Pietro Ingrao,
Attilio Lolini,
L’azzardo della poesia
Giacomo Padrini

Pietro Ingrao, Attilio Lolini, L’azzardo della poesia. Nove lettere dall’anno duemila, a cura di Tomaso di Francesco e Alberto Olivetti, Roma, Bordeaux, 2024.

«Dense di riferimenti personali, familiari, biografici, solo a volte politici comunque decisivi per comprendere il contesto e la profondità dello scambio epistolare e, soprattutto, centrate sul significato della scrittura della poesia, sulla domanda di senso intorno alla critica e alla elaborazione dei versi»: così Tomaso di Francesco presenta le pagine del libro curato insieme a Alberto Olivetti, L’azzardo della poesia. Nove lettere dall’anno duemila, che raccoglie l’epistolario fra Attilio Lolini e Pietro Ingrao, insieme a una raccolta di scritti attorno alle due figure. La corrispondenza, ricostruita grazie alla consultazione degli archivi Pietro Ingrao e Attilio Lolini (quest’ultimo presso l’Università di Siena, Biblioteca Umanistica), nasceva nel momento in cui lo «speranzoso Pietro» nella primavera del 2000 invia la sua terza raccolta poetica, Variazioni Serali, allo scrittore senese. Ci si potrebbe chiedere perché una figura così importante, la cui attività poetica era già stata notata nel 1934 da personaggi del calibro di Giuseppe Ungaretti e Aldo Palazzeschi, decise di inviare la sua più recente creazione a Attilio Lolini, il quale così si era rivolto proprio a Ingrao in Negativo Parziale (1974): «i poveri come si odiano tra di loro / egregio ingrao».1 Di Francesco, nel suo articolo Un’elegia per Attilio Lolini, qui raccolto, ricorda come nella ristretta cerchia della poesia contemporanea, Lolini fosse una voce autorevole già dalla fine degli anni Settanta, «perché si avvertiva la forza della sua presa di parola» (p. 130). Se si aggiunge anche l’attività editoriale successiva (Le Edizioni di Barbablù e la rivista «Il gallo silvestre»), nonché la vastissima corrispondenza intrattenuta con scrittori e poeti, non sarà difficile immaginare cosa abbia spinto una figura di spicco della sinistra italiana, a contattare uno scrittore che ama rappresentarsi come un “poetesso” o “vicepoeta” che scrive della «poesia futile», ma che, in realtà, mantiene uno sguardo lucidissimo – talora persino cinico – sulla realtà del proprio tempo. È così che nasce questo piccolo epistolario (e «questa amicizia nata ragionando sulle parole», come scrisse Ingrao), ricco di elogi reciproci, ma anche di riflessioni sulla scrittura poetica, di memorie connesse ai luoghi dove i due scrittori svolsero la propria attività.

Si tenga presente che al momento della corrispondenza l’ex- membro del PCI, partito già da sei anni defunto, ha 85 anni e si è ormai ritirato dall’attività politica, pur mantenendo varie attività di tipo sociale; tuttavia, non ha rinunciato alla scrittura poetica, confluita in tre raccolte: Il dubbio dei vincitori (A. Mondadori, 1986), L’alta febbre del fare (A. Mondadori, 1994) e la successiva Variazioni Serali (il saggiatore, 2000). Per capire il motivo di queste due distinte linee di lavoro, è utile l’apparato critico del libro: per esempio Biancamaria Frabotta, in Il tuono della vita in versi, riflette sul linguaggio dell’ultima raccolta partendo da una riflessione sulle differenze tra linguaggio prosaico e poetico in cui evidenzia come «la poesia, al contrario [della prosa], traccia i suoi più lenti sentieri lungo la faglia in cui le parole sono chiamate a perseverare nella loro stessa esitazione» (p. 85). Frabotta sottolinea, nei versi, il motivo dell’esitazione, che non si esaurisce nel momento della scrittura, concludendo che «la vertigine che coglie l’individuo sospeso fra la parola e la sua eclisse mi sembra il tema centrale della terza raccolta poetica di Pietro Ingrao» (p. 86). L’autore oscilla fra la dimensione sociale, politica, legata ai suoi incarichi e quella privata, in cui può dare corso alla sua coscienza morale e al suo «pensiero perigliosamente in bilico fra la considerazione realistica dei fatti e la prefigurazione di un utopico futuro» (p. 86); a questo Di Francesco aggiunge che «il cuore pulsante della nuova poesia di Pietro Ingrao è la rilevanza dei vinti, la caparbietà a dirsi vivi nelle ragioni ormai non più appartenute e legittimate»; in altre parole potremmo dire che nell’ultima fase della sua vita Pietro Ingrao trova ancora dei nodi irrisolti nel tessuto sociale, delle contraddizioni che meritano di essere portate alla luce e condivise con i lettori, senza la pretesa di trovare delle risposte definitive, ma semmai di smuovere le coscienze. Così non si estingue la militanza politica che lo ha animato negli anni precedenti e affida il lavoro alla parola poetica, con i suoi silenzi: «la strategia è quella della parola, anzi del non detto, dell’esitato, del difficile da riferire agli altri, dello spavento per corrosiva verità» (p. 90).

