Lukács e Dante
Lelio La Porta

La domanda che Lukács si pone, già nel 1915, ossia all’epoca della Teoria del romanzo, è relativa alle caratteristiche peculiari della condizione moderna. Il problema è a livello della scissione fra essenza e sostanza, fra essenza e fenomeno in quanto la prima si pone come postulato, e in questo suo porsi, crea un abisso fra noi ed il mondo e «tra noi e noi».1 Questa frantumazione della totalità in un’epoca che, paradossalmente, aspira alla totalità è ben espressa dal romanzo nel quale il soggetto sottolinea la sua estraneità dall’oggetto e questa circostanza consente l’affermazione della figura dell’eroe che emerge in quanto estraneo al mondo esterno e, per questo, si distingue qualitativamente dagli altri uomini. Come non rinvenire in questa impostazione lukácsiana qualcosa di piú di pure e semplici influenze hegeliane? Ma è proprio così? Riprendendo infatti il discorso di Hegel sull’arte classica e su quella romantica, ponendolo in lettura comparativa con quello di Lukács,2 se ne trarrebbe la conclusione che il filosofo ungherese pensi alla totalità come ricomposizione dell’unità, come ricostituzione dell’armonia perduta e che il romanzo sia l’espressione letteraria di questa tensione. Lukács non concorda con Hegel a proposito del momento della realizzazione della tensione; mentre il primo, sotto la contemporanea influenza di Kierkegaard, si esprime per la inattuabilità del progetto di ricomposizione, per il secondo l’obiettivo non può essere altro che la pacificazione dello spirito con se stesso. Non esiste per Lukács una proporzionalità inversa fra problematizzazione dell’arte e non problematizzazione del mondo storico-sociale.

Questo complesso rapporto fra mondo e io, fra fenomeno ed essenza trova una sistemazione nei Prolegomeni a un’estetica marxista, dove l’arte è intesa come rispecchiamento della realtà oggettiva. Infatti, l’essenza è nel fenomeno il quale, mentre si manifesta, rende esplicita la propria essenza;3 in questo modo, la centralità del procedimento artistico è assunta dal particolare, dall’individuale e, proprio per questo, l’arte è molto piú vicina alla vita di qualsiasi altra manifestazione umana: «L’arte dunque rappresenta la vita cosí come essa è realmente, proprio nella sua struttura reale e nel suo movimento reale».4 Non può essere sottovalutata, anche in questo contesto, la presenza hegeliana; è Hegel infatti ad individuare la particolarità dell’elemento estetico nella manifestazione dell’essenza nel fenomeno di modo che il rapporto fenomeno-essenza diviene un dato immediato, una intuizione sensibile e non concettuale. Di qui ad arrivare alla conclusione strettamente hegeliana che «l’estetica rappresenta il manifestarsi dello spirito assoluto sul piano dell’intuizione»5 il passo è breve.

Se l’arte, come ritiene Lukács, rispecchia e plasma la realtà, l’artista dovrà necessariamente prendere posizione rispetto alle lotte storiche del suo tempo, dovrà necessariamente fare riferimento alla «rappresentazione di una realtà obiettiva, con le sue forze effettivamente agenti, con le sue reali tendenze di sviluppo».6 Ciò non significa che, automaticamente, è progressista l’opera d’arte di chi professa idee progressiste, bensì è progressista solo l’opera d’arte di chi sa rappresentare realisticamente la realtà, il nesso fondante e dialetticamente proficuo, secondo Lukács, di fenomeno e di essenza:

Sappiamo che il rapporto fra concezione del mondo e attività letteraria è estremamente complesso. Ci sono casi in cui una concezione del mondo politicamente e socialmente reazionaria non può impedire la nascita di grandi capolavori realistici, e altri in cui proprio la posizione politica avanzata di uno scrittore borghese assume forme che ostacolano il suo realismo artistico. Si tratta insomma di vedere se l’elaborazione della realtà che si concentra nella concezione del mondo dello scrittore gli apre la via a una considerazione spregiudicata della realtà, o se frappone tra la realtà e lo scrittore una barriera che impedisce il suo pieno abbandono alle ricchezze della vita sociale.7

Si è di fronte ad una normatività dell’opera d’arte, ad un suo porsi storicamente solo in virtù di un precostituito giudizio estetico che ha il suo fondamento nella hegeliana compenetrazione dialettica di fenomeno e di essenza.

