretto di René Char illustrato prima da Arp e poi da Braque, che a sua volta riprendeva il titolo del madrigale di Monteverdi del 1619: un concentrato e una mescolanza di arti che collaborano. Di lettere è fatto il romanzo epistolare: primo fra tutti Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos, con le perfide strategie epistolari di Valmont e della marchesa di Merteuil per circuire l’innocente giovanetta. Antesignano Ovidio con le Heroides, in epoca moderna il romanzo epistolare è il genere che segue alla novella: dalla Princesse de Clèves di M.me de Lafayette a La nouvelle Héloïse di Rousseau (e in altro ambito le Lettres persanes di Montesquieu), a Werther e a Jacopo Ortis. Dove la lettera è il rimedio dell’assenza.

Altra figura interessante, la «Seduzione». A partire dai Greci, ci racconta l’autore, cioè dall’Odissea e dal Simposio, la seduzione muove da qualcosa che è oltre il corpo. E questo oltre partecipa del divino: ecco allora Calipso, Circe, le Sirene con la lettura che ne fecero Horkheimer e Adorno, nonché il famoso capitolo dell’Ulysses di Joyce; e poi l’apologo di Kafka sul Silenzio delle sirene, il bel racconto di Tomasi di Lampedusa La sirena, fino alla maga Alcina dell’Ariosto e al dipinto di Nicolas Poussin sull’incantesimo di Rinaldo, dalla Gerusalemme del Tasso, che Prete racconta in una bella èkphrasis come ama fare in questo libro. E ancora sulla vertigine dei sensi, questa volta legata alla musica: il Venusberg del Tannhäuser wagneriano come lo racconta Baudelaire che vi assisté nel 1861. Immancabile poi Don Giovanni di Mozart e Da Ponte, con le riflessioni sulla musica come suprema seduzione di Kierkegaard nel Diario di un seduttore. E ancora molto altro che non citiamo per lasciarlo alla curiosità di chi legge.

Ancora un cenno a due o tre figure: quella del «Dialogo dell’amicizia e dell’amore» – grande tema, che indaga sul confine tra questi due sentimenti studiato dai filosofi, da Platone e Aristotele e Cicerone fino a Montaigne di cui si cita la splendida e giustamente famosa frase: «Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: Perché era lui; perché ero io». E ancora, la figura del «Desiderio» – che ha come suo fondamento la mancanza – con veloci ma pregnanti riflessioni sul pensiero leopardiano che anticipa il pensiero novecentesco, da Freud a Lacan a Marcuse a Deleuze e Guattari. Desiderio e addirittura struggimento nelle bellissime poesie occitaniche (Bernart de Ventadorn) o nell’Amor de lohn, da lontano, della poesia medievale di Jaufré Rudel e soci, fino alla celebre canzone della ballatetta di Cavalcanti e al motivo del cuore rubato nei cinquecenteschi Gaspara Stampa e del Michelangelo delle Rime: «Come può esser ch’io non sia più mio? / o Dio, o Dio, o Dio, / che m’ha tolto a me stesso»).

Infine, l’importante, e non banale, figura «Poesia d’amore e cosmologia», tema dell’ultimo corso tenuto da Antonio Prete all’Università di Siena. Dalla sposa del Cantico dei Cantici con tutte le trasposizioni allegoriche che la investono a partire dal commento di Origene; alla Commedia dantesca; all’orizzonte cosmologico istituito da Leopardi «come spazio sconfinato del suo interrogare»; alle visionarie cosmografie pascoliane, fino a Char, a Luzi, a Celan.

La prima parte conclude con la lingua dei mistici, la Notte oscura o Canto dell’anima di Giovanni della Croce, dove «si insedia la trasposizione mistica col suo demone dell’allegoria»: otto strofe quinarie in cui la voce femminile narra l’avventura notturna che porta l’amata verso l’amato (dove vedrei bene una èkphrasis di qualche notturno barocco di Georges de la Tour). E chiude sull’amore “orizzontale”, cioè agape, contrapposto all’amore verticale dei mistici: «Dio è amore» dice la prima lettera di Giovanni nel Nuovo Testamento: e qui si poteva citare Martin Buber o Lévinas, dove l’amore di Dio, e per Dio, passa attraverso l’amore per il “tu”. Massimo esempio di agape: l’opera, poetica e non solo, di san Francesco.

A questa prima parte composta da figure fa pendant, dopo l’intermezzo sul Simposio, la terza parte: Il paesaggio dell’amore, con altrettanta dovizia di temi ai quali si associano letture e proposte di brani dalla grande letteratura e arte europea, a partire dal libro di Curtius Letteratura europea e Medioevo latino. Ecco dunque il «Giardino» (da Ronsard a Rousseau), «La voce del Mare» (Ovidio, Shakespeare, Pascoli, Bachelard), «Fluviali parvenze» (Rimbaud, Gide, Orfeo, Bachelard), «La selva, la stanza, le stagioni» (Lorca, Guinizelli, Tasso, Gide, D’Annunzio), «L’infinito in una strada» (Baudelaire, Proust, Machado, Sbarbaro, Caproni, Cortázar), «Il paese del corpo» (Lorca, Neruda, Proust).

