
Questo complesso rapporto fra mondo e io, fra fenomeno ed essenza trova una sistemazione nei Prolegomeni a un’estetica marxista, dove l’arte è intesa come rispecchiamento della realtà oggettiva. Infatti, l’essenza è nel fenomeno il quale, mentre si manifesta, rende esplicita la propria essenza;3 in questo modo, la centralità del procedimento artistico è assunta dal particolare, dall’individuale e, proprio per questo, l’arte è molto piú vicina alla vita di qualsiasi altra manifestazione umana: «L’arte dunque rappresenta la vita cosí come essa è realmente, proprio nella sua struttura reale e nel suo movimento reale».4 Non può essere sottovalutata, anche in questo contesto, la presenza hegeliana; è Hegel infatti ad individuare la particolarità dell’elemento estetico nella manifestazione dell’essenza nel fenomeno di modo che il rapporto fenomeno-essenza diviene un dato immediato, una intuizione sensibile e non concettuale. Di qui ad arrivare alla conclusione strettamente hegeliana che «l’estetica rappresenta il manifestarsi dello spirito assoluto sul piano dell’intuizione»5 il passo è breve.
Se l’arte, come ritiene Lukács, rispecchia e plasma la realtà, l’artista dovrà necessariamente prendere posizione rispetto alle lotte storiche del suo tempo, dovrà necessariamente fare riferimento alla «rappresentazione di una realtà obiettiva, con le sue forze effettivamente agenti, con le sue reali tendenze di sviluppo».6 Ciò non significa che, automaticamente, è progressista l’opera d’arte di chi professa idee progressiste, bensì è progressista solo l’opera d’arte di chi sa rappresentare realisticamente la realtà, il nesso fondante e dialetticamente proficuo, secondo Lukács, di fenomeno e di essenza:
La difficoltà di realizzazione di un’estetica marxista, osservando il problema dal punto di vista lukácsiano, è nell’aporeticità di penetrare un orizzonte finale che, con il ricorso continuo a Hegel, invece di aprirsi sembra chiudersi, restringersi, tornare indietro fin sulla soglia dell’intuizione sensibile trascurando quasi totalmente il rapporto tra giudizio storico e giudizio estetico.
Qual è allora il nodo da sciogliere? Il nesso fra la storicità della poesia e la sua eternità. A questo livello diventa emblematica la riflessione di Lukács su Dante che si colloca in rapporto ad un nodo centrale, soprattutto nella fase giovanile del filosofo ungherese, ossia il nesso fra epopea e romanzo. Non va dimenticato come, redigendo, fra il marzo del 1915 e l’agosto dello stesso anno, le note che rappresentano l’embrione di un libro mai scritto su Dostoevskij (in una lettera del 2 agosto del 1915 indirizzata a Paul Ernst da Heidelberg, Lukács scriveva: «Ho interrotto un libro su Dostoevskij, che era troppo grosso. Ne è uscito finito un grosso saggio: Die Ästetik des Romans», ossia la Teoria del romanzo che, perciò, può essere definita la prima parte completa del mai terminato libro sull’autore russo), Lukács si fosse interrogato sul significato di transizione che l’opera dantesca assumeva nel passaggio dalla epopea al romanzo.8 In questi appunti l’avvicinamento dello scrittore russo al poeta italiano consente di comprendere che «nei due universi le anime vivono la loro propria vita sostanziale, indipendentemente dalla soggettività narratrice».9 All’epoca della stesura delle note su Dostoevkij e della Teoria del romanzo esisteva già la traduzione in ungherese dell’Inferno di Dante ad opera di Mihály Babits (1883-1941) che cominciò a tradurre la Divina Commedia e nel 1913 pubblicò l’Inferno (A Pokol), nel 1920 il Purgatorio (A Purgatórium), nel 1923 il Paradiso (A Paradicsom) [va fatto presente che, peraltro, esistevano già le traduzioni in tedesco del poema dantesco ad opera di Karl Friedrich Kannegiesser (1781 – 1861) e di Adolf Friedrich Karl Streckfuss (1778 – 1844) nonché quella di Giovanni I di Sassonia (1801 – 1873), con lo pseudonimo di Philalethes, alla quale il giovane Lukács si può ritenere abbia fatto ricorso ancor prima della traduzione nella lingua del suo paese di origine, vista la presenza del testo nella biblioteca del filosofo, secondo quanto è possibile apprendere dall’edizione critica del Manoscritto-Dostoevskij]. Puntualmente Lukács trae dalla lettura del poema dantesco alcune riflessioni appuntate nel libro mai realizzato su Dostoevskij. Ad esempio la nota intitolata Cerimonia e Interiorità, che chiude una serie di appunti su Dante che rimandano alla lettura del testo di Vössler, La Divina Commedia studiata nella sua genesi ed interpretata (1907-1910), la quale nota fa riferimento ad un canto preciso del poema dantesco; appunta Lukács: «Zeremonie und Innerlichkeit (Absolution). Guido v. Montefeltro. Inferno XXVII 118ff. Dazu Römer II 25» [traduzione italiana, «Cerimonia e Interiorità (assoluzione) Guido da Montefeltro. Inferno, XXVII, vv. 118 sgg. Su ciò Rm 2, 25»].10 Guido da Montefeltro, capo dei Ghibellini romagnoli, astuto e privo di scrupoli, protagonista del Canto XXVII (consiglieri fraudolenti, VIII bolgia, VIII cerchio) si era convertito da vecchio ed era entrato nell’ordine dei francescani. Narra la leggenda che papa Bonifacio VIII lo avesse invitato alla sua corte per chiedergli consiglio su come domare i ribelli Colonnesi e conquistare Palestrina che era la loro roccaforte. Ottenuta dal papa la promessa di essere assolto in anticipo dal peccato che stava per commettere, Guido fornì il consiglio fraudolento. Al momento del trapasso, Dante immagina che la sua anima sia contesa fra San Francesco e il diavolo. Quest’ultimo, definendosi “loico” (logico), si impadronisce dell’anima di Guido, che sta raccontando la vicenda a Dante e a Virgilio, usando un argomento che rimanda al principio di non contraddizione:
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente (Inferno, Canto XXVII, vv. 118-120)
a) Oriente: l’altro (Gli altri: anche il nemico) sei Tu; perché io e Tu siamo un’illusione.
b) Europa: fratellanza astratta: fuga dalla solitudine. L’altro è il mio “concittadino”, il mio “compagno”, il mio “compatriota” (non esclude l’odio razzista e classista etc., anzi lo favorisce).
c) Russia: l’altro è mio fratello; quando trovo me stesso, in quanto trovo me stesso, trovo l’altro. “Un vero russo, […] diventare veramente russo […] significa forse diventare un fratello di tutti gli uomini”.12
A proposito di astrazioni concettuali, considerato che in questi termini ne valuta i ragionamenti Thomas Mann, è da proporre una riflessione dedicata a quello che può essere definito il “Naphta dantista”. È noto che lo scrittore tedesco, per il gesuita personaggio de La montagna incantata, si sia ispirato proprio a Lukács che aveva incontrato una volta a Vienna nel 1922.15 Fra le innumerevoli discussioni fra Naphta e Settembrini, nel corso del romanzo, ce n’è una che ha come oggetto il Sommo Poeta italiano originata, peraltro, da uno scherzoso intervento di Settembrini che fa notare a Castorp che la sua Beatrice, ossia Clawdia Chauchat, scesa dal Berghof verso la pianura, non era più tornata tenendo in conto alcuno i sentimenti che Hans provava per lei. L’italiano si propone, dunque, a Castorp come una sorta di Virgilio per aiutarlo e aggiunge:
La domanda che si pone Naphta nel corso del suo duello verbale con Settembrini sembra essere la seguente: fermo restando che la grandezza di Dante non può e non deve essere messa in discussione, veramente la cultura classica, di cui Virgilio è il simbolo, ha rappresentato per i «maestri della giovane Chiesa» l’elemento da distruggere per realizzare una nuova cultura? Scrive Auerbach:
1 G. Lukács, Teoria del romanzo, introduzione di Giuseppe Di Giacomo, traduzione di Francesco Saba Sardi, Parma, Pratiche Editrice, 1994, p. 62.