La difficoltà di realizzazione di un’estetica marxista, osservando il problema dal punto di vista lukácsiano, è nell’aporeticità di penetrare un orizzonte finale che, con il ricorso continuo a Hegel, invece di aprirsi sembra chiudersi, restringersi, tornare indietro fin sulla soglia dell’intuizione sensibile trascurando quasi totalmente il rapporto tra giudizio storico e giudizio estetico.

Qual è allora il nodo da sciogliere? Il nesso fra la storicità della poesia e la sua eternità. A questo livello diventa emblematica la riflessione di Lukács su Dante che si colloca in rapporto ad un nodo centrale, soprattutto nella fase giovanile del filosofo ungherese, ossia il nesso fra epopea e romanzo. Non va dimenticato come, redigendo, fra il marzo del 1915 e l’agosto dello stesso anno, le note che rappresentano l’embrione di un libro mai scritto su Dostoevskij (in una lettera del 2 agosto del 1915 indirizzata a Paul Ernst da Heidelberg, Lukács scriveva: «Ho interrotto un libro su Dostoevskij, che era troppo grosso. Ne è uscito finito un grosso saggio: Die Ästetik des Romans», ossia la Teoria del romanzo che, perciò, può essere definita la prima parte completa del mai terminato libro sull’autore russo), Lukács si fosse interrogato sul significato di transizione che l’opera dantesca assumeva nel passaggio dalla epopea al romanzo.8 In questi appunti l’avvicinamento dello scrittore russo al poeta italiano consente di comprendere che «nei due universi le anime vivono la loro propria vita sostanziale, indipendentemente dalla soggettività narratrice».9 All’epoca della stesura delle note su Dostoevkij e della Teoria del romanzo esisteva già la traduzione in ungherese dell’Inferno di Dante ad opera di Mihály Babits (1883-1941) che cominciò a tradurre la Divina Commedia e nel 1913 pubblicò l’Inferno (A Pokol), nel 1920 il Purgatorio (A Purgatórium), nel 1923 il Paradiso (A Paradicsom) [va fatto presente che, peraltro, esistevano già le traduzioni in tedesco del poema dantesco ad opera di Karl Friedrich Kannegiesser (1781 – 1861) e di Adolf Friedrich Karl Streckfuss (1778 – 1844) nonché quella di Giovanni I di Sassonia (1801 – 1873), con lo pseudonimo di Philalethes, alla quale il giovane Lukács si può ritenere abbia fatto ricorso ancor prima della traduzione nella lingua del suo paese di origine, vista la presenza del testo nella biblioteca del filosofo, secondo quanto è possibile apprendere dall’edizione critica del Manoscritto-Dostoevskij]. Puntualmente Lukács trae dalla lettura del poema dantesco alcune riflessioni appuntate nel libro mai realizzato su Dostoevskij. Ad esempio la nota intitolata Cerimonia e Interiorità, che chiude una serie di appunti su Dante che rimandano alla lettura del testo di Vössler, La Divina Commedia studiata nella sua genesi ed interpretata (1907-1910), la quale nota fa riferimento ad un canto preciso del poema dantesco; appunta Lukács: «Zeremonie und Innerlichkeit (Absolution). Guido v. Montefeltro. Inferno XXVII 118ff. Dazu Römer II 25» [traduzione italiana, «Cerimonia e Interiorità (assoluzione) Guido da Montefeltro. Inferno, XXVII, vv. 118 sgg. Su ciò Rm 2, 25»].10 Guido da Montefeltro, capo dei Ghibellini romagnoli, astuto e privo di scrupoli, protagonista del Canto XXVII (consiglieri fraudolenti, VIII bolgia, VIII cerchio) si era convertito da vecchio ed era entrato nell’ordine dei francescani. Narra la leggenda che papa Bonifacio VIII lo avesse invitato alla sua corte per chiedergli consiglio su come domare i ribelli Colonnesi e conquistare Palestrina che era la loro roccaforte. Ottenuta dal papa la promessa di essere assolto in anticipo dal peccato che stava per commettere, Guido fornì il consiglio fraudolento. Al momento del trapasso, Dante immagina che la sua anima sia contesa fra San Francesco e il diavolo. Quest’ultimo, definendosi “loico” (logico), si impadronisce dell’anima di Guido, che sta raccontando la vicenda a Dante e a Virgilio, usando un argomento che rimanda al principio di non contraddizione:

