Alcune ovvietà negate da riaffermare
Non cercherò di fare il sunto dei testi di Mazzetti e di Lunghini, e dell’opera di Luciano Gallino, né la sintesi delle teorie degli economisti eterodossi. Mi limiterò a ricordare alcuni fatti già evidenti vent’anni fa e riconfermati a maggior ragione dopo la crisi.
L’innovazione tecnologica, fondamentale per il funzionamento del circuito produttivo capitalistico, distrugge lavoro da quando l’aumento della produzione possibile a parità di lavoro impiegato non trova più compratori. O si cambia tipo di produzione e distribuzione (prezzi più bassi e più soldi ai potenziali compratori) o aumentano i disoccupati. La legge di Say secondo cui l’offerta crea la sua domanda, secondo cui cioè c’è sempre un compratore che consente di completare il ciclo produzione-consumo per ogni merce prodotta, è storicamente falsa, ci ricorda Mazzetti. I posti di lavoro che hanno consentito di limitare la disoccupazione sono stati creati dalla spesa pubblica, finanziata dalle tasse o dal deficit, che consente di pagare i servizi pubblici, tra cui la sanità, l’esercito e la pubblica sicurezza, e in generale i pubblici dipendenti.
Non si tratta di previsioni o estrapolazioni ma di storia dei decenni prima del 2008. Purtroppo negli ultimi anni c’è stato un vero e proprio tracollo culturale seguito da una sconfitta politica e sociale. Ha prevalso la tesi della intrinseca corruzione e inefficienza del settore pubblico, della superiorità dell’appalto e subappalto ai privati, con la conseguente contrazione del finanziamento al Servizio sanitario nazionale e tendenza a privatizzare il privatizzabile. Marcello De Cecco, nella prefazione a Le privatizzazioni nell’industria manifatturiera italiana, curato insieme ad Affinato e Dringoli, ricordava che storicamente molti settori sono stati alternativamente pubblici e privati e che il fatto meriterebbe una riflessione e una ricerca. Non c’è nessun motivo di pensare che la gestione privata sia intrinsecamente migliore di quella pubblica. La gestione dei Riva della già Italsider è stata peggiore di quella pubblica, ha inquinato di più e meritato una pesante condanna. Le privatizzazioni sono state spesso un regalo ai privati e un danno pubblico. Si possono costruire e sono state costruite aziende pubbliche più efficienti di quelle private. Non si può ridurre l’intervento pubblico al finanziamento delle aziende appaltatrici private, agli incentivi e alle facilitazioni perché i privati assumano; o peggio al rendere possibili o facili i licenziamenti per invogliare ad assumere – non è mica per sempre! – come se si assumesse senza averne bisogno. Giustamente Luciano Gallino sosteneva che per creare lavoro bisogna che gli enti pubblici assumano, direttamente. E calcolava i costi, sostenibili, delle sue proposte, perché era contrario alla spesa in deficit, fondata per forza sull’indebitamento pubblico, sull’aumento della finanza.
È noto che Keynes ha scritto che per stimolare la produzione può essere meglio scavare buche per terra per poi farle riempire che non fare nulla. Ma se invece di scavare buche per terra si sistemano i fiumi, le frane, i boschi, le case degradate o pericolose, i treni a normale velocità, le strade, i viadotti, tutte cose di cui c’è grande, impellente bisogno ma non domanda, è meglio. Il punto è creare le organizzazioni adeguate, rendere il lavoro finanziato dal pubblico realmente utile.