Questo sguardo isolato dal coro, per certi versi sconfitto, sceglie di non essere monolitico, di adattarsi alla mutevolezza del reale e può trovare più ampio respiro solo nella scrittura di versi, come sostiene Alberto Olivetti nell’articolo Pietro Ingrao: tentare il linguaggio poetico, che apre la seconda parte del libro: «Si attiene [Ingrao] ad un convincimento più volte espresso: tentare attraverso la scrittura un esame dell’epoca attuale […] che possa risultare più aderente e puntuale di quanto non permettano ragionamenti, si dica, della sociologia, delle dottrine politiche, della scienza economica» (p. 69). La poesia, per Ingrao, è lo strumento per indagare preliminarmente la realtà – prima delle varie teorie sociologiche e politiche –; uno strumento che possa rappresentare la natura polisensa e contraddittoria delle cose, un «presupposto indispensabile per promuovere il movimento reale capace di affermare, forse, una piena libertà» (p. 69). Come si legge nell’introduzione: «Perché l’azzardo della poesia in Ingrao preesisteva alla stagione politica, conviveva con essa, sottaciuta e negata, ma elaborata nel tempo alla luce ‘serale’ della sconfitta che sempre più lo accomuna, nella sola scansione dei versi, al mondo degli ultimi, dei condannati al silenzio, al mondo di chi non ha presa di parola né ascolto» (p. 9). Una rivincita di quella che Di Francesco chiama la «poesia debole contro la militanza forte». E forse è stato proprio questo sguardo malinconico e isolato, notturno, ad accendere qualcosa in Lolini, che aveva da poco pubblicato Poesie a mezz’aria e i cui principali temi poetici già da alcuni anni avevano virato verso la reclusione e l’isolamento (si veda La stazione o Musichette) e verso l’ambiente notturno (cfr. Il paese d’inverno, ricordato anche nello scambio di lettere, Graffiti o Gottfried); lo si vede nel modo in cui parla delle impressioni suscitate dalle poesie del corrispondente, delle risonanze letterarie che vi intravede e di quelle emotive che «fanno sobbalzare, riaprono ferite».

Nel rispettoso elogio reciproco che ne consegue emerge la stima che ognuno prova per l’altro: «Mi pare una poesia bellissima che tutti noi saremmo felici di aver scritto» (così Lolini parlando di Variazioni serali), parole a cui Ingrao risponde dicendo di vergognarsi in confronto a «la freschezza che sgorgava dalle sue brevi cadenze, dalla sveltezza dei passaggi, dai nuclei ironico-lirici.» Non c’è adulazione, casomai lo svelamento di due nature sensibili e inquiete («ma la poesia per me è un azzardo che mi mette ansia», «sono un giudice e testimone grossolano») e insieme un costante understatement: Ingrao si definisce un «poeta di contrabbando», un «poeta parruccone e serioso» che invidia l’agilità dell’amico, mentre Lolini – più capace di «buttarsi via», come diceva Vassalli – si sentirà un «critichesso» nel parlare delle poesie dell’amico. Da questi scambi nascono anche riflessioni intorno alla poesia e al fare poesia, ed emerge il gusto per «l’asciuttezza» e per l’assenza di «fronzoli»; riflessioni e opinioni poi maturate nella «confusa recensione» alla raccolta di Ingrao, pubblicata da Lolini sulla rivista «L’immaginazione» e raccolta in questo libro: «la certezza che la poesia non insegna nulla, come suggerì anche l’ultimo Fortini, rivendica il gratuito, l’inerzia e di questa ne fa canto o grido» (p. 56) o più avanti: «in fondo il segreto residuo della poesia è questo: il coraggio e l’oltranza, sfidare i luoghi comuni, il già scritto mille volte, aggirarlo come conviene e rendere nuovo il quadro, sbaraccare la scena» (p. 60).