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente (Inferno, Canto XXVII, vv. 118-120)

Il riferimento all’assoluzione si può dire, per quanto l’azzardo della proposta interpretativa possa sembrare opinabile, di natura autobiografica. Infatti quando, per punizione, la madre lo chiudeva nello stanzino della legna, il piccolo Lukács ragionava nel modo seguente:

Se mi ci chiudeva il mattino alle dieci, io alle dieci e cinque domandavo perdono e tutto era a posto. Mio padre tornava a casa all’una e mezzo. Mia madre non voleva che al suo arrivo ci fossero tensioni in casa. Per cui io, se venivo messo nello stanzino dopo l’una, per nulla al mondo avrei chiesto perdono, perché sapevo che cinque minuti prima dell’una e mezzo sarei stato fatto uscire senza aver chiesto perdono.11

Sul tema dell’assoluzione, la nota lukácsiana rimanda anche alla lettura di un passo della Lettera di Paolo ai Romani (Rm 2,25) in cui si legge:

La circoncisione è utile, sì, se osservi la legge; ma se trasgredisci la legge, con la tua circoncisione sei come uno non circonciso.

Per Israele la circoncisione è il segno dell’alleanza con Dio; chi la riceve appartiene al popolo di Dio. Ma il formalismo del rito ha ancora valore se non se ne vive la realtà? Per Guido da Montefeltro che valore ha avuto un atto formale (l’assoluzione prima del peccato il quale è consistito nel consiglio dato al papa di dimenticare presto le promesse fatte: «lunga promessa con l’attender corto», v. 110) se poi ha comunque commesso il peccato? Dante e lo stesso Paolo di Tarso diventano per il Lukács di questi anni elementi che gli possano consentire di proporre una critica delle istituzioni (nel caso specifico sia Bonifacio VIII, quindi la Chiesa istituzionalizzata, sia l’ebraismo della Torah, ossia il potere delle istituzioni, la loro oggettività sintetizzate, negli appunti su Dostoevskij, nel concetto di Geova, come sostantivo, e nel concetto di geoviano, come attributo, che rappresentano “l’epoca della compiuta peccaminosità”), un loro possibile superamento in direzione del recupero di valori quali la solidarietà, la fratellanza, l’amore. Sono questi gli elementi costitutivi di quella che Lukács definisce “seconda etica” la quale, appunta il filosofo, in rapporto a Dostoevskij e Dante, rappresenta l’”apriori formale dell’epica”. La seconda etica, secondo Lukács, aveva l’obiettivo di soppiantare l’etica kantiana superando il principio del dovere in senso democratico, ossia unificando homo noumeno e homo fenomenico in un’unica personalità. Il ruolo di realizzazione di questa etica è la Russia e la fratellanza ne costituisce il primo principio. Appunta Lukács:

Tipi di solidarietà
a) Oriente: l’altro (Gli altri: anche il nemico) sei Tu; perché io e Tu siamo un’illusione.
b) Europa: fratellanza astratta: fuga dalla solitudine. L’altro è il mio “concittadino”, il mio “compagno”, il mio “compatriota” (non esclude l’odio razzista e classista etc., anzi lo favorisce).
c) Russia: l’altro è mio fratello; quando trovo me stesso, in quanto trovo me stesso, trovo l’altro. “Un vero russo, […] diventare veramente russo […] significa forse diventare un fratello di tutti gli uomini”.12

