
È un luogo comune che Piacenza non faccia parte dell’Emilia, non sia propriamente emiliana, o se si preferisce emiliano-romagnola. Per l’esattezza, Piacenza confina principalmente con l’Emilia. Così come confina, un po’ meno, con la Lombardia, la Liguria, il Piemonte. Il carattere piacentino è una mescolanza di caratteri di queste regioni. L’ibridazione dà talora risultati eccellenti. Non nel nostro caso.
Piacenza è una città ricca e avara. Restia a ogni più utile investimento, per molti decenni ha detenuto il primato nazionale dei depositi bancari. Non pochi piacentini emigravano ed emigrano, attratti soprattutto da Milano, capace di offrire opportunità incomparabilmente superiori.
Ma a sua volta Piacenza ha sempre ricevuto emigranti. Non solo, come in tutto il Nord, funzionari e impiegati di prefettura, questura, uffici fiscali e giudiziari, in massima parte del Meridione. C’è anche una migrazione più prossima: per esempio, molti primari ospedalieri arrivavano e arrivano a Piacenza, spesso per mettervi radici, dalle Università di Pavia, Parma, Bologna. E proprio da Bologna, nel 1923, venne il professor F., chiamato a dirige re il nostro manicomio. Con lui, la moglie e i tre figli, nati tra il ’15 e il ’18. Uno di questi, ritornato a Bologna per seguire gli studi di Medicina, vi si ristabilì definitivamente, compiendo nel capoluogo regionale una brillante carriera di docente e primario. La figlia, laureata in Lettere, ha fatto l’insegnante a Piacenza per cinquant’anni. Il terzo figlio, ingegnere, di cui traccerò un rapidissimo schizzo, salvo gli anni universitari e di guerra, ha vissuto e vive tuttora nella nostra città.
Come sia accaduto che, nonostante la differenza d’età e di idee, l’assenza di ogni contiguità professionale o d’altro genere, dal 1980 circa ad oggi si sia stabilito tra noi due un fortissimo rapporto d’amicizia, fa parte dei casi misteriosi e fortunati della vita. Il tramite fu il colpo di fulmine tra mia figlia, allora di sei-sette anni, e Mou, il cane lupo dell’ingegnere, sul pubblico passeggio, un grande viale alberato chiuso al traffico motoristico, luogo d’incontri, giochi e chiacchiere. L’amicizia tra la bambina e il cane contagiò e coinvolse quasi subito i rispettivi genitori (Mou era praticamente quasi un figlio per i suoi padroni).
Tuttavia il personaggio mi era noto fin dalla mia adolescenza. E non tanto per i buoni rapporti tra le nostre famiglie, o perché una mia sorella fosse stata allieva, come centinaia d’altre ragazze, della professoressa F., o per la stima che già cominciava a premiare l’attività professionale del giovane ingegnere. Per me e i miei compagni di liceo e poi d’università, tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta, la notorietà dell’ingegnere era legata alla sua fama di irresistibile tombeur de femmes. Il modello non era l’onnivoro Don Giovanni, per cui qualunque femmina, d’ogni grado forma età, brutta o bella, purché porti la gonnella, è preda appetibile e degna di entrare nel catalogo. Né direi che sua passion predominante fosse la giovin principiante. Le donne che, a ragione o a torto, gli si attribuivano come amanti erano per lo più giovani spose della buona borghesia, sempre molto belle e eleganti. Storie su cui circolava una ricca aneddotica. Ma questa fama acquistava un valore e un sapore particolarissimi dal fatto che il nostro eroe era privo di una gamba.
Nella sezione Figure della vita mondana del Jean Santeuil, Proust dedica un capitoletto a un certo Jacques Bonami soprannominato Piè-di-legno (che, se la memoria non mi tradisce, non ritorna nella Recherche):
Talora si dilettava a recitare una parodia d’autocritica: «Pensa, perdere una gamba a vent’anni! Una giovinezza spezzata. Mia madre quasi impazzita. Anche mio padre non si riprese mai del tutto dal colpo. C’era di che far nascere una vocazione filosofica o magari religiosa: elaborare il dolore, sublimarlo in opere di pensiero… Avrei potuto diventare un Leopardi… Il biglietto per l’immortalità. E invece io, sciagurato!, lo straccio, e mi getto nella vita con entusiasmo, con moltiplicato desiderio di divertirmi! Ah, la mia incorreggibile superficialità…».
Ma proprio Leopardi, in una lettera a Giordani (da Firenze, 6 settembre 1832), annunciandogli la morte di Enrico Lenzoni, lo chiama «felicissimo» e «fortunatissimo tra mille giovani» per l’estrema saggezza della sua vita, consacrata a «bere, fumare e usar con donne», e confessa di non pensare a lui se non con «un’infinita invidia».
Un uomo così abituato, così affezionato all’indipendenza, non poteva vedere il vincolo matrimoniale se non come una sorta di ergastolo, di morte civile. Ma dopo essersene vittoriosamente difeso per oltre un trentennio, a cinquantacinque anni dovette infine arrendersi alla giovinezza, alla bellezza, all’amore di Pinuccia. Un matrimonio celebrato in forma quasi clandestina, per stornare possibili vendette delle rivali. Ma come aveva saputo trasformare la sventura della mutilazione in una fortuna, così fu anche col matrimonio: dalla sconfitta la felicità.
In una delle nostre recenti chiacchierate, inevitabilmente nostalgiche, ci chiedevamo quale fosse stata la miglior stagione della nostra vita. Per me, scartati i venti e anche i trent’anni, erano stati i quaranta. Potendo tornare indietro, o risorgere dopo la morte, avrei scelto quell’età. L’amico convenne che anche per lui la quarantina era stata un’eccellente stagione: successo professionale, sicurezza economica, stima sociale e, quanto alle donne, un’offerta mai così superiore alla domanda. «Però» soggiunse «non avevo ancora conosciuto la Pinuccia». Non gli importava che a quarant’anni fosse assai più prestante e vitale che a cinquantacinque: «Mi mancava il meglio della vita».