L’invidiabile fascino della gamba mancante
Piergiorgio Bellocchio

Per ricordare Piergiorgio Bellocchio, scomparso il 18 aprile, «L’ospite ingrato» pubblica una serie di interventi sulla sua figura e la sua opera, così come una breve scelta di suoi testi poco noti. Oggi riproponiamo un brano tratto dal volume Dal grande fiume al mare. Trenta scrittori raccontano l’Emilia-Romagna, uscito per Pendragon, Bologna, nel 2003 (pp. 209-13).

È un luogo comune che Piacenza non faccia parte dell’Emilia, non sia propriamente emiliana, o se si preferisce emiliano-romagnola. Per l’esattezza, Piacenza confina principalmente con l’Emilia. Così come confina, un po’ meno, con la Lombardia, la Liguria, il Piemonte. Il carattere piacentino è una mescolanza di caratteri di queste regioni. L’ibridazione dà talora risultati eccellenti. Non nel nostro caso.

Piacenza è una città ricca e avara. Restia a ogni più utile investimento, per molti decenni ha detenuto il primato nazionale dei depositi bancari. Non pochi piacentini emigravano ed emigrano, attratti soprattutto da Milano, capace di offrire opportunità incomparabilmente superiori.

Ma a sua volta Piacenza ha sempre ricevuto emigranti. Non solo, come in tutto il Nord, funzionari e impiegati di prefettura, questura, uffici fiscali e giudiziari, in massima parte del Meridione. C’è anche una migrazione più prossima: per esempio, molti primari ospedalieri arrivavano e arrivano a Piacenza, spesso per mettervi radici, dalle Università di Pavia, Parma, Bologna. E proprio da Bologna, nel 1923, venne il professor F., chiamato a dirige re il nostro manicomio. Con lui, la moglie e i tre figli, nati tra il ’15 e il ’18. Uno di questi, ritornato a Bologna per seguire gli studi di Medicina, vi si ristabilì definitivamente, compiendo nel capoluogo regionale una brillante carriera di docente e primario. La figlia, laureata in Lettere, ha fatto l’insegnante a Piacenza per cinquant’anni. Il terzo figlio, ingegnere, di cui traccerò un rapidissimo schizzo, salvo gli anni universitari e di guerra, ha vissuto e vive tuttora nella nostra città.

Come sia accaduto che, nonostante la differenza d’età e di idee, l’assenza di ogni contiguità professionale o d’altro genere, dal 1980 circa ad oggi si sia stabilito tra noi due un fortissimo rapporto d’amicizia, fa parte dei casi misteriosi e fortunati della vita. Il tramite fu il colpo di fulmine tra mia figlia, allora di sei-sette anni, e Mou, il cane lupo dell’ingegnere, sul pubblico passeggio, un grande viale alberato chiuso al traffico motoristico, luogo d’incontri, giochi e chiacchiere. L’amicizia tra la bambina e il cane contagiò e coinvolse quasi subito i rispettivi genitori (Mou era praticamente quasi un figlio per i suoi padroni).

Tuttavia il personaggio mi era noto fin dalla mia adolescenza. E non tanto per i buoni rapporti tra le nostre famiglie, o perché una mia sorella fosse stata allieva, come centinaia d’altre ragazze, della professoressa F., o per la stima che già cominciava a premiare l’attività professionale del giovane ingegnere. Per me e i miei compagni di liceo e poi d’università, tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta, la notorietà dell’ingegnere era legata alla sua fama di irresistibile tombeur de femmes. Il modello non era l’onnivoro Don Giovanni, per cui qualunque femmina, d’ogni grado forma età, brutta o bella, purché porti la gonnella, è preda appetibile e degna di entrare nel catalogo. Né direi che sua passion predominante fosse la giovin principiante. Le donne che, a ragione o a torto, gli si attribuivano come amanti erano per lo più giovani spose della buona borghesia, sempre molto belle e eleganti. Storie su cui circolava una ricca aneddotica. Ma questa fama acquistava un valore e un sapore particolarissimi dal fatto che il nostro eroe era privo di una gamba.

Nella sezione Figure della vita mondana del Jean Santeuil, Proust dedica un capitoletto a un certo Jacques Bonami soprannominato Piè-di-legno (che, se la memoria non mi tradisce, non ritorna nella Recherche):

Aveva perduto il piede sinistro a caccia e il duca di Réveillon affermava di averlo conosciuto prima ch’egli avesse l’elegante piede di legno che aveva dato origine al suo soprannome, e (si può aggiungere) alla sua fama. Quel piede gli aveva fornito anzitutto una identità mondana, primo elemento indispensabile alla formazione di una «personalità». A un Bonami fornito di due piedi non sarebbero stati risparmiati lunghi anni nei quali la persona pronta a scrivere il suo nome sulla lista delle personalità mondane si sarebbe informata inutilmente: «Ho pranzato con un certo Bonami, chi è?». «Ah, già, Georges Bonami, mi pare?». «Oh, non so se si chiama Georges, è uno biondo». «Forse, ma non so se è quello». E il nome, pronto ad essere accolto dalla memoria, sarebbe stato come certi rottami fluttuanti che nessun raffo può agguantare, respinti dal riflusso del dubbio sul mare dell’ignoto, in preda ad innumerevoli peregrinazioni. Bonami non dovette passare per questo periodo preparatorio. Se anche si esitava un attimo: «Jacques Bonami». «Non so se si chiama Jacques». «Insomma, Piè-di-legno, un signore che ha un piede di legno?». «Ah, già, è quello». «Sì, è Jacques Bonami, un grande amico di Réveillon», ecc.