Il luogo in cui, però, l’attenzione per Dante assume la complessità di un discorso articolato è Teoria del romanzo (nella quale, stando alla lettera ad Ernst prima riportata, confluiscono gli appunti su Dostoevskij). Qui l’opera di Dante si presenta come una ballata in cui il senso della vita è indicato dall’aldilà, è «la compiuta immanenza del trascendente». Ciò che in questo mondo è disunito, trova unità nell’aldilà, ciò che qui è solitudine, nell’eternità sarà «canto corale», integrazione armonica in un mondo sovrareale. Ciò che lega gli abitanti dell’immanente a quelli del trascendente è il destino che assume un significato solo nel momento in cui si realizza il trapasso da questo mondo a quel mondo; per ognuno il «trasumanare» diventa unico, evento totalmente individuale; è, dice Lukács, una ballata. La grandezza di Dante sta nel fatto che egli, nella Divina Commedia, riesce a rivelare non solo la maestosità dell’edificio del mondo aprioristicamente creato da Dio, ma il ruolo che il singolo ha nel completamento della realizzazione di questo edificio; per questo «le ballate divengono i canti di un’epopea», un’epopea che trova compimento unicamente nell’aldilà, per cui la totalità cui si perviene è ancora chiusa in se stessa, priva di un esauriente contatto con la «nascosta totalità della vita»: scoprire e ricostruire quest’ultima è compito del romanzo. Dante riassume nella sua opera sia «la completa, immanente mancanza di distanza e isolamento della vera epopea», sia la vera individualità di figure che «sono già individui, che consciamente ed energicamente si contrappongono ad una realtà scissa da loro». Si realizza, perciò, nella transizione rappresentata dall’opera dantesca la sintesi dei presupposti dell’epos e del romanzo:

Questa unità dei presupposti di epos e romanzo e la loro sintesi in epopea, riposano sulla struttura dualistica del mondo dantesco: la scissione di vita e senso, propria dell’al di qua, viene superata e riscattata grazie a una coincidenza di vita e senso nella presente e vissuta trascendenza; all’organicità priva di postulati dell’antico Epos, Dante contrappone la gerarchia dei postulati attuati, esattamente come egli, unico, può privare l’eroe e il suo destino, che condiziona la comunità, di ogni tangibile superiorità sociale, dal momento che l’esperienza del suo eroe si identifica esattamente con la simbolica unità del destino dell’uomo.13

La commedia divina incontrerà, negli Studi sul Faust della seconda metà degli anni trenta, la commedia umana in quanto unicamente Dante è riuscito ad esprimere «la ricchezza viva, la mobilità umana, la drammaticità intima del mondo rappresentato» nelle figure individuali concrete che passano a centinaia davanti a lui; è il dramma del genere umano che Dante descrive e che Faust incarna. Faust è protagonista di un’odissea, «dalla dannazione alla redenzione»,14 che è la stessa dell’umanità, di ogni singolo individuo che fa parte dell’articolata e complessa umanità. Nella sostanza, è uno dei protagonisti della commedia divina nella quale ogni singolo protagonista è persona che rappresenta la propria epoca, storicamente e concretamente, al di là di qualsivoglia astrazione concettuale.

A proposito di astrazioni concettuali, considerato che in questi termini ne valuta i ragionamenti Thomas Mann, è da proporre una riflessione dedicata a quello che può essere definito il “Naphta dantista”. È noto che lo scrittore tedesco, per il gesuita personaggio de La montagna incantata, si sia ispirato proprio a Lukács che aveva incontrato una volta a Vienna nel 1922.15 Fra le innumerevoli discussioni fra Naphta e Settembrini, nel corso del romanzo, ce n’è una che ha come oggetto il Sommo Poeta italiano originata, peraltro, da uno scherzoso intervento di Settembrini che fa notare a Castorp che la sua Beatrice, ossia Clawdia Chauchat, scesa dal Berghof verso la pianura, non era più tornata tenendo in conto alcuno i sentimenti che Hans provava per lei. L’italiano si propone, dunque, a Castorp come una sorta di Virgilio per aiutarlo e aggiunge:

