Sono otto i saggi di critica letteraria che Donatello Santarone racchiude nel suo ultimo libro, pubblicati in un arco di tempo che va dal 2005 al 2022 e legati, come l’autore sottolinea nella premessa, dalla relazione ricca di scambi con l’Altro, dalla nozione goethiana di Weltliteratur e infine dallo stretto rapporto tra storia, educazione e politica.
La scelta del titolo deriva da una lettera inviata da Franco Fortini a una sua studentessa nel 1969, testimonianza della continua attenzione che egli manifestò per le questioni educative: nel 1955 su un volo Mosca-Helsinki, ricorda Fortini, gli fu offerto del pane ricoperto di burro e caviale; tale merenda, simile a quelle materne, suscitò la sua attenzione e a distanza di anni il ricordo di quell’episodio riaffiorò nella sua mente, portandolo ad affermare: «il prezioso caviale trattato come fosse marmellata di fichi, questo è il modo giusto di trattare la cultura» (p. 9). Già dalla premessa, dunque, emerge la centralità del magistero di Fortini per Santarone, il quale chiarisce anche le intenzioni del volume: «intrecciare la cura della ricerca con la comunicabilità didattica, nella convinzione che la letteratura debba essere il più possibile condivisa e usata» (ibidem).
La relazione con l’Altro e il dialogo tra culture molto lontane è al centro dei due saggi iniziali dedicati a Dante e alla Gerusalemme Liberata di Tasso, due classici della letteratura italiana. A contraddistinguere questi scritti è innanzitutto un approccio interculturale, volto a riconoscere gli scambi continui tra il mondo arabo-islamico e la civiltà europea.
La presenza della cultura arabo-islamica nella Commedia dantesca è stata messa in luce da uno studioso spagnolo, Miguel Asín Palacios, che nel 1919 pubblicò un testo intitolato L’escatologia musulmana nella «Divina Commedia». Secondo Palacios, alla base del poema dantesco non ci sarebbero solo le radici classiche, giudaico-cristiane e romanze, ma anche quelle arabo-islamiche, sulle quali la critica dantesca non si è mai soffermata, nonostante la centralità che gli arabi assunsero nella Spagna e nella Sicilia a partire dall’VIII secolo. A tal proposito, Santarone si sofferma sul florido contesto culturale della Spagna del Duecento e sulla figura del sovrano Alfonso X di Castiglia detto il Saggio, mecenate coltissimo, nella cui corte si riunirono intellettuali provenienti dalle aree geografiche più varie. Fu proprio Alfonso il Savio a commissionare a un medico ebreo la traduzione in castigliano dall’arabo del racconto del “mi’raj”, ovvero dell’ascensione di Maometto in cielo. Il cosiddetto Libro della Scala di Maometto sarebbe dunque una delle fonti della Commedia, testo che Dante probabilmente lesse nella traduzione in latino realizzata da Bonaventura da Siena, anch’egli intellettuale attivo presso la corte del re castigliano.
La pubblicazione del saggio di Palacios fu ampiamente osteggiata dai dantisti italiani: siamo, infatti, in un periodo storico caratterizzato dall’ascesa del regime fascista di Mussolini e il nazionalismo dilagante non può ammettere l’esistenza di un’influenza arabo-islamica nella composizione della Commedia. Si pensi, inoltre, che il testo di Palacios verrà tradotto in Italia soltanto nel 1994: dunque l’ostracismo dei dantisti sopravvisse anche al di là del secondo dopoguerra.
La Commedia, pertanto, è opera di un «cristiano cosmopolita» ed è Dante stesso a scrivere nel De vulgari eloquentia, come ricorda Santarone, di avere «per patria il mondo, come i pesci il mare» (e tali parole non possono non richiamare alla memoria ciò che scrisse Auerbach in Philologie der Weltliteratur: «la nostra patria filologica è la terra»).
L’attenzione di Santarone, inoltre, è rivolta anche all’insegnamento scolastico, in quanto secondo lo studioso è necessario leggere il poema dantesco come «compendio che sintetizza una intera epoca della cultura mediterranea» (p. 31); la rivalutazione della tradizione islamica, dunque, dovrà avere inizio anche nelle scuole poiché essa è «elemento costitutivo della nostra storia» (ibidem).
La relazione contrappuntistica con l’Altro emerge con chiarezza anche dalla lettura della Gerusalemme Liberata. Lo sguardo di Santarone è sempre rivolto alla questione pedagogica e a come questi testi fondamentali della nostra letteratura possano essere introdotti oggi in classe, adottando una prospettiva interculturale e critica.
