Per Renato Solmi

Dal 25 marzo 2015 non è più tra noi Renato Solmi, una delle figure intellettuali più importanti del Novecento non solo italiano. Membro del Centro Fortini e militante fino ai suoi ultimi giorni, traduttore e saggista straordinario, lo ricordiamo oggi pubblicando, a dieci anni dalla scomparsa, un estratto da un suo libro di memorie sul padre Sergio, di prossima uscita per Quodlibet. Ringraziamo Raffaella Solmi e l’editore per averci concesso questa opportunità.

Le strofette che mio padre improvvisava in diverse occasioni della vita familiare e domestica, e in particolare durante le vacanze, quando la convivenza con gli altri membri della famiglia era più stretta e continuativa, e la sua mente era libera almeno in parte da altre preoccupazioni, ricordavano spesso i moduli di quelle che aveva sentito cantare dai suoi soldati, o aveva cantato egli stesso, durante le marce e nelle trincee della prima guerra mondiale, a cui aveva partecipato all’epoca dell’Oltranza, e cioè nell’ultimo e forse più terribile anno di guerra, che aveva segnato profondamente la sua vita come quella dell’amico Montale, conosciuto in quel periodo alla scuola d’applicazione di fanteria di Parma, anche se poi avevano partecipato alle operazioni in diversi settori del fronte. A proposito, quanti dei lettori delle poesie di Montale avranno potuto capire, in assenza di annotazioni adeguate (che sarebbero state, peraltro, indispensabili), il significato di considerazioni del genere di questa: «Dicevano i Garanti che il vecchio logos / fosse tutt’uno coi muscoli dei fuochisti, / con le grandi zaffate del carbone, / con l’urlo dei motori, col tic tac / quasi dattilografico dell’Oltranza» (il corsivo è mio), che si possono leggere nella poesia L’educazione intellettuale, con cui si inizia il Quaderno di quattro anni? Non sarebbe stato il caso di ricordare che la «guerra a oltranza» proclamata da Clemenceau dopo la rivoluzione d’ottobre e il ritiro, dapprima graduale e poi definitivo, dell’Unione Sovietica dalla guerra, e contro le attese e le speranze di pace largamente diffuse fra i soldati e anche fra le masse popolari dei paesi belligeranti dopo quattro anni di sterminio insensato e praticamente ininterrotto, avevano messo nella luce più cruda, e spinto fino all’esasperazione, il contrasto fra la politica di potenza degli stati e gli interessi delle classi dirigenti e le ragioni più elementari del buon senso e dell’umanità, di cui la nuova formazione politica sorta dalla vittoria della rivoluzione socialista in Russia poteva apparire come la sola interprete e depositaria? E che «il tic tac quasi dattilografico dell’Oltranza» non era altro che ticchettio saltuario ma non per questo meno micidiale dei fucili dei cecchini della parte avversa, che si faceva sentire quotidianamente anche nei periodi di tregua, e di cui parla lo stesso Montale in un’altra poesia dello stesso periodo (L’eroismo): «e tonfi di bombarde e il fastidioso / ticchettio dei cecchini»? A esso fa riferimento anche mio padre, come a un’esperienza traumatica e indimenticabile che riaffiorava periodicamente nei suoi sogni, in alcune delle sue poesie (Ricordo: «A braccia aperte giacciono nel grano / verde i compagni, usciti di soppiatto / dal sogno»; e I leoni: «scomparendo / nel grano verde i compagni, se presso / volavano i rametti al doppio colpo / lassù, dell’arboreo cecchino»).