Il nostro ecclesiastico le confermerà che il mondo del medioevo non è completo se al misticismo francescano manca l’opposto polo della conoscenza tomistica.16

Così sollecitato da Settembrini, nella discussione si inserisce Naphta il quale, un po’ per odio nei confronti di Virgilio, un po’ per disprezzo della lingua latina,17 invece tanto amata da Settembrini, sostiene che

Era stata […] per il grande Dante una molto benevola prevenzione dei tempi, se aveva preso così solennemente sul serio quel mediocre versaiolo affidandogli nel poema una parte così importante […]. Che cosa contava dopo tutto quel cortigiano laureato, quel leccapiedi della Casa Giulia, quel letterato metropolitano e retore pomposo senza un briciolo di produttività, la cui anima, seppur l’aveva, era in ogni caso di seconda mano? E poi, quello non era un poeta, ma un francese di riccioluta parrucca augustea!18

La polemica Naphta-Settembrini è il cardine ideologico intorno al quale ruota il contrasto fra liberalismo e rivoluzione.19 Proprio lo scontro tra i due su Virgilio ne costituisce un aspetto non secondario. Perché tanta acrimonia nei confronti dell’autore dell’Eneide, e perché per il gesuita Naphta Virgilio è un bersaglio?

…i maestri della giovane Chiesa non si stancarono di mettere in guardia il prossimo dalle menzogne dei filosofi e poeti antichi, massime dal macchiarsi dell’esuberante eloquenza di Virgilio, e oggi, nel momento in cui un’epoca scende nella tomba e un nuovo mattino proletario sta spuntando, è veramente il caso di condividere i loro sentimenti!20

Naphta si fa assertore di un ritorno alla rivoluzione culturale cristiana volta alla distruzione dei classici. Se dietro Naphta c’è Lukács, il Lukács dei primi anni Venti che, in esilio a Vienna dopo l’esperienza della Repubblica sovietica ungherese del 1919, scrisse venti articoli per il quotidiano del Partito comunista tedesco (Kommunistische Partei Deutschlands – KPD), Die Rote Fahne, e collaborò con «Kom¬munismus», organo della Terza Internazionale per i Paesi danubiani, allora questa equiparazione tra rivoluzione culturale cristiana e alba proletaria può avere un senso tenendo presente che già prima del filosofo ungherese se ne erano interessati Engels (la recensione a Passato e presente di Thomas Carlyle pubblicata negli «Annali franco-tedeschi» del 1844 con il titolo La situazione in Inghilterra), ma anche Kautsky (Von Plato bis zu den Wiedertäufern in Die Vorläufer des Neueren Sozialismus, 1895). Quindi, ripercorrendo il Dostoevskij21 sembrerebbe che il Naphta manniano sia prossimo al sentire del Lukács di quell’epoca22 anche se, va sottolineato, l’elaborazione lukácsiana è molto meno astratta di quanto Mann intenda con il discorso di Naphta. Quello che interessa il filosofo ungherese è il comunismo, ossia come dalle esperienze delle comunità cristiane, in specie le sette ereticali (anabattisti, valdesi, taboriti), si possa trarre un esempio concreto di comunismo senza che Lukács abbia ancora una comprensione teoricamente e praticamente del tutto consapevole dell’opera di Marx.23 Il filosofo individua un fondamento comune alle tre sette ereticali cioè un passo degli Atti degli Apostoli che tende a mettere in evidenza l’impossibilità di ingabbiare il cristianesimo originario nelle panie di una istituzione: «Il Dio che ha creato il mondo e tutto quello che in esso si trova, essendo il Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti con le mani»;24 qui è l’essenza della «Opposizione contro la Chiesa».25 Dal punto di vista politico e sociale, l’esperienza ereticale ha due punti fermi di riferimento: a) la mancanza di autorità istituzionale; b) la gestione comunitaria della proprietà; anche in questo caso Lukács fa riferimento a due passi degli Atti degli Apostoli emblematici del passaggio dall’anabattismo al «Comunismo dei Taboriti»:26 «E tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano tutto in comune. Vendevano i loro beni e ne distribuivano il prezzo fra tutti, secondo il bisogno di ciascuno. […] E non vi era alcuno bisognoso fra loro. Perché quanti possedevano terreni o case, li vendevano, poi, preso il prezzo delle cose vendute; lo deponevano ai piedi degli apostoli e si distribuiva a ciascuno secondo il suo bisogno».27 Nella sostanza l’interesse lukácsiano per le sette ereticali è la spia della ricerca delle modalità di attuazione di una trasformazione della società liberata da quegli orpelli che derivano da un uso disumano delle imposte, della pena capitale e della stessa guerra, che è disumana di per se stessa. Lukács annota fino a che punto il processo di trasformazione sia stato inteso da Dante, come il fiorentino lo abbia, se lo ha, portato a prima attuazione almeno dal punto di vista letterario. «Dante e l’epos mondano», si legge nel manoscritto,28 ossia l’opera dantesca non è solo poesia ma il racconto di un viaggio che ha come suo scopo l’umanizzazione dell’uomo, la conquista di una mondanità che è narrata con le forme dell’epica a partire dal dramma interiore di chi si trova nel mezzo del cammino della vita e affronta l’avventura a partire dalla selva oscura. D’altronde negli appunti lukácsiani il rapporto fra il poeta italiano e l’epos mondano sarebbe comparso nel capitolo intitolato «L’interiorità e l’avventura».29

