
E anche laddove alcune parole potrebbero avere in sé una più adeguata corrispondenza alla sconfinata violenza messa in atto, si ricorre ad attenuazioni, a distinzioni, a rassicuranti comparazioni storiche: la parola genocidio, usata per indicare quel che accade a Gaza, è apparsa e continua ad apparire a molti impropria (anche se il Papa e alcune inchieste delle Nazioni unite l’hanno adoperata). Un’anestesia del tragico permette di non introdurre il turbamento e l’angoscia nel ritmo delle giornate e nelle quotidiane occupazioni.
Se nei decenni trascorsi alcune guerre provocavano tra intellettuali, scrittori, artisti, forti prese di posizione, appelli condivisi, analisi – penso a quel che accadde con la prima guerra del Golfo – ora l’indignazione non trova le vie di una sua rappresentazione diffusa. E persino le condanne emesse, su certificata e incontestabile documentazione, da una Corte internazionale di giustizia suscitano riserve, distinzioni, tentativi di neutralizzazione.
Eppure quel che accade continua a mostrare un’abiezione dell’umano propria dei tempi più tragici della storia. Sui vari fronti della guerra in Ucraina in tre anni ci sono state migliaia e migliaia di vittime, da una parte e dall’altra, e la distruzione di strutture non solo militari ha portato una devastazione di regioni e di paesaggi e di relazioni tra comunità della stessa lingua difficilmente ricomponibili. Che in una guerra tutte le forze in campo perdano moltissimo, su ogni piano, anche quando la parola della vittoria si leva ad illudere una parte, è cosa la cui evidenza storica è appannata solo dai ragionamenti d’ordine astrattamente geopolitico, cioè da un pensiero che toglie dal proprio orizzonte quel che diciamo umano, cioè i corpi e le vite dei singoli.
Quanto poi a quel che è accaduto e continua ad accadere in Medioriente, la risposta di Israele alla follia distruttiva di un attacco terroristico come quello compiuto da Hamas il 7 ottobre del 2023 – con un orrendo massacro – si è manifestata e dilatata in una spaventosissima, quotidiana, inarrestabile, opera di violenza. Riprendendo il filo nerissimo di crudeltà assidue perpetrate sui Palestinesi dopo la Nakba del 1948, le azioni militari hanno distrutto nella striscia di Gaza villaggi, città, campagne, ucciso donne e bambini, bombardato ospedali, ucciso e ferito il personale sanitario, annientato strutture mediche e mezzi di soccorso, attaccato il personale dell’ONU, affamato la residua dispersa popolazione, massacrato coloro che rifiutavano l’evacuazione imposta e coloro che erano in attesa di cibo. Sono state indicate alcune “zone sicure” dove gli “evacuati” potevano raccogliersi, e quelle zone sono state poi bombardate. Non è stato garantito alcun corridoio umanitario. La terra dove abitava un popolo è diventata un cumulo di macerie. E sotto quelle macerie sono rimaste sepolte migliaia di abitanti. Infine l’esercito israeliano ha portato questa furia distruttiva in Cisgiordania e nel Libano. Anche qui il senso delle parole è stravolto, piegato violentemente verso il proprio punto di osservazione: l’espressione “diritto alla difesa” usata per motivare questa opera immensa di distruzione è essa stessa un oltraggio alla lingua degli statuti democratici. Un dettagliato rapporto inviato alle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, redatto con cura dalla responsabile Francesca Albanese nell’ottobre scorso, dà conto con documentate ricostruzioni dell’orrore perpetrato quotidianamente. Un passaggio relativo agli sfollati: «Gli sfollati sono stati sistematicamente inseguiti e presi di mira nei rifugi, anche nelle scuole dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), il 70% delle quali è stato ripetutamente attaccato da Israele». Inoltre – così sostiene il rapporto – dal 7 ottobre 2023 al 20 ottobre 2024, 233 operatori dell’UNRWA sono stati uccisi a Gaza (mai operatori delle Nazioni unite avevano subito attacchi di tale proporzione).
Il rapporto è un elenco di orrori: alla descrizione degli innumerevoli massacri perpetrati sui bambini e sulle donne, con storie singole di impensabile violenza, si aggiunge l’enumerazione implacabile delle uccisioni di medici e di giornalisti. Nel momento in cui scrivo è salito a 196 il numero di giornalisti uccisi.
La terra un tempo abitata da un popolo è un letto sconfinato di detriti, di ordigni inesplosi, di liquami: una terra resa inadatta alla vita. Nei pochi luoghi collinari risparmiati, e soprattutto nella Cisgiordania, vivono, armati e asserragliati nei loro poderi, quei coloni che si sono insediati via via, nonostante gli accordi di Oslo del 1993: presenze moltiplicate negli ultimi anni, dopo che una legge israeliana del 2018 ha riconosciuto “l’insediamento ebraico” su una terra occupata come una “priorità nazionale”.