2 Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Torino, Einaudi, 1976, v. I, specialmente pp. 581-583.
3 G. Lukács, Prolegomeni a un’estetica marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 196.
4 Ivi, p. 234.
5 G. Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 133.
6 G. Lukács, Scritti di sociologia della letteratura, Milano, Mondadori, 1976, p. 62.
7 G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Torino, Einaudi, 1977, p. 179.
8 La lettera di Lukács in G. Lukács, Epistolario 1902-1917, a cura di É. Karádi e É. Fekete, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 366.
9 G. Di Giacomo, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 78. Sul rapporto fra il giovane Lukács e Dante si veda U. Dogà, Dante nell’estetica del giovane Lukács, in Soggetto e redenzione. Il giovane Lukács, cura di M. Ponzi, Milano-Udine, Mimesis, 2018, pp. 191-203.
10 G. Lukács, Dostojewski. Notizen und Entwürfe, Budapest, Akadémiai Kiadó, 1985, p. 40; traduzione italiana di Michele Cometa in G. Lukács, Dostoevskij, con Postfazione di M. Cometa, Milano, SE, 2012, p. 13.
11 G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, Intervista di I. Eörsi, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 29.
12 G. Lukács, Dostoevskij cit., pp. 80-81. Lukács cita un passaggio del discorso pronunciato l’8 giugno del 1880 da Dostoevskij alla seduta solenne della “Società degli amici della letteratura russa” a Mosca in occasione dell’inaugurazione del monumento a Puskin.
13 G. Lukács, Teoria del romanzo cit., pp. 86-96. Non può sfuggire come il riferimento di Lukács sia Hegel: «in questa esistenza immutabile immette [il soggetto è il poema di qualche riga prima, ossia la Divina Commedia] il mondo vivente dell’agire e del patire umano, anzi delle gesta e dei destini individuali. Sparisce qui, di fronte alla grandezza assoluta del fine ultimo e della meta di tutte le cose, ogni singolarità e particolarità di interessi e fini umani; ma al contempo anche quello che nel mondo vivente vi è di più caduco e transitorio se ne sta davanti a noi in modo completamente epico» (G.W.F. Hegel, Estetica cit., vol. II, p. 1235).
14 G. Lukács, Studi sul Faust, in id., Scritti sul realismo, Torino, Einaudi, 1978, v. I, pp. 339-340.
15 Lo stesso Lukács, nella Prefazione del 1948 a Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, riferisce della lettera che Mann scrisse al cancelliere austriaco Seipel per evitare l’estradizione in Ungheria del filosofo: «Conosco Lukács anche personalmente. Egli mi ha esposto le sue teorie per un’ora intera, una volta, a Vienna. Finché parlava aveva ragione. Ma dopo mi rimase l’impressione di un’astrattezza quasi paurosa» (G. Lukács, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, a cura di A. Casalegno, Milano, SE, 2005, pp. 12-13).
16 T. Mann, La montagna incantata, traduzione di E. Pocar, Milano, Corbaccio, 2018, p. 497. Sembra quasi un riferimento ai canti XI e XII del Paradiso nel primo dei quali Tommaso d’Aquino narra di Francesco d’Assisi e nel secondo Bonaventura da Bagnoregio narra di Domenico di Guzman.
17 Se Naphta è Lukács il disprezzo per la lingua latina non è del tutto esatto. Aldo Rosselli, figlio di Nello e nipote di Carlo, ebbe modo di frequentare il filosofo ungherese nel corso del viaggio di questi in Italia nel 1956. Ci racconta che, in visita al Duomo di Siena, si avvicinò a loro il parroco al quale Lukács si rivolse «in un latino classico, perfetto, quale nessun mio professore di liceo era stato capace di insegnarmi» (A. Rosselli, A pranzo con Lukács, Roma-Napoli, Theoria, 1986, p. 79). Ovviamente, disprezzare il latino non significa non conoscerlo (d’altronde Naphta era un exgesuita) ma dialogare in quella lingua fa sortire qualche dubbio circa l’accostamento con Lukács.