La domanda che si pone Naphta nel corso del suo duello verbale con Settembrini sembra essere la seguente: fermo restando che la grandezza di Dante non può e non deve essere messa in discussione, veramente la cultura classica, di cui Virgilio è il simbolo, ha rappresentato per i «maestri della giovane Chiesa» l’elemento da distruggere per realizzare una nuova cultura? Scrive Auerbach:

…sebbene i principii culturali e spirituali da cui l’arte virgiliana era sorta fossero decaduti e del tutto estranei a Dante, egli non se ne accorgeva; egli trasformava Virgilio come se la Roma di Augusto fosse separata dalla sua soltanto dal passare del tempo, e come se quanto era accaduto nel frattempo avesse portato soltanto un aumento di esperienze e di eventi, e non un mutamento di tutta la forma di vita e di pensiero, onde Virgilio diventa un antenato che parla la lingua del nipote e lo capisce fino in fondo…30

Perciò, secondo Dante, in aperto contrasto con quanto sostenuto da Naphta, Virgilio, nella realtà, divenne il ponte fra il nulla della nuova cultura e il recupero della cultura classica per fornire linfa vitale a ciò che altrimenti non avrebbe potuto vedere la luce. Per questo il poeta lo sceglie come guida nel viaggio ultraterreno descritto nelle prime due cantiche della Commedia. Non si va troppo lontano dal vero dicendo che Lukács sarebbe stato d’accordo con Gramsci quando il comunista sardo scriveva

che il vecchio “uomo”, per il cambiamento, diventa anch’esso “nuovo”, poiché entra in nuovi rapporti, essendo stati quelli primitivi capovolti. Donde il fatto che, prima che il “nuovo uomo” creato positivamente abbia dato poesia, si possa assistere al “canto del cigno” del vecchio uomo rinnovato negativamente: e spesso questo canto del cigno è di mirabile splendore; il nuovo vi si unisce al vecchio, le passioni vi si arroventano in modo incomparabile ecc. (Non è forse la Divina Commedia un po’ il canto del cigno medioevale, che pure anticipa i nuovi tempi e la nuova storia?).31

Note

1 G. Lukács, Teoria del romanzo, introduzione di Giuseppe Di Giacomo, traduzione di Francesco Saba Sardi, Parma, Pratiche Editrice, 1994, p. 62.

2 Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Torino, Einaudi, 1976, v. I, specialmente pp. 581-583.