Dal momento che la società mondana di Piacenza è infinitesima rispetto a Parigi, il nostro ingegnere non aveva alcun bisogno di un soprannome. A individuarlo bastava il nome, e tuttavia la gamba di legno, e poi di gomma, era assolutamente imprescindibile, faceva tutt’uno con la sua identità. Prosegue Proust:

Siccome Bonami era un bell’uomo, e aveva soprattutto quello che si chiama stile – cosa nella quale un’andatura un po’ strascicata, in questo caso prodotta dal piede di legno, può entrare come elemento importante – così, leggermente claudicante sul suo civettuolo piede di legno, non fu affatto privo della simpatia femminile, anzi quel difetto l’attirò verso di lui, come un leggero strabismo, o un monocolo ben portato, hanno qualcosa di più singolare della bellezza di una pupilla chiara o di uno sguardo schietto. Avere una fisionomia speciale, non essere come tutti, ecco elementi di un prestigio incontestabile; e l’amore vive di prestigio. Sotto un pantalone impeccabile, in una scarpetta di vernice, avere un piede di legno o rivelarne la presenza solo all’andatura, la cui irregolarità ha l’aria di un’eleganza e la pigrizia di una cosa raffinata, vuol dire avere qualcosa di più d’una distinzione, aver quasi un vizio che sembra promettere alla donna fortunata che con quell’uomo andasse fino in fondo, carezze delle quali nessuno avrebbe potuto mai immaginare la brutale lentezza, le artificiali risorse. E quindi bisognava vedere, in società, quando, parlando di Bonami, una donna diceva: «Non so capire come una donna possa amare un uomo con un piede di legno», quale disprezzo un simile modo di pensare ispirava a certe eleganti giovani, persuase che nessuno aveva «tanto stile» quanto lui, e che non lo avrebbero trovato cosi affascinante se avesse avuto tutt’e due i piedi.

Il nostro ingegnere non poteva dirsi un «bell’uomo» come Bonami: bassa statura, naso pronunciato, grandi orecchie. E a mancargli non era il solo piede ma la gamba, e ciò produceva ben più che una «andatura un po’ strascicata» ma una vistosissima zoppia. In compenso era assai più intelligente, vivace e spiritoso del personaggio proustiano, su cui aveva anche il vantaggio di esser rimasto mutilato non già in un banale incidente di caccia ma in guerra. Ufficiale di Marina, affondato alla fine del ’42 nel Mar Jonio, era rimasto in acqua per due giorni aggrappato a un relitto, gravemente ferito alla gamba, prima d’essere raccolto da un’unità navale. Ricoverato dapprima all’ospedaletto di Zante, era stato poi trasferito a Taranto, dove gli era stata amputata la gamba ormai in cancrena. Ciò gli conferiva inevitabilmente, seppure contro la sua volontà, un’aureola eroica. Ma infine erano le sue qualità intellettuali e di carattere ad assicurargli il favore femminile. La cavalleria e il garbo. E soprattutto l’inesauribile vivacità: le donne vogliono essere divertite, detestano chi le annoia. Tuttavia un ruolo peculiare lo giocò anche la famosa gamba di legno. Questo grave handicap, che lui per primo e da subito aveva sfidato, diventava una sfida anche per le donne.

Talora si dilettava a recitare una parodia d’autocritica: «Pensa, perdere una gamba a vent’anni! Una giovinezza spezzata. Mia madre quasi impazzita. Anche mio padre non si riprese mai del tutto dal colpo. C’era di che far nascere una vocazione filosofica o magari religiosa: elaborare il dolore, sublimarlo in opere di pensiero… Avrei potuto diventare un Leopardi… Il biglietto per l’immortalità. E invece io, sciagurato!, lo straccio, e mi getto nella vita con entusiasmo, con moltiplicato desiderio di divertirmi! Ah, la mia incorreggibile superficialità…».

Ma proprio Leopardi, in una lettera a Giordani (da Firenze, 6 settembre 1832), annunciandogli la morte di Enrico Lenzoni, lo chiama «felicissimo» e «fortunatissimo tra mille giovani» per l’estrema saggezza della sua vita, consacrata a «bere, fumare e usar con donne», e confessa di non pensare a lui se non con «un’infinita invidia».

Un uomo così abituato, così affezionato all’indipendenza, non poteva vedere il vincolo matrimoniale se non come una sorta di ergastolo, di morte civile. Ma dopo essersene vittoriosamente difeso per oltre un trentennio, a cinquantacinque anni dovette infine arrendersi alla giovinezza, alla bellezza, all’amore di Pinuccia. Un matrimonio celebrato in forma quasi clandestina, per stornare possibili vendette delle rivali. Ma come aveva saputo trasformare la sventura della mutilazione in una fortuna, così fu anche col matrimonio: dalla sconfitta la felicità.

In una delle nostre recenti chiacchierate, inevitabilmente nostalgiche, ci chiedevamo quale fosse stata la miglior stagione della nostra vita. Per me, scartati i venti e anche i trent’anni, erano stati i quaranta. Potendo tornare indietro, o risorgere dopo la morte, avrei scelto quell’età. L’amico convenne che anche per lui la quarantina era stata un’eccellente stagione: successo professionale, sicurezza economica, stima sociale e, quanto alle donne, un’offerta mai così superiore alla domanda. «Però» soggiunse «non avevo ancora conosciuto la Pinuccia». Non gli importava che a quarant’anni fosse assai più prestante e vitale che a cinquantacinque: «Mi mancava il meglio della vita».