Intervista a Giancarlo De Cataldo: «Società liquida malavita liquida»
Come cambia il racconto crime della città di Roma
Giulia Marziali

La narrativa dalle tinte fosche di Giancarlo De Cataldo, legata indissolubilmente alla città di Roma in quanto ambientazione e coprotagonista dei suoi romanzi, muove dalla volontà di esplorare e comprendere la mutazione sociologica degli universi delle mafie. Si tratta di una trasformazione innescata dall’avvento della globalizzazione e avvenuta di pari passo con lo sviluppo del tessuto urbano.

Passando in rassegna le principali opere dell’autore, da Romanzo criminale (2002) a La Svedese (2022), emerge un racconto ibrido di fiction e non fiction non solo della capitale, ma anche dell’Italia tardo novecentesca e contemporanea, dagli anni di piombo alla pandemia Covid-19, nell’intento di offrire una contronarrazione del Potere e del crimine.

De Cataldo, nel decodificare la realtà di riferimento, ricostruisce la regola della «Strada» e la trasformazione dei margini senza mai decretare la scomparsa del centro storico in favore della periferia cosiddetta diffusa. La dicotomia tra quartieri centrali e quartieri periferici costituisce il fil rouge dei suoi romanzi e si esplica nell’organizzazione degli spazi, nella crescita demografica di alcune zone limitrofe e nella nascita di inedite forme di degrado e isolamento.

La scrittura è connotata da un ritmo sincopato e un linguaggio mimetico, che oscilla tra tratti dialettali ed espressioni tipiche del gergo malavitoso, e trae ispirazione dalla cronaca nera e giudiziaria per conferire all’impianto romanzesco più solide fondamenta e un ordine verosimile.

Lo stile, mai criptico, si rivolge a un pubblico ampio ed eterogeneo di lettori nell’intento di intuire e cogliere il sentire profondo del tempo con le sue criticità e contraddizioni.

Giulia Marziali: Il racconto della città di Roma in Romanzo criminale (2002), Suburra (2013), la trilogia di Manrico Spinori della Rocca (2020; 2021) e La Svedese (2022) si è senza dubbio modificato. Sono diverse non solo le epoche di riferimento, ma anche il modo di rappresentare e aggiornare l’immagine letteraria del tessuto urbano. Ponendo in correlazione il suo primo best seller con La Svedese, come si è evoluta la geografia delle borgate?

Giancarlo De Cataldo: I luoghi di Romanzo criminale sono predeterminati e ricostruiti in base alla storia reale della banda della Magliana (dal 1977 al 1992). La Svedese è al contrario un romanzo immaginario, ambientato nel 2020, dopo il primo lockdown, con un sottotesto dai tratti quasi fiabeschi (si pensi alla presenza e funzione del Fossato e del Castello) che descrive una Roma in parte realistica e in parte piegata alle esigenze della metafora del racconto. La geografia delle Torri è quindi volutamente simbolica: l’attico ai Parioli, la villa sulla Cassia, la bisca sulla Tuscolana sono spazi neutri popolati da chiunque. La Strada e il Castello connotano e definiscono i propri abitanti: da un lato la marginalizzazione e dall’altro la centralità. In questa ottica identificare una borgata specifica poteva creare problemi e innescare polemiche; sappiamo che si tratta di Roma, o meglio di una Roma possibile.

La mia operazione letteraria non è molto dissimile da quella compiuta da Elena Ferrante nella saga dell’Amica geniale con un rione caratterizzato da un ponte che segna il confine e la distanza da un centro.

GM.: Il rapporto tra il Potere e la Strada, a Roma, presenta una tradizione di lungo corso. Come si è evoluto?

GDC.: Prendiamo la parola suburra: è un termine che possiede duemila anni di storia ed è entrato nell’uso comune mondiale. Dal latino sub urbe, rappresenta il terreno di confine tra il Palazzo e la Strada alludendo alla commistione di interessi e affari tra alto e basso, tra patrizi e plebei, tra ricchi e poveri.