L’isolamento esistenziale dei due è ben visibile all’interno della corrispondenza nella rappresentazione di San Rocco a Pilli, in provincia di Siena, e di Lenola, in Ciociaria, luoghi di ritiro rispettivamente di Lolini e di Ingrao: il primo viene presentato come un posto bellissimo fino agli anni settanta e ridotto a «una specie di fotocopia minore di Cinisello Balsamo o peggio», ora come assomigliante a «Abbiategrasso o Cologno», luogo di cui si denuncia la proliferazione edilizia e che comunque, nonostante quella che Di Francesco chiama la «lamentazione consueta e sprezzante del poeta senese», è diventato un crocevia di poeti e scrittori, per lunga consuetudine invitati a cena da Lolini e la sua compagna Loredana Montomoli. Il secondo invece è il paese natio di Ingrao, dove egli si rifugiava per sfuggire alla calura estiva e dove, nella dolcezza di un settembre fuori stagione, ritrova le memorie familiari: l’orto della casa paterna costruita dal nonno garibaldino è la soglia che fa entrare nella storia dell’avo e sarà lo spunto per un altro libro.2 Ma i luoghi di Ingrao sono presenti anche nelle poesie, come scrive in risposta alla recensione di Lolini: «i cieli (al plurale) e le nubi (non le nuvole!) sono per me una questione e una attrazione infinita. Me ne accorgo e ci penso. Sono fonte continua di sorpresa e di domanda. Credo che in ciò incidano i luoghi della mia vita, nella loro corporeità e anche continuo oscillare. Fanno sorgere domande, e dubbi» (p. 65). I luoghi diventano occasione di riflessione su sé stessi e sulla propria attività, uno spazio libero dalle costrizioni cittadine che Attilio detesta; mentre la ciociara Lenola, pur restando l’approdo familiare di Ingrao al suo passato, appare «ormai insufficiente a contenere le lacerazioni della vita, il nuovo sentire sulla deriva della stagione politica alla quale ha partecipato da protagonista e le nuove sfide interiori nella scelta della scrittura» (p. 10).

Nonostante la natura politica di Ingrao e, in diversa misura, anche di Lolini (si ricordino le sue collaborazioni con «L’unità» e «il manifesto»), di politica in senso stretto nel libro c’è poca traccia; casomai converrebbe parlarne nel senso più ampio di un’etica rivolta alla polis, alla società. Torna alla mente, in questa accezione, l’esperienza editoriale de «Il gallo silvestre», rivista intesa innanzitutto come luogo privilegiato d’incontro, lontano dagli ambienti cittadini. Viene allora da chiedersi: ma di quale società si sta parlando? A chi ci si rivolge? Si può supporre che Ingrao tentasse di rivolgersi a tutti, ma sapeva anche bene che una raccolta poetica non trova ascolto presso il pubblico più ampio: si può pensare che quegli interrogativi di carattere generale, quelle parole incisive che si scambiarono in versi e in lettere fossero indirizzate a ognuno di loro per agire nell’interiorità e lì, per rimettere in moto la «volontà di fondazione del mondo».

L’azzardo della poesia è il primo libro, dopo quasi dieci anni di silenzio editoriale, a tornare sulla figura di Attilio Lolini. Le lettere qui pubblicate sono corredate da otto articoli sui due poeti scritti da Gianni d’Elia, Biancamaria Frabotta, Daniele De Amicis, Antonio Prete, nonché dai curatori. Va precisato infine che questi ultimi (con la sola eccezione degli scritti di Daniele De Amicis e Antonio Prete, apparsi su «il manifesto») rappresentano un prezioso contributo critico per orientarsi sia all’interno di questo libro, sia al di là del carteggio per quel che riguarda, più in generale, il resto delle opere dei due autori. Gli scritti su Ingrao ruotano intorno all’ultima raccolta, in particolare Olivetti si sofferma sul linguaggio, mentre D’Elia scende anche nel dettaglio della metrica; Frabotta inserisce l’opera nel contesto più ampio della tradizione. Gli interventi su Attilio Lolini sono di carattere più generale: De Amicis racconta la sua lunga amicizia con Lolini fino alla morte, Prete, quale stretto collaboratore e amico, consegna una serie di annotazioni “tematiche”, Di Francesco un’elegia che ripercorre alcune tappe della vita di Attilio. Insieme alle lettere sono stati trascritti anche allegati, le poesie citate, stralci di conversazione e articoli; da ricordare quello in memoria di Loredana Montomoli, che testimonia la sua importante attività di redattrice per Barbablù, ma anche del rapporto che strinse con Franco Fortini «che, nelle occasioni conviviali, consentiva a Franco di vivere serate divertenti e, forse meglio, felici» (non sarà superfluo notare come le figure di Loredana Montomoli e Franco Fortini siano quelle che appaiono più di frequente nel libro, insieme al caro amico e stretto collaboratore Sebastiano Vassalli; si ricordi l’opera a due mani Belle lettere, Einaudi 1991).

Note

1 A. Lolini, Notizie dalla necropoli (1974-2004), Torino, Einaudi, 2005, p. 11.

2 Pietro Ingrao, La bandiera degli elettori italiani, Palermo, Sellerio, 2001.