Per Ruth Leiser Fortini, nell’anniversario della morte
Mavì De Filippis

L’ora del trapasso e i mesi che lo precedono sono visti in modo diverso da continente a continente, da religione a religione. Gli antichi ritenevano che la morte fosse parte integrante della vita e pensavano che per vivere fosse essenziale imparare a morire. Sia Lucrezio sia Seneca e gli Stoici attribuivano la massima importanza a una educazione per la vita che contemplasse anche imparare a morire in modo coerente con la vita vissuta. Osservare in che modo un uomo si preparasse a morire dice molto del suo modo di essere e di vivere. Montaigne con la finezza che lo contraddistingue nel XX Essai intitolato Filosofare e imparare a morire dichiara come per lui fosse estremamente interessante osservare come gli uomini si preparassero a morire e scrive tra l’altro:

Allo stesso modo io ho preso l’abitudine di avere la morte continuamente presente non solo nel pensiero, ma anche sulle labbra; e non c’è nulla di cui m’informi tanto volentieri quanto della morte degli uomini: che parole, che aspetto, che contegno hanno avuto allora; né vi è passo delle storie che noti con altrettanta attenzione.

Anche a me è capitato di osservare come mia madre, mia nonna e mio padre abbiano passato gli ultimi mesi della loro vita, con quale e quanta consapevolezza. Il modo in cui loro hanno vissuto quei mesi dice molto di loro e della maniera in cui avevano vissuto. Tre modi diversi di affrontare gli ultimi momenti in modo coerente con la vita vissuta.

Solo chi muore all’improvviso non ha tempo per accomiatarsi dagli altri e più in generale dalla vita.

Oggi è l’anniversario della morte di Ruth Leiser.

Ruth Leiser è morta vent’anni fa e mai come per lei rivederla oggi prepararsi a morire dice molto di come abbia vissuto, a cosa abbia dato importanza e rilevanza in tutta la sua esistenza. Siamo state amiche e ho continuato a vederla e ad andare da lei sia nella casa di Milano sia in quella del mare anche dopo la morte di Franco. Rimasta sola ha attraversato un periodo che definiva un “buco nero”, poi lentamente si è risollevata. La comparsa del cancro all’età di ottant’anni, le faceva dire “sono vecchia ma ho un cancro da persona giovane” e dicendo così voleva fare intendere che non ci fossero speranze di una vita lunga.

Da allora visse come sempre. Spesso mangiavamo insieme come in passato ed era lei che preparava il cibo. L’aiutavo in piccole cose quotidiane come per esempio il bagno serale. Lei nel frattempo vendeva la casa del mare a cui era molto affezionata e alla persona che l’aveva acquistata e che voleva fare delle modifiche proponendole di tornare in quella casa per vedere le modifiche fatte, rispose in modo categorico no.

Libri, oggetti, gioielli, quadri, una bella e ricca collezione di dischi (anche di canti russi) e altro ancora, tutto veniva scelto, selezionato e destinato agli amici più cari. Continuava a vivere come sempre aveva vissuto: amando la vita, gli amici, i viaggi, le letture, la musica. Si preoccupava soprattutto di lasciare alla figlia Livia e alla nipote Hanna tutto quello che aveva potuto risparmiare anche privandosi talvolta di cose per sé.

Fino agli ultimi giorni la ricordo sempre in ordine, di un’eleganza sobria anche determinata dal suo portamento, un’immagine sempre più “eterea”, delicata e segnata dalla fatica, ma pur sempre con un sorriso.

Cara Ruth,
ti scrivo ancora una lettera come quelle che ti scrivevo quando Franco era malato.
Vorrei che tu fossi ancora qui, mi trovavo bene in tua compagnia.
Eri presente con il tuo affetto solido, discreto e severo quando necessario.
Mi mancano le tue cene “svizzere”, il tuo training autogeno di cui conservo l’eco delle tue parole.
Ricordo le passeggiate nel bosco di fronte alla casa del mare. O le nuotate nel mare di Fiumaretta.
Ma no, l’elenco non restituisce il calore della tua presenza.
Vorrei che fosse vero che nell’aldilà ci si ritrova.

A breve torneremo e anche io tornerò a parlare di lei che oggi, se fosse ancora viva, compirebbe cento anni.