3 G. Lukács, Prolegomeni a un’estetica marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 196.

4 Ivi, p. 234.

5 G. Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 133.

6 G. Lukács, Scritti di sociologia della letteratura, Milano, Mondadori, 1976, p. 62.

7 G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Torino, Einaudi, 1977, p. 179.

8 La lettera di Lukács in G. Lukács, Epistolario 1902-1917, a cura di É. Karádi e É. Fekete, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 366.

9 G. Di Giacomo, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 78. Sul rapporto fra il giovane Lukács e Dante si veda U. Dogà, Dante nell’estetica del giovane Lukács, in Soggetto e redenzione. Il giovane Lukács, cura di M. Ponzi, Milano-Udine, Mimesis, 2018, pp. 191-203.

10 G. Lukács, Dostojewski. Notizen und Entwürfe, Budapest, Akadémiai Kiadó, 1985, p. 40; traduzione italiana di Michele Cometa in G. Lukács, Dostoevskij, con Postfazione di M. Cometa, Milano, SE, 2012, p. 13.

11 G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, Intervista di I. Eörsi, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 29.

12 G. Lukács, Dostoevskij cit., pp. 80-81. Lukács cita un passaggio del discorso pronunciato l’8 giugno del 1880 da Dostoevskij alla seduta solenne della “Società degli amici della letteratura russa” a Mosca in occasione dell’inaugurazione del monumento a Puskin.

13 G. Lukács, Teoria del romanzo cit., pp. 86-96. Non può sfuggire come il riferimento di Lukács sia Hegel: «in questa esistenza immutabile immette [il soggetto è il poema di qualche riga prima, ossia la Divina Commedia] il mondo vivente dell’agire e del patire umano, anzi delle gesta e dei destini individuali. Sparisce qui, di fronte alla grandezza assoluta del fine ultimo e della meta di tutte le cose, ogni singolarità e particolarità di interessi e fini umani; ma al contempo anche quello che nel mondo vivente vi è di più caduco e transitorio se ne sta davanti a noi in modo completamente epico» (G.W.F. Hegel, Estetica cit., vol. II, p. 1235).

14 G. Lukács, Studi sul Faust, in id., Scritti sul realismo, Torino, Einaudi, 1978, v. I, pp. 339-340.

15 Lo stesso Lukács, nella Prefazione del 1948 a Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, riferisce della lettera che Mann scrisse al cancelliere austriaco Seipel per evitare l’estradizione in Ungheria del filosofo: «Conosco Lukács anche personalmente. Egli mi ha esposto le sue teorie per un’ora intera, una volta, a Vienna. Finché parlava aveva ragione. Ma dopo mi rimase l’impressione di un’astrattezza quasi paurosa» (G. Lukács, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, a cura di A. Casalegno, Milano, SE, 2005, pp. 12-13).

16 T. Mann, La montagna incantata, traduzione di E. Pocar, Milano, Corbaccio, 2018, p. 497. Sembra quasi un riferimento ai canti XI e XII del Paradiso nel primo dei quali Tommaso d’Aquino narra di Francesco d’Assisi e nel secondo Bonaventura da Bagnoregio narra di Domenico di Guzman.

17 Se Naphta è Lukács il disprezzo per la lingua latina non è del tutto esatto. Aldo Rosselli, figlio di Nello e nipote di Carlo, ebbe modo di frequentare il filosofo ungherese nel corso del viaggio di questi in Italia nel 1956. Ci racconta che, in visita al Duomo di Siena, si avvicinò a loro il parroco al quale Lukács si rivolse «in un latino classico, perfetto, quale nessun mio professore di liceo era stato capace di insegnarmi» (A. Rosselli, A pranzo con Lukács, Roma-Napoli, Theoria, 1986, p. 79). Ovviamente, disprezzare il latino non significa non conoscerlo (d’altronde Naphta era un exgesuita) ma dialogare in quella lingua fa sortire qualche dubbio circa l’accostamento con Lukács.