18 T. Mann, La montagna incantata cit., p. 497.
19 Il principale contenuto intellettuale del romanzo «è il duello spirituale fra il rappresentante della luce e quello delle tenebre […]: fra il democratico umanista italiano Settembrini e l’ebreo Naphta, allievo dei gesuiti, annunziatore di una forma ante litteram di fascismo cattolicheggiante» (G. Lukács, Thomas Mann. Alla ricerca del borghese [1948] in Id., Scritti sul realismo, a cura di A. Casalegno, Torino, Einaudi, 1978, vol. I, p. 755). Lukács era consapevole che era stato ritenuto il modello del protagonista del romanzo di Mann che, invece, era da lui presentato, come si evince dal passo citato, come un precursore del fascismo convalidando in ciò, senza, almeno si ritiene, conoscerlo, il parere di Delio Cantimori (cfr. nota 22).
20 T. Mann, La montagna incantata cit., pp. 497-498.
21 Cfr. nota 10.
22 Fra gli studiosi di Lukács chi ha maggiormente insistito sull’accostamento con il personaggio manniano di Naphta è stato Yvon Bourdet (Lukács, il gesuita della rivoluzione, Milano, SugarCo, 1979). Di ben altro avviso, invece, Delio Cantimori che scrivendo di metapolitica in una recensione del 1945 fa presente come quella tedesca derivi «dalle dottrine e ideologie dell’emigrazione russo-bianca, e dalla cerchia di discussioni del tipo di quelle fra Settembrini-Croce e Naphta-Schmitt (Der Zauberberg)» (D. Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, 1959, p. 739), prefigurando, quindi, un accostamento fra Naphta e Schmitt. Ancora prima lo storico aveva avanzato la sua ipotesi di analogia fra Naphta e Schmitt: «Nello strano miscuglio delle esperienze filosofiche e storiche che costituisce il sostrato culturale delle dottrine schmittiane, dal legittimista e papista ex massone De Maistre al duro teorico della dittatura rivoluzionaria Donolo Cortes, dal sindacalista moralista Sorel al protestante disperato Kierkegaard, da Marx a Bakunin, dagli anarchici a Lenin: tutta gente decisa, pronta a imprimere una forma con la violenza nel caos […]. In questa varietà di motivi – prosegue Cantimori – Mann per far parlare uno dei suoi personaggi più tetri che meglio aiuta a renderci conto della situazione spirituale di tanti tedeschi di ieri e di oggi, l’ebreo gesuita anarchico Naphta del Zauberberg trovò espressioni e pensieri propri di Schmitt» (D. Cantimori, La politica di Carl Schmitt, in «Studi germanici», anno I, n. 4/1935, pp. 480-481).
23 A tal proposito lo stesso Lukács si esprime nel modo seguente nel suo abbozzo di autobiografia: «Etica di sinistra insieme con gnoseologia di destra: caratteristica del marxismo conseguito in questo periodo. Teoria del romanzo come espressione di questa eclettica filosofia della storia» (G. Lukács, Pensiero vissuto cit., p. 209). Ancora nel 1933 scriverà: «Sono passati più di trent’anni da che io, ragazzo, lessi per la prima volta il Manifesto dei comunisti. L’approfondimento progressivo – sia pure contraddittorio e non rettilineo – degli scritti di Marx è diventata la storia del mio sviluppo intellettuale e quindi addirittura la storia di tutta quanta la mia vita» (G. Lukács, La mia via al marxismo, in «Internationale Literatur» (Mosca), n. 2, 1933, traduzione di U. Giammelli, pubblicato in «Nuovi Argomenti», n. 33, 1958, ora in Id., Marxismo e politica culturale, Milano, il Saggiatore, 1972, p. 15).
24 Atti degli Apostoli, XVII, 24.
25 G. Lukács, Dostoevskij cit., p. 49.
26 Ibidem.
27 Atti degli Apostoli, II, 44-45 e IV, 34-35.
28 Ivi, p. 85. Su questo punto specifico valgono le osservazioni di E. Auerbach, Dante, poeta del mondo terreno, in Id., Studi su Dante [1963, 1966, 1984], Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 3-161.
29 G. Lukács, Dostoevskij cit., p. 85.
30 E. Auerbach, Dante, poeta del mondo terreno cit., p. 143.
31 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 733-734.