Si pensi ai primi grandi delitti postunitari, in particolare al delitto Sonzogno: siamo nel 1875 a Roma, Raffaele Sonzogno, giornalista milanese, viene accoltellato sulla soglia del suo ufficio romano da un sicario. I mandanti fanno parte di una fazione politico-imprenditoriale che sta operando la più grande speculazione edilizia dopo l’Unità d’Italia. Perché è un caso interessante? A noi interessa per il “fatto di sangue”, commesso da un sicario della Strada, e per ciò che sottende.

Negli assassini compiuti all’ombra del Cupolone e in generale nella storia italiana del Novecento fino ad anni recenti ricorrono alcuni elementi: un delitto, un esecutore, i mandanti e il coinvolgimento del Palazzo. Eppure se per l’affare Sonzogno, a più di un secolo di distanza, possiamo affermare con certezza la reale implicazione di un secondo e terzo livello, oggi il coinvolgimento politico, anche se evocato, non è detto che esista. Spesso si è effettivamente lavorato per occultare il coinvolgimento dei mandanti e del Potere, altre volte invece sono stati chiamati in causa come arma di pressione, ricatto o di consenso nei confronti di qualcun altro.

GM.: Secondo lei, la dicotomia centro-periferia, a Roma, è ancora significativa o sta perdendo la sua funzione e i suoi connotati originari? Si può parlare di espansione iperperiferica, verso l’esterno e l’interno della città, ai danni di un centro-vetrina per soli turisti?

GDC.: Il dialogo tra centro e periferia, a Roma, è millenario e le sue radici le ritroviamo in Tacito e Giovenale. Si tratta di una dialettica che ha subìto trasformazioni significative: per esempio piazza di Tor Sanguigna e Tor di Nona negli anni Sessanta-Settanta erano zone di malavita, dove si trovavano ubriaconi e drogati. In quell’epoca il popolo romano, dove convivevano il ladro, il bottegaio, il sellaio e il borseggiatore, venne deportato dal centro storico in periferia. Con la cosiddetta gentrificazione piazza Navona cambiò i propri connotati e ospitò molti intellettuali e personalità del calibro di Indro Montanelli; in questo senso si verificò una mutazione antropologica e sociale.

Negli ultimi cinquant’anni il tessuto urbano si è sviluppato e modificato in modo considerevole ma oggi, a mio avviso, non si può parlare di desertificazione del centro e di iperperiferia per Roma e Napoli, caratterizzate da una forte natura meridionale e levantina. Sono fenomeni che riguardano città come Londra, Venezia, Firenze; in quest’ultimo caso, il centro storico presenta infatti sempre meno residenti ed è popolato da banche, bed and breakfast e negozi.

La perdita della dialettica tra centro e periferia è riscontrabile, in modo più evidente, in alcune realtà oltreoceano come la città di Albuquerque, set della nota serie televisiva Breaking Bed, dove è sempre meno frequente passeggiare per le strade, fisicamente deserte, della città.

GM.: Tornando al suo ultimo romanzo e al rimando alla saga dell’Amica geniale, la periferia della Svedese svolge la medesima funzione del rione di Ferrante, definito da Tiziana de Rogatis «periferia universale della contemporaneità»?

GDC.: La geografia delle Torri si avvicina in parte alla definizione di «periferia universale della contemporaneità» di de Rogatis perché è una borgata metaforica che può contenere al suo interno tante periferie. Allo stesso tempo però ciò che differisce è la centralità attribuita alla periferia delle periferie, identificata nella Svedese con il campo nomadi. Qui la baraccopoli abitata da rom rappresenta una marginalità diversa, “altra”, che non dialoga né con il centro né con le borgate ufficialmente riconosciute. Si tratta di un fenomeno dinamico e in evoluzione che ho preferito, fin dal principio, non sviluppare.

GM.: Da Romanzo criminale (2002) a La Svedese (2022) come si è modificata la figura del criminale e, più in generale, la sociologia criminale? Si può parlare ancora oggi di una malavita gerarchizzata su piano locale e nazionale?