18 T. Mann, La montagna incantata cit., p. 497.

19 Il principale contenuto intellettuale del romanzo «è il duello spirituale fra il rappresentante della luce e quello delle tenebre […]: fra il democratico umanista italiano Settembrini e l’ebreo Naphta, allievo dei gesuiti, annunziatore di una forma ante litteram di fascismo cattolicheggiante» (G. Lukács, Thomas Mann. Alla ricerca del borghese [1948] in Id., Scritti sul realismo, a cura di A. Casalegno, Torino, Einaudi, 1978, vol. I, p. 755). Lukács era consapevole che era stato ritenuto il modello del protagonista del romanzo di Mann che, invece, era da lui presentato, come si evince dal passo citato, come un precursore del fascismo convalidando in ciò, senza, almeno si ritiene, conoscerlo, il parere di Delio Cantimori (cfr. nota 22).

20 T. Mann, La montagna incantata cit., pp. 497-498.

21 Cfr. nota 10.

22 Fra gli studiosi di Lukács chi ha maggiormente insistito sull’accostamento con il personaggio manniano di Naphta è stato Yvon Bourdet (Lukács, il gesuita della rivoluzione, Milano, SugarCo, 1979). Di ben altro avviso, invece, Delio Cantimori che scrivendo di metapolitica in una recensione del 1945 fa presente come quella tedesca derivi «dalle dottrine e ideologie dell’emigrazione russo-bianca, e dalla cerchia di discussioni del tipo di quelle fra Settembrini-Croce e Naphta-Schmitt (Der Zauberberg)» (D. Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, p. 739), prefigurando, quindi, un accostamento fra Naphta e Schmitt. Ancora prima lo storico aveva avanzato la sua ipotesi di analogia fra Naphta e Schmitt: «Nello strano miscuglio delle esperienze filosofiche e storiche che costituisce il sostrato culturale delle dottrine schmittiane, dal legittimista e papista ex massone De Maistre al duro teorico della dittatura rivoluzionaria Donolo Cortes, dal sindacalista moralista Sorel al protestante disperato Kierkegaard, da Marx a Bakunin, dagli anarchici a Lenin: tutta gente decisa, pronta a imprimere una forma con la violenza nel caos […]. In questa varietà di motivi – prosegue Cantimori – Mann per far parlare uno dei suoi personaggi più tetri che meglio aiuta a renderci conto della situazione spirituale di tanti tedeschi di ieri e di oggi, l’ebreo gesuita anarchico Naphta del Zauberberg trovò espressioni e pensieri propri di Schmitt» (D. Cantimori, La politica di Carl Schmitt, in «Studi germanici», anno I, n. 4/1935, pp. 480-481).

23 A tal proposito lo stesso Lukács si esprime nel modo seguente nel suo abbozzo di autobiografia: «Etica di sinistra insieme con gnoseologia di destra: caratteristica del marxismo conseguito in questo periodo. Teoria del romanzo come espressione di questa eclettica filosofia della storia» (G. Lukács, Pensiero vissuto cit., p. 209). Ancora nel 1933 scriverà: «Sono passati più di trent’anni da che io, ragazzo, lessi per la prima volta il Manifesto dei comunisti. L’approfondimento progressivo – sia pure contraddittorio e non rettilineo – degli scritti di Marx è diventata la storia del mio sviluppo intellettuale e quindi addirittura la storia di tutta quanta la mia vita» (G. Lukács, La mia via al marxismo, in «Internationale Literatur» (Mosca), n. 2, 1933, traduzione di U. Giammelli, pubblicato in «Nuovi Argomenti», n. 33, 1958, ora in Id., Marxismo e politica culturale, Milano, il Saggiatore, 1972, p. 15).

24 Atti degli Apostoli, XVII, 24.

25 G. Lukács, Dostoevskij cit., p. 49.

26 Ibidem.

27 Atti degli Apostoli, II, 44-45 e IV, 34-35.

28 Ivi, p. 85. Su questo punto specifico valgono le osservazioni di E. Auerbach, Dante, poeta del mondo terreno, in Id., Studi su Dante [1963, 1966, 1984], Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 3-161.

29 G. Lukács, Dostoevskij cit., p. 85.

30 E. Auerbach, Dante, poeta del mondo terreno cit., p. 143.

31 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 733-734.