Per la poesia di Giovanni Raboni
Andrea Gibellini

Esistono in poesia dei ritorni che appaiono impossibili. E quando si parla di cose poetiche che possono ritornare, non ci riferiamo soltanto a una qualità della poesia, a ciò che in noi ci è pervenuto come incistato nel cuore, ma anche, e soprattutto, a un certo portamento poetico che ci ha indotto di nuovo a ripensare al poeta e al suo modo poetico. Il mio primo contatto con la poesia di Giovanni Raboni fu nel 1988. Era, infatti, uscita da poco di Raboni la sua raccolta antologica (1953-1987) A tanto caro sangue, per lo Specchio Mondadori. La poesia di Raboni, tanto per essere diretto, non mi piaceva, non entrava nelle mie corde. In pratica sovrapponevo una certa cantabilità della poesia alla poesia stessa, non distinguevo, insomma, il canto dalla poesia in quanto tale. Può darsi che questa mia idea fosse contemplata in una ipotesi da giovane poeta, ma devo altresì confessare che mi è rimasta impigliata in qualche modo al mio modo di pensare a cos’è la cosiddetta energia poetica. Intravidi pure Raboni in quegli anni proprio nel 1988 a Bologna insieme a Giudici e Giacomini per una cosa su Pasolini; ma io e altri amici eravamo più interessati a Giudici e a presentargli la nostra rivista fresca di stampa che a parlare con lui. Allora mi chiedo dopo tanti anni il perché poi è scattato questo click di interesse. Intanto si può dire che la poesia di chi leggiamo ha un suo sviluppo biologico intessuto da noi. Lo si sa, in poesia non tutto si capisce tutto e subito. Sulle prime il poeta era distante da una mia natura poetica. È molto difficile tirarsi in ballo in questi casi, ma se Raboni stava sull’oggetto, sul tema da dire (forse non tanto diverso come innesco della poesia da quella di Fortini), e dunque se Raboni sta sull’oggetto, come un faro sull’oggetto da scandagliare in ogni su variazione interiore, io ero portato subito a trasfigurarlo e così via.

In Raboni si condensa una drammaturgia della realtà fatta di molteplici sfaccettature come se le poesie fossero un condensato o essenza di fenomeni di miniature («la poesia che si fa») irradianti di verità oggettive. Questa poesia non prevede una staticità, la troppa contemplazione del suo essere poesia ma un atto performativo dentro al nucleo vitale della stessa poesia. Ciò prevede in Raboni un avvicinamento come suo atto conoscitivo a Zanzotto (e a riconoscere la sintassi a dripping nello sgocciolamento sanguinante di Attilio Bertolucci di Viaggio d’inverno). Ma ciò prevede, questa sua inesausta sperimentazione dentro alla poesia, una contaminazione efficace direi salutare fra le altre arti, penso alla musica in collaborazione con il compositore Adriano Guarnieri, ma mi viene in mente anche certa arte astratta fatta da un pensiero tangibile, a Fausto Melotti, ad esempio. Ma ciò che prova a fare con la sua poesia Raboni è non di non farsi ammaliare e conquistare, a difesa di un suo castello di sensibilità, in modo irrevocabile per la definizione del suo stile dai primi due libri di Montale, tenendo nei confronti di Montale stesso come uno scarto di stile, anzi personalizzando il più possibile il proprio modo di dire la poesia, di una poesia inclusiva (la figura di Pound è irradiante, come quella di Betocchi e Sereni), intrisa di sviluppi poetici forse non così lontana (dagli anni settanta in poi) da quella dell’amico Antonio Porta. Il vero problema, il nodo, per la sua poesia, per Raboni è Montale. Un problema per tutti persistente e che fa il paio con quello di Pasolini. A meno che non si voglia scrivere poesia senza una qualche tradizione poetica aggirando il problema. C’è un dopo Montale che si ha solo attraversando Montale. C’è un dopo Pasolini attraversando Pasolini (Fortini lo aveva inteso). Insomma, è qui il motivo di uno dei miei interessi di ritorno verso la poesia di Raboni: da una poesia letta allora chiusa in stessa (intrisa e grondante di oggetti e pensieri anti lirici, pensavo) a una poesia, invece, disponibile e come creativamente spaziosa. L’intreccio (così intese Raboni nel suo Meridiano postumo molto ben curato e documentato da Rodolfo Zucco del 2006) tra poesia e prosa critica dove l’idea di Eliot è fondante (ci sono i suoi libri sui poeti e la poesia, c’è la prosa d’invenzione La fossa del cherubino), crea nel lettore la passione di rifare quel suo percorso critico creativo attraverso una dimensione della poesia dove Eliot persiste, è un pensiero di continuo fermentante, auto meditativo, Eliot autore molto amato in gioventù da Raboni e mai smesso di amare per tutta la vita. In questo luogo di meditazione e di sperimentazione sulla poesia, un luogo per nulla non circoscritto e sempre interessante da esplorare, non va dimenticato naturalmente il lavoro di Raboni sulla traduzione (Baudelaire, Proust). Forse l’ultima cosa, o una delle ultime, fatta da Raboni sono le traduzioni delle poesie dal francese di Jean-Charles Vegliante (Nel lutto della luce, Einaudi, 2004). A chiusura del libro c’è un discorso sulla traduzione di Vegliante fatta da Raboni e al concetto più in generale di traduzione, c’è un dialogo profondo e molto interessante tra i due poeti. Qui Raboni si esprime sul concetto di «transitività» della lingua tradotta da un’altra lingua: di un qualcosa (la poesia stessa, la sua illusione?), al di là del tema, della musica, di quella particolare poesia, che nonostante tutto durante questo transfers rimane come reale miraggio che resiste e come si estende nella lingua d’arrivo, nella circostanza del suo oggetto specifico.

