
C’è dunque nel corso del film uno stacco temporale marcato dal mutamento imposto ai volti, che accresce l’evidenza di una separatezza senza tuttavia risolversi appieno in una discontinuità; a tal punto sin dalle prime immagini s’impone allo spettatore la percezione di un mondo a sé, distanziato, sospeso. Una porzione di realtà sociale gravata dai pesi che l’ultimo ventennio ha depositato in abbondanza su quanti si sono trovati e si trovano nella terra di nessuno tra adolescenza ed età adulta, e che ora la pandemia esaspera e svela nella sua gravità esistenziale e morale.
Giova al riguardo il confronto con la condizione di ragazzi della generazione postbellica, di cui Futura propone brevi riferimenti tratti da suoi illustri predecessori. Certo, risalta l’abisso che separa i due mondi e apparentemente a tutto vantaggio del presente. Vi compare un frammento di vita miserabile dei bambini di Cortile Cascino a Palermo; un sondaggio alla buona sulle briciole di conoscenze letterarie di un gruppo di ragazzi intervistati per strada; una perfetta rappresentazione in poche inquadrature delle differenze di classe e perciò di destino già in ragazzini di scuola elementare. È il mondo in cui sono cresciuto e che riconosco nelle atmosfere, nelle movenze, negli stati d’animo, nelle durezze.
Sì, c’era molta miseria e povertà diffusa in gran parte della società negli anni cinquanta; sì, la cultura era un privilegio e i destini si decidevano presto: la scuola media per pochi, gli altri all’avviamento professionale o a bottega. E tuttavia ci si sentiva per lo più parte di una comunità nella quale conflitti, emarginazioni, eclatanti ingiustizie contribuivano a potenziare il desiderio di condivisione, di cambiamento, piuttosto che a deprimere e separare. Valga a titolo di esempio, a proposito del riferimento a Cortile Cascino, la scelta del giovanissimo Goffredo Fofi, che insieme ad altri coetanei in quel luogo mise laicamente a prova se stesso per un bisogno di condivisione che mirava a capire e cambiare.
Al confronto le ragazze e i ragazzi protagonisti del film appaiono quasi tutti parte di una classe media mediamente istruita, normalizzata in uno stato di benessere che da tempo non è più all’ordine del giorno eppure li mantiene ancora sospesi in un limbo, dove i desideri stentano a crescere, a tradursi in risoluzioni, a infrangere le gabbie invisibili in cui sono cresciuti. Succubi, per lo più inconsapevoli ma non di meno dolorosamente, di uno stato delle cose da cui non vedono come potrebbero venire fuori, e propensi perciò a restare il più possibile nella piccola cerchia di quelli con cui si è cresciuti o con cui si è stabilita amicizia e complicità nei corsi di formazione professionale. Succede così, che se la ragazza di un quartiere emarginato di Palermo riesce ancora a esprimere timidamente il desiderio, palesemente irreale, di diventare medico per aiutare gli altri, gli studenti privilegiati della Scuola Normale di Pisa appaiono rassegnati alla mediocrità dell’individualismo corrente e all’irrilevanza sociale dei loro studi umanistici.
Intorno a questo mondo fragile gli autori del film hanno lavorato con molta accortezza, con grande sensibilità, integrandosi in una narrazione continua senza perdere il modo proprio d’interrogarlo e restituirlo. Ne è venuto un documento sulla condizione giovanile straordinario per intelligenza e forza emotiva, e perciò tanto più eloquente. Non hanno avuto bisogno di interpellare le voci impegnate, che pure ci sono numerose, spesso consapevoli, battagliere; sarebbe stata una compensazione tanto facile quanto fallace. La realtà dei fatti è quella da loro rappresentata, ben al di sotto della scena politica o, piuttosto, semplicemente altrove, laddove si pena l’impotenza di non poter dire e agire il proprio desiderio per lo stato di asfissia sociale in cui si è immersi, rispetto al quale le voci di chi si fa avanti con qualche risolutezza passano presto nell’irrealtà del gioco politico. Ne è un esempio il gran dire pro o contro la gestione della pandemia, tutto in bianco o tutto in nero, senza attenzione alcuna alla complessità del reale né tanto meno il tentativo di darle voce.
Eppure questo è, oggi, il compito necessario per chi opera nel mondo dei saperi: sollecitare la presa della parola, aiutare a far emergere un linguaggio plurale esercitato in comune. In Futura questo succede per la capacità degli autori di rendere gli interpellati soggetti a pieno titolo nello spazio di un set scandito dai tempi dalle riprese su pellicola. Attori dunque non casuali; protagonisti di un racconto polifonico in cui la realtà di una condizione si compone attraverso l’intreccio delle voci. Laddove il compito dei tre registi non è di denunciare o di sostenere una causa, ma di rendere quelle voci ulteriormente parlanti attraverso la sequenza delle immagini, a volte di una bellezza struggente. È così che per un momento il disordine delle cose è vinto e i frammenti dispersi del presente (e del passato) tornano a comporsi a vantaggio dello spettatore.