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Vorrei anche accennare brevemente alla parte che mio padre ha svolto nella mia educazione intellettuale, a prescindere del tutto, naturalmente, dall’influenza che può avere avuto su di me la lettura diretta delle sue opere che, in generale, non trascuravo mai di eseguire ogni volta che ne prendevo conoscenza, e che non mancavano mai di esercitare su di me un effetto profondo. Ero abituato a sottoporgli, in generale, fin da quando avevo cominciato a frequentare il ginnasio (le elementari le avevo fatte a casa, preparando gli esami terminali sotto la guida di mia madre), i temi di italiano che mi avevano dato da svolgere a casa, perché li correggesse e modificasse dove gli pareva necessario. E qui accadeva che, mentre mia madre trovava spesso che le mie idee e le mie espressioni non andavano bene, e mi costringeva suo malgrado, poverina, a un lavoro di Sisifo di rifacimenti continui, e in ultima istanza insoddisfacenti, mio padre si mostrava molto più parsimonioso nelle sue osservazioni e nelle sue proposte di modifiche, che eseguiva per lo più direttamente lui stesso, con pochi ritocchi magistrali nei punti strettamente indispensabili e con mia grande soddisfazione, dal momento che mi venivo a trovare con un testo sostanzialmente migliorato e, nello stesso tempo, mi sentivo incoraggiato a perseverare nei miei sforzi di pervenire a un’organizzazione e a un’espressione autonoma dei motivi o delle idee che mi era stato chiesto di trattare e di svolgere. In modo analogo fui aiutato, più tardi, nei miei primi tentativi di traduzione dal francese, che feci spesso per suo incarico e spesso in collaborazione con lui, dato il rispetto che mostrava, in generale, per le mie scelte e la sicurezza degli interventi che eseguiva dove non se ne poteva fare a meno e che, in ogni caso, determinavano sempre un miglioramento del livello finale della resa italiana del testo.

Un altro campo in cui egli mi è stato estremamente utile e prezioso, e in cui ha avuto luogo tra di noi una collaborazione completamente disinteressata, è rappresentato dallo studio della storia della filosofia, che egli si era proposto di condurre insieme a me, senza alcuna soluzione di continuità, per tutto il corso del triennio superiore (anche se è probabile che, a partire da un certo momento, in seguito ai drammatici sviluppi della guerra, che ci avevano costretto a tutta prima a sfollare a Bergamo, e che poi, dopo l’8 settembre, resero sempre più precaria e più insicura la permanenza di mio padre fra le pareti domestiche, egli non abbia più potuto, per causa di forza maggiore, seguirmi regolarmente come all’inizio). Leggevamo insieme, ricordo, oltre al manuale del Lamanna pubblicato da Le Monnier, anche un testo ormai fuori uso ma estremamente vivace e stimolante, la Storia della filosofia di Francesco Fiorentino ¬– lo aveva ereditato da suo padre, professore di filosofia ai licei e poi, da ultimo, all’Università di Pavia – con grande profitto da parte mia, che avrei potuto avvalermi in seguito, nelle interrogazioni o nelle discussioni che avevano luogo in classe, anche di tutti i suoi suggerimenti e le sue osservazioni e forse anche, in una certa misura, con risultati proficui per lui, che trovava così anche il modo di aggiornarsi nella conoscenza della materia, e che poteva avvantaggiarsi dello stimolo che un temperamento ricettivo e desideroso di apprendere come il mio non poteva non dare, con le sue reazioni, anche a chi era per ovvi motivi molto più preparato e ferrato in questo campo (come del resto in tutti gli altri). Ricordo bene come quelle letture in comune mi rendessero felice e mi confermassero nel proposito di studiare e di approfondire quella materia, che aveva suscitato fin dall’inizio il mio interesse e il mio entusiasmo più intenso, forse anche e proprio perché avevo l’impressione che, in quel modo, io avessi anche la possibilità di rendermi utile a lui e di stabilire con lui un rapporto di scambio e di arricchimento reciproco, immune da qualsiasi rivalità e gelosia o anche solo incomprensione e indifferenza, dal momento che anche queste ultime specie di rapporto non dovrebbero avere ragione e possibilità di stabilirsi fra persone che si vogliono bene e che desiderano l’una la felicità e il successo dell’altra: ciò che purtroppo non sarebbe stato più così facile negli anni successivi, a partire dalla fine della guerra e dal mio ingresso all’università, che avrebbero portato a una crescente separazione e divaricazione dei nostri itinerari rispettivi, già prima ancora che si venisse ad aggiungere la distanza fisica o spaziale determinata dal mio trasferimento a Torino.