Proposta neokeynesiana
Alcuni giovani e meno giovani economisti e sociologi (dal sito: Angela Ambrosino, Maria Luisa Bianco, Bruno Contini, Giovanna Garrone, Nicola Negri, Guido Ortona, Francesco Scacciati, Pietro Terna, Teodoro Dario Togati e Andrea Surbone) hanno costituito un gruppo di lavoro che si chiama «Proposta neokeynesiana».3 Il gruppo sostiene, giustamente, che l’Italia, contro le convinzioni implicite correnti, ha una percentuale di pubblici dipendenti più bassa della maggior parte dei paesi europei, in particolare della Francia e della Germania. Perciò la via maestra per ridurre la disoccupazione è l’assunzione di dipendenti pubblici. La tesi mi sembra giusta e convergente con i testi citati prima, ma i fatti a sostegno resi pubblici dai proponenti non mi sembrano sufficienti. In particolare mancano fatti disponibili che sarebbe importante ricordare. Non riesce a raggiungere la maggioranza degli italiani la storia della creazione di lavoro nei servizi pubblici che ha compensato la riduzione del lavoro necessario generata dal mutamento tecnico, quella ricordata da Mazzetti oltre vent’anni fa.
Non mi sembra venga sostenuta, o non raggiunge il pubblico, la necessità della riduzione degli orari e della redistribuzione del lavoro. L’Italia ha orari di lavoro, contrattuali e di fatto, tra i più lunghi d’Europa. L’argomento è impopolare, non fa parte delle idee propagandate, ma è tutt’altro che assente dal dibattito tra gli specialisti. È un argomento comparativo, parallelo a quello del numero dei pubblici dipendenti. Andrebbe approfondito. Come andrebbe ripreso il tema della mobilità dei lavoratori, mediamente più alta in Italia che negli Stati uniti e in molti paesi europei. Bruno Contini, tra i più anziani e autorevoli del gruppo di «Proposta neokeynesiana», è uno degli studiosi più importanti della natimortalità delle aziende, da cui dipende l’alta mobilità dei lavoratori italiani. Non solo per licenziamento si diventa disoccupati ma anche per fallimento o scomparsa dell’azienda da cui si dipende. La frammentazione del posto di lavoro4 dovrebbe aver aumentato, non diminuito, la mobilità, oltre a generare precarietà.
Non è necessariamente neokeynesiano ma sarebbe molto utile, indispensabile, per rovesciare le convinzioni correnti, una analisi della efficienza dei settori più importanti del pubblico impiego, dei servizi pubblici essenziali, in particolare del Sistema sanitario nazionale, ma anche della Pubblica amministrazione in senso stretto. Il Ssn, malgrado la riduzione dei finanziamenti e i difetti, resta uno dei migliori e meno costosi al mondo. E nelle amministrazioni non tutto è corruzione. Se non si riesce a distinguere tra settori, comuni, province, regioni, nella proposta politica, qualunque progetto di assunzioni pubbliche verrà respinto a furor di popolo. So che «Proposta neokeynesiana» ha presentato un progetto di ricerca sull’efficienza della Pubblica amministrazione. Devono esserci stati problemi perché, al momento, non ho letto risultati. I tempi della politica sono brevi. C’è bisogno di risultati il più presto possibile.
L’ultimo tabù
Ci si può chiedere quando e come ci siamo ridotti così.
Una parziale risposta si può trovare in L’ultimo tabù, un libro di vent’anni fa di Aris Accornero, già operaio Riv, licenziato per rappresaglia dalla Fiat, poi diventato uno degli studiosi più importanti del mondo del lavoro. L’ultimo tabù, da superare, è il licenziamento, che andrebbe accettato come un normale evento della vita, da cui si esce con un nuovo lavoro, in una Italia non più segnata dalla scarsità.
Accornero, morto l’anno scorso, è stato uno studioso competente che ha sostenuto tesi opposte a quelle di Gallino (citato anche in questo libro per la sua “critica tagliente”), di Mazzetti, De Cecco, ed altri di cui è stato contemporaneo. Lo citerò per documentare la totale interiorizzazione da parte dell’ambiente culturale e politico del Pci o della sua maggioranza, degli studiosi di riferimento comunisti, delle tesi neoliberali in economia, della fine della scarsità in Italia, dell’eccesso di difesa dei diritti del lavoro – che sono “un’invenzione dei giuslavoristi” – della necessità di uscire dalla cultura pauperistica che nega la realtà della prosperità raggiunta, lo scudo per i giovani rappresentato dalle famiglie, le preferenze per la flessibilità e la varietà, il rifiuto della stabilità e della noia. Confesso che anche L’ultimo tabù, che non avevo mai letto, per me è stato un risveglio.