Se spostiamo lo sguardo sulle logiche politiche, ecco apparire una linea di trinceramento ideale e di preteso fondamento al vivere civile occidentale: le democrazie, con i loro statuti, che garantiscono i diritti universali. Da questa aurea linea le guerre vengono motivate con ragioni nobili: difendere le democrazie, i loro valori, contro la minaccia che viene da popoli manovrati da forze terroriste o da governi e sistemi antidemocratici e oscurantisti. Torna, con altre modulazioni, l’opposizione tra una civiltà del bene ed estesissime e variegate regioni in cui è il male a guidare le politiche. Le guerre, da questo punto di vista, sono ricondotte nell’ordine della necessità. Perché questo convincimento sia divulgato occorre allontanare dallo sguardo i corpi dei singoli, i corpi dilaniati, i corpi feriti, le mani che implorano il cibo, gli occhi dei disperati, il volto dei morenti, occorre annegare la loro singolarità accusatrice nel mare astratto del conflitto, dei suoi connaturali orrori, propri di ogni guerra. Su questa rimozione ecco apparire l’ordine dei poteri, le relazioni tra stati, tra blocchi di stati, le aree di influenza, le alleanze e le minacce. Ecco apparire la cartografia dei confini, la geografia politica che disegna territori, e traccia linee di appartenenza e linee di difesa. Le guerre sopravvengono a ricomporre quel che in quell’ordine di relazioni e di confini e di protezioni ha subìto incrinature e sommovimenti. E spesso l’ordine che è smosso e che si vuol reintegrare è di natura economica. Le democrazie, anche quando ancorate a Costituzioni chiare, partecipano di queste logiche. Per questo non considerano la guerra come una devastazione dell’umano, ma come un’amara necessità. Anche laddove nella loro Carta è dichiarato, come in quella italiana, a tutte lettere il “ripudio” della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Da qui l’assenza di forti prese di posizione dinanzi all’aumento delle spese militari e dinanzi al progetto di una progressiva militarizzazione dell’intera Europa. Le guerre in corso fanno apparire la difesa come un’inderogabile necessità.
Ho cercato i diagrammi e le comparazioni che riguardano le spese militari nei vari Paesi. Sono molto chiare le linee di una tendenza progressiva verso il balzo. Sempre più armi nel mondo. Le industrie delle armi sono floridissime dappertutto. E i Paesi che hanno Costituzioni e Statuti democratici gareggiano in questa corsa. Che è una corsa non verso la Difesa, ma verso la Distruzione. Su questa affermazione vorrei sostare con alcune brevi considerazioni.
Sul tema del disarmo. Richiamare nell’orizzonte politico odierno il lungo cammino che per decenni è stato compiuto su questo terreno, e questo proprio quando la possibilità dell’uso di armi nucleari e atomiche, oltre che chimiche, appare più ravvicinata e temibile, può essere considerata un’istanza ingenua, non realistica, fuori tempo, insomma impolitica. Eppure quante volte quello che si mostrava agli occhi dei politici puri e astratti e strategicamente sapienti come impolitico si è poi, lungo il tempo, rivelato giusto. Il fatto è che da più parti e per convergenti interessi si tende a fare apparire come impolitico e inattuale quello che se ascoltato potrebbe inceppare l’ascesa trionfante della ricchezza fondata sulla produzione e vendita di armi, e di armi sofisticate e sempre più distruttive. Il nesso tra l’aumento della produzione di armi e l’idea di una società democratica, cioè vincolata a diritti individuali e sociali, è tutto da dimostrare. A meno che non si accettino le armi come necessario e urgente strumento di difesa individuale e collettiva (il che purtroppo accade nella “democrazia” americana). La necessità della deterrenza è la motivazione apportata per l’aumento delle spese militari nei bilanci di molti Paesi. Ma fin dove la deterrenza resta tale e non si trasforma in minaccia e dunque in provocazione rivolta a popolazioni contigue? La logica industriale della produzione non è fine a sé stessa, prevede necessariamente il consumo: così anche per la produzione di armi, l’uso se non immediato è comunque sospeso, rinviato, possibile. Si producono più armi perché più se ne possano usare. E l’uso di un’arma è principio di distruzione e di morte. Dunque è la ragione militare che negli statuti democratici di vari Paesi via via prende campo e potere. Un mondo armato: quanto a modello di vita per le generazioni più giovani e per quelle a venire non è certo un bell’ideale. Radar, droni, campi minati, depositi segreti di missili, basi militari: un paesaggio che di per sé non dovrebbe spaventare se la difesa non fosse oggi un anello economico della produzione di armi e dunque non contenesse in sé la possibilità del suo rovesciamento in offesa.
Dinanzi a questa condizione che riguarda non solo un Paese, ma il mondo intero, non solo gli Stati e le loro politiche, ma gli individui e le comunità, con le loro vite, mai come oggi appare necessaria una Critica della ragione militare. Compito di una nuova filosofia, forse. Di un nuovo sapere “umano”.