L’Intermezzo fra le due parti citate verte sul Simposio di Platone e il suo commento di Marsilio Ficino in latino (poi tradotto). Lorenzo de’ Medici, raccogliendo la tradizione dei “platonici” aveva riproposto un convito di umanisti analogo al Simposio platonico. È questo convito di umanisti riuniti a parlare del Simposio che racconta Ficino a Lorenzo de’ Medici: e che diventa, oltre che una esegesi del testo antico da parte dei sette umanisti invitati, anche un «pensiero dell’amore», come scrive Prete, che dominerà la grande stagione della poesia rinascimentale.

Il Simposio era stato il soggetto di un seminario tenuto dall’autore nella vecchia sede della Facoltà di lettere di Siena, il palazzo quattrocentesco di San Galgano in via Fieravecchia con il bel giardino del settecento dove in primavera si tenevano, appunto, i seminari, talvolta prolungati nel pomeriggio fino alla cena nella piazza sottostante il Campo. Un’atmosfera di empatia fra insegnante e allievi emana da queste pagine e le vivifica, nella lenta perlustrazione del racconto di Apollodoro a Glaucone del racconto di Aristodemo, testimone al banchetto in casa di Agatone: il quale Aristodemo aveva proposto a Socrate di partecipare. Si tratta dunque del racconto di un racconto, come se, osserva Prete, «dell’amore si potesse parlare solo per sentito dire».

Da Fedro a Pausania, a Erissimaco, al famoso mito narrato da Aristofane dell’unità originaria fra maschile e femminile, a Agatone, a Socrate e al suo serrato dialogo con Diotima, con la quale entra in scena il discorso del femminile e della differenza (Dickinson, Cvetaeva, Woolf, Morante, per non aprire una parentesi che ingoierebbe tutto il testo), arriviamo infine a Alcibiade. La conclusione, nel commento di Marsilio Ficino, è una esortazione: che il principio della ricerca di Amore sia Amore stesso. A questo, e ci scusiamo per questo inevitabile appiattimento sintetico, segue un Margine (come diceva Carlo Dossi, cioè un’aggiunta laterale, scritta sul margine del foglio) leopardiano: ovvero la prima delle Operette morali, nella quale gli dèi, impietositi per gli esseri umani, creano per loro un fantasma, o larva, detto Amore. Un fantasma – o idea – che si trasformerà poi in una presenza reale, il dio fanciullo Amore, figlio di Afrodite.

Resta da dire di tre brevi testi inframezzati alle tre parti ora descritte: ognuno su un’opera d’arte, e cioè uno sul dipinto di Tiziano Amor sacro e amor profano, il secondo sulla scultura Amore e Psiche del Canova e il terzo sulla celebre fotografia Le baiser de l’Hotel de Ville di Robert Doisneau. Tiziano è visto alla Galleria Borghese con Mario Luzi: la lunga amicizia col poeta, Pienza, i suoi silenzi; e poi una èkphrasis e i riferimenti alle opere letterarie che ispirarono la tela. Canova è visto al Louvre: il commento va dalla favola di Apuleio nell’Asino d’oro, alla Ode to Psyche di Keats, alle riflessioni leopardiane sulla felicità del non sapere, il divieto che la curiosità di Psiche (l’anima) infrange a suo eterno danno; e alla ammirazione di Flaubert per la composizione canoviana ammirata nel suo Voyage en Italie et en Suisse.

Ma è con la fotografia di Doisneau del 1950, certo galeotta come il libro di Paolo e Francesca, che l’autore stesso fa capolino nel libro, non come insegnante ma discente, con la sua prima scoperta di Parigi negli anni di quella foto in bianco e nero. Una fotografia che, nota l’autore, dice anche di un altro amore: l’amore per Parigi. Non a caso compare qui, oltre a Hayez, a Brancusi, a Klimt, a Munch e a Chagall, il Bacio di pietra vibrante di desiderio di Auguste Rodin.

Parigi, con i suoi scrittori e poeti e artisti: ci accorgiamo allora che la città di Parigi traspare in filigrana dietro a questo libro, che accoglie sì tanta arte europea e non solo francese dalle origini a noi ma, come dire, filtrata attraverso una grande passione, la passione appunto dell’autore, a sua volta scrittore e poeta, per questa città, per la sua cultura e per gli omaggi di tanti suoi grandi artisti all’amore. Del quale si può parlare, come sapeva il Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso, solo per frammenti.