Le garanzie in Italia sono state
L’indennità di liquidazione, la Cassa integrazione straordinaria, le pensioni baby, poi travasate in quelle di anzianità, il fuori ruolo ai professori universitari si improntano a quell’immagine di scarsità e di sottosviluppo che ha indotto scelte opportunistiche di ipergarantismo.
Il collocamento proteggeva attraverso la lista “numerica” che assicurava il posto in base alla condizione familiare e all’anzianità di iscrizione. Gli imprenditori dovevano attingervi almeno il 50% degli assunti.5
Mentre il principio di giusta causa nei licenziamenti esiste in vari paesi, ormai interiorizzato come “norma sociale”, il diritto al reintegro e l’obbligo di riassunzione esistono soltanto in Italia, sacrosanti ma ineffettivi.6
Ci siamo liberati dell’oppressione della monotonia ma abbiamo acquisito l’ansia della variabilità. E non si salva nessuno. … Così la disoccupazione europea diventa la prova che tutto sta andando a remengo e l’insicurezza nel lavoro – dai 1.300 morti per infortunio all’anno, al 60% di assunzioni a tempo determinato diventano la dimostrazione che il mondo del capitalismo sta impazzendo.7
D’altronde era in atto in Italia una rivoluzione sociale che stava andando ben oltre il fugace e fantasioso Maggio francese. Gli slogan erano “lotta dura senza paura”, “dai contratti alle riforme”, “salario variabile indipendente”, “nord e sud uniti nella lotta”, “nuovo modo di fare l’automobile”. Chi avrebbe osato sostenere che era meglio lasciare qualche piccola differenza tra la paga dei giovani e quella degli adulti?8
Stupisce soprattutto che Accornero, a fine secolo, pensasse di vivere ancora nell’Italia del boom, degli alti tassi di sviluppo, diminuiti in effetti già nel ’639 e crollati negli anni ’70.
Già allora l’Italia era in sostanziale stagnazione, accentuata nei venti anni successivi. Certo non eravamo più nell’Italia delle case senza servizi, dei paesi senz’acqua, soprattutto nella montagna meridionale, dove sono nato sei anni dopo Accornero. Ma i poveri ci sono ancora, purtroppo, e i figli di papà non bastano a spiegare la disoccupazione giovanile. Misure migliori del reddito di cittadinanza e della flat tax possiamo proporle. Per esempio l’assunzione diretta di lavoratori per le attività di cui c’è estremo bisogno ma non c’è domanda; e la redistribuzione del lavoro.
E allora cosa facciamo per l’orario?
Difficilmente riusciremo a proporre misure generali gestite centralmente, senza distinzione di fini e di settori. Dovremmo elaborare analisi e proposte partendo da situazioni di movimento, di protesta. La Teoria generale esiste da vent’anni, per opera di Mazzetti. Le situazioni locali attuali dobbiamo documentarle noi, caso per caso, districandoci tra giovani e vecchi, locali e immigrati, sovraoccupati e disoccupati. Basta la visita a un ospedale o a un ricovero per anziani non autosufficienti per ricordarci in che mondo viviamo.
1 G. Mazzetti, Quel pane da spartire. Teoria generale della necessità di redistribuire l’orario di lavoro, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
2 G. Lughini, Introduzione a E. Pound, L’ABC dell’economia e altri scritti, trad. it. di A. Colombo, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
3 Vd. il sito «Proposta neokeynesiana».
4 Vd. D. Weil, The Fissured Workplace. Why Work Became So Bad for So Many and What Can Be Done to Improve It, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2014.
5 A. Accornero, L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, in collaborazione con A. Orioli, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 6-7.
6 Ivi, p. 12.
7 Ivi, p. 49.
8 Ivi, p. 91.
9 Vd. A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana: dalla ricostruzione alla moneta europea, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.