Il poema tassiano si rivela come una delle poche opere della modernità ad aver espresso il «conflitto irrisolto con la diversità, con l’Altro interno ed esterno all’Occidente ed alla sua cultura» (p. 65). La prospettiva interculturale va di pari passo con il decentramento del punto di vista. Infatti la lettura di testi molto lontani da noi – non solo nel tempo, ma anche nello spazio ‒ ci aiuterebbe ad assumere un punto di vista diverso e insolito e a relativizzare il presente. Inoltre, l’ambiguità del linguaggio letterario, con il suo carattere evocativo e simbolico, ci restituisce un’immagine dell’Altro varia, mobile e non statica e ciò è particolarmente evidente nel caso della Gerusalemme Liberata: l’Altro – in particolare l’Altro arabo-musulmano – è «insieme barbaro e eroico, quintessenza del male e luogo di felicità e piacere, allegoria di una lacerazione storica tra eretici e cattolici tridentini, tra bene e male» (p. 87).
Da due classici della letteratura italiana, Santarone decide di passare a due autori novecenteschi, quasi del tutto assenti dalle attuali programmazioni scolastiche: Franco Fortini e Andrea Zanzotto.
Fortini ha spesso affrontato nella sua ampia produzione saggistica e poetica il legame tra i destini individuali e quelli “generali”, adottando una prospettiva interculturale. La posizione di Fortini è ben evidente dalla lettura del Sonetto dei sette cinesi, riportato da Santarone: l’intellettuale borghese europeo sarà sempre distante dagli operai della Cina rivoluzionaria (vv. 9-10: «Sanno che non scrivo per loro. Io // so che non sono vissuti per me»), tuttavia, solo il confronto con l’Altro può rendere «visibili / contraddizioni e identità fra noi» (vv. 12-13).
Fortini si è occupato della Cina per tutta la sua vita, oltre al diario-testimonianza Asia Maggiore. Viaggio nella Cina, al centro dell’analisi di Santarone, si possono ricordare le pagine dedicate al celebre scrittore cinese Lu Hsün, l’introduzione scritta in occasione della pubblicazione delle liriche di Mao e la traduzione delle cosiddette poesie “cinesi” di Brecht.
Furono molti gli scrittori italiani che nel corso del Novecento si occuparono della Cina, basti pensare a Carlo Cassola, Giorgio Manganelli, Alberto Moravia. Asia Maggiore fu, tuttavia, il primo importante libro sulla Cina popolare, scritto da Franco Fortini in seguito al viaggio compiuto nel 1955 nella Repubblica Popolare Cinese. Il volume sarà pubblicato da Einaudi l’anno successivo, nell’aprile del 1956, prima dunque dell’insurrezione ungherese che, come è noto, rappresentò uno spartiacque nella biografia politica di Fortini.
Fortini guarda alla Cina di Mao non con «curiosità esotica», bensì avverte la necessità di trovare nuove strade per la rivoluzione socialista in Occidente, nella consapevolezza che i conflitti sociali debbano avere una dimensione internazionale. L’attenzione di Fortini è rivolta soprattutto al mondo contadino cinese, nel quale egli non vede «il passato, ma il futuro della liberazione degli uomini» (p. 98). La prospettiva attraverso la quale esamina i contadini della Cina degli anni Cinquanta – definiti i «veri autori della rivoluzione cinese» ‒ non è affatto etnografica, primitivista o magico-religiosa; ciò che gli interessa maggiormente è quanto la classe contadina sia riuscita a compiere una rivoluzione vicina a quella delle classi operaie che hanno lottato nel corso del Novecento.
Come si è ricordato in precedenza, una delle tematiche centrali che emerge dalla lettura complessiva del libro di Santarone è la questione pedagogica. In particolare, è attraverso la lettura di quattro componimenti di Andrea Zanzotto – Ecloga IX Scolastica, Misteri della Pedagogia, La maestra Morchet vive e infine La maestra Morchet vive? ‒ che l’autore mette in evidenza l’importanza del rapporto poesia-pedagogia nella produzione letteraria e saggistica del poeta di Pieve di Soligo.
Per Zanzotto la pedagogia è il «luogo da cui partire per offrirsi al mondo, per comunicare con l’altro, per costruire ponti tra passato, presente e futuro» (p. 169). La questione pedagogica è sempre legata a una dimensione più ampia, quella storico-politica; nelle liriche zanzottiane è presente una tensione politica, tanto più densa e pesante, quanto più nascosta dietro una complessa costruzione retorica, la quale permette al poeta di raffreddare la materia incandescente di cui parla. Tale complessità stilistica e linguistica ha indotto la critica strutturalista e di orientamento lacaniano a mettere in risalto il significante, tralasciando la dimensione storico-materiale; Santarone, tuttavia, ritiene che sia necessario «scavare marxianamente dentro le parole di Zanzotto per farne emergere la loro “totalità” espressiva, biologica e storica» (p. 197).