GDC.: Quello che cambia e fa parlare di evoluzione è una sorta di orgoglio coatto: il Libanese e il Dandi alla fine degli anni Settanta avevano il desiderio di diventare come il Principe della Svedese, di vivere in centro, o meglio di farvi ritorno da padroni e quindi di conquistare Roma. I personaggi criminali che gravitano intorno alla Svedese mostrano invece un’attitudine individualistica e orgogliosa, radicata nell’attimo presente: “noi siamo questo e se volete venite voi da noi, non veniamo più noi da voi”. La Svedese rappresenta un’eccezione perché è mossa da un progetto non contemporaneo: affermarsi e prendere l’ascensore sociale, anche se in questo momento è fortemente bloccato.

Gran parte della malavita, se in passato nutriva l’ambizione di normalizzarsi e legalizzarsi, oggi è mossa dall’obiettivo di criminalizzare la società intorno senza alcun pensiero rivolto al futuro, senza alcuna progettualità. Possiamo quindi dire che a Roma non ha più operato un’intelligenza malavitosa come quella della banda della Magliana.

GM.: Dove possiamo invece collocare il Samurai di Suburra? Rappresenta una fase intermedia tra la criminalità di fine Novecento e quella della Svedese? Ricordiamo il Samurai che, “investito” dal Dandi, aveva prudentemente scelto il distributore di benzina di Corso di Francia come base per discutere i propri affari, conferendo a un non-luogo una valenza identitaria e relazionale.

GDC.: Esatto, in Suburra il distributore di benzina di Corso di Francia, luogo di passaggio e rumoroso, viene scelto appositamente come base per incontrare clienti e soci. Il Samurai rispecchia la sua epoca: società liquida, malavita liquida, quindi volatile ma anche fragile.

Le evoluzioni sono preparate da coloro che traghettano il seme della tradizione nel mondo nuovo come appunto il Samurai: uomo di collegamento tra passato e presente.

GM.: Manrico Spinori della Rocca, suo primo personaggio seriale, in quale Roma si muove e identifica? Sono romanzi polizieschi con una predisposizione alla commedia?

GDC.: Manrico Spinori della Rocca è il mio primo personaggio seriale e con lui condivido tre passioni: l’opera lirica, l’odio per i social media e uno sguardo un po’disincantato sul mondo della giustizia.

Manrico è un pubblico ministero, appassionato di lirica ed è consapevole che è possibile governare solo in parte il cambiamento. La sua Roma, ambientata nel 2018, è una città reale, animata da buoni sentimenti e costretta a dialogare con il populismo: quella realtà dall’aspetto tatuato e sudaticcio del contemporaneo. È un mondo assolutamente affascinante che non si può condannare e si deve conoscere.

La trilogia si avvicina al giallo tradizionale con una narrazione dai toni più leggeri, meno densa, lanciando dei piccoli segnali.

GM.: Le pongo un’ultima domanda: il noir italiano sociale è attualmente in crisi?

GDC.: Il noir italiano sociale, essenzialmente geografico e urbano, ha vissuto una fase di forte ascesa negli anni Novanta e nel primo decennio dei Duemila. Ogni città ha avuto la sua narrazione nera: pensiamo alla mia Roma, alla Bologna di Carlo Lucarelli e di Loriano Macchiavelli, al nord-est di Massimo Carlotto, alla Napoli di Maurizio De Giovanni e alla Sicilia di Andrea Camilleri (facendo riferimento sia al noir sia al giallo).

Negli ultimi anni però il noir sta attraversando una fase di evidente declino, lasciando spazio alla commedia gialla con un protagonista ricorrente e rassicurante, o al thriller apocalittico caratterizzato da ambientazioni stranianti, numerosi colpi di scena e personaggi ai confini dell’inverosimile.

Allora potremmo domandarci: siamo noi a creare con la scrittura il nostro pubblico o sono le tendenze a seguire quello che il pubblico desidera?

Senza addentrarsi in un’analisi di mercato editoriale, concludo sostenendo che lo spirito della nostra epoca considera tanto la necessità di evasione e intrattenimento (come avviene, in parte, in Manrico Spinori), quanto la paura metafisica in relazione a uno scenario angosciante senza politica e risvolti sociali.

[3 novembre 2022]