La nozione di Weltliteratur e la complessità dei rapporti tra Africa e Occidente è al centro dei due saggi dedicati a due autori nigeriani, Buchi Emecheta e Ken Saro-Wiwa. Conoscere le cosiddette letterature post-coloniali è una tappa fondamentale nel percorso di insegnamento volto a decolonizzare l’immaginario letterario dell’Occidente, per tale motivo è importante inserire nei curricula scolastici autori non italiani e adottare una prospettiva mondiale e internazionalista della letteratura.
Dalla lettura di Cittadina di seconda classe di Buchi Emecheta e dall’analisi dettagliata del romanzo di Ken Saro-Wiwa, Sozaboy, emergono gli scambi, gli incroci, le contaminazioni tra la società europea e quella nigeriana; inoltre, come nota Santarone, la debolezza politico-culturale dell’élite nigeriana affonda le sue radici nel passato coloniale britannico, così come, anche nella devastante guerra del Biafra, al centro del romanzo di Ken Saro-Wiwa, un ruolo decisivo fu svolto dalla politica colonialista. La lettura di questi testi, dunque, può aiutare a comprendere quanto il colonialismo europeo abbia danneggiato tali paesi.
Nel suo ampio volume Santarone decide di dedicare uno spazio anche a due importanti critici italiani, Pier Vincenzo Mengaldo e Cesare Cases. Per quanto riguarda il primo, Santarone ripercorre le tappe del lungo dialogo con Fortini, al quale Mengaldo ha dedicato densi ed elaborati saggi. Il dialogo “ininterrotto” tra Fortini e Mengaldo è sintetizzabile in un continuo e reciproco «dare-avere»: il primo, con i suoi saggi critici, ha insegnato tanto al suo giovane amico; il secondo ha donato «al poeta, al traduttore, al critico una mole di osservazioni critiche minuziose e illuminanti» (p. 116).
Notevole è per Santarone quella che definisce l’«intenzionalità pedagogica» della scrittura critica di Mengaldo, anch’essa secondo l’autore ereditata dalla lezione fortiniana: il necessario ricorso alla terminologia filologica e linguistica è sempre indirizzato ad aiutare il lettore a penetrare e comprendere a fondo il testo. Fortini parlava di una «funzione transitiva del testo letterario» e, secondo Santarone, oggi il docente deve situarsi in questa zona transitiva, porsi cioè come mediatore non solo tra studente e testo letterario, ma anche «fra opera e mondo, fra quello che è costitutivo della forma artistica e quello che attiene all’extra-letterario, alle sollecitazioni della storia, della politica, dell’economia, della società» (p. 146).
L’impegno pedagogico, per il quale centrale è il magistero gramsciano, è ciò che lega Fortini al germanista Cesare Cases. Per comprendere la posizione di Cases sull’insegnamento e sull’interpretazione dei testi poetici, Santarone ricorre a un saggio, Il poeta e la figlia del macellaio, apparso sulla rivista «Quaderni Piacentini» (n. 69, 1978). Lo scritto di Cases prende di mira i cosiddetti «scienziati della letteratura», con i loro «metodi logotecnocratici»: è una polemica rivolta alla critica strutturalista, la quale perde di vista l’orizzonte hegelo-marxiano e lukácsiano di totalità, fondamentale per Cases.
Il saggio, dunque, si rivela quanto mai attuale poiché l’insegnamento della letteratura non può ridursi oggi né a una sterile applicazione dei metodi interpretativi, né al trionfo di un approccio fondato sulle sensazioni immediate e sulle emozioni che il testo suscita. È necessario, dunque, trascinare il testo letterario sul terreno della Storia; in una società capitalistica che esalta la dimensione individuale e in cui la letteratura si riduce a merce, si rivela essenziale il recupero della dimensione collettiva e storica.
Gli otto saggi raccolti nel volume di Santarone, nel complesso, offrono una panoramica ben dettagliata della visione che l’autore ha sia della critica sia dell’educazione letteraria e forniscono spunti di riflessione su tematiche stringenti. La letteratura oggi, come in più luoghi ha ribadito Romano Luperini, è una disciplina aperta a più mondi e non può chiudersi nel ristretto ambito disciplinare. Il docente di letteratura non può essere solo uno specialista di filologia; deve essere un intellettuale – anche se collocato nella società odierna in una posizione sempre più marginale, dunque un outsider secondo la lezione di Said – e un mediatore tra l’opera letteraria e il mondo.