Il mio ravvicinamento guardingo in pratica è avvenuto nella rilettura-scoperta del suo terzo libro Nel grave sogno, che a mio avviso rappresenta il suo migliore. Per quella sua commistione di realtà fattuale (sentita, reale) legata in modo indissolubile a una dimensione come fantasmatica ma che insieme empaticamente feriscono Dice una sua poesia, la prima che apre il libro: «Uno, chissà perché, con la coperta / sulle ginocchia: a un sole d’inverno, di scarsa primavera…». Mi pare che da Le case della Vetra Raboni parli già in poesia con una voce sua, con una concreta sua musica interiore. Da Montale a Pound a Eliot queste letture e immedesimazioni sono come assorbite in una tonalità che richiama in un accenno come il documento di una lingua poetica parlata e di una sua reale facoltà di esistere nella poesia. In questa sua performance di lingua assorbita e meditativa per Raboni i suoi oggetti rappresentano i fatti di una condizione esistenziale. La sua disillusione leopardiana tenendo a freno ogni possibile euforia lirica, sembra dire la possibilità della poesia come gioia dell’istante. Talvolta, e lo sembra per davvero, la sua frase poetica sembra essere una frase scaturita da una sorgente inaspettata, a fronte nella medesima frase di un autocontrollo quasi esasperato della volontà del suo dire. Perché in poesia Raboni cerca la massima intensità nella tonalità del parlato, in una sintesi per fotogramma del suo sentire attraverso una particolare situazione che lo ha in modo indelebile (ecco l’insegnamento di Sereni) colpito nel suo profondo. Questi fatti-oggetti in Raboni sono allegorie più ampie: la sua città Milano diventa trascritta in più infinite città al quadrato. Non so se da Eliot Raboni abbia captato un certo modo di rendere la poesia impersonale. Di certo il nome e cognome del poeta che scrive poesie, attratto dalle sue stesse sembianze così personali in ininterrotta confessione, hanno al loro interno, queste poesie-sonda, una capacità di trasformare l’io del poeta in uno strumento oggettivo e non sentimentale. Dal personale più intimo fino a giungere a una «impersonalità» del fatto della poesia. La poesia di Raboni non è una constatazione dei fatti-oggetti ma una constatazione ed equilibrio formale di condensazioni di fatti-oggetti provenienti da luoghi altri onirici o che stanno accanto a una qualche forma di allucinazione che può essere in poesia vera (è il discorso che a me interessa della poesia di Raboni). Il tema del colloquio, ad esempio, avrà sempre più successivi sviluppi sulla frase della poesia estendendosi in molteplici toni legati alla trasformazione di questa esperienza (l’incontro, le voci, i pensieri, il non detto) in poesia. Ricordo che è stata la raccolta del 1993 Ogni terzo pensiero a farmi entrare in modo decisivo nella sua poesia. In particolare un breve poème en prose che fa così:

Gli alberi agonizzanti nel girello slabbrato che li imprigiona gonfiano l’asfalto con lo spasmo delle radici fra il chiosco dei giornali e quello della benzina. Lì compariva la neve; e il tratto di cielo che scavalca via Settembrini ne dimorava bianco fino alla seconda o alla terza domenica d’aprile.

Nel corso della sua vita da scrittore in versi Raboni con una certa tenacia riesce a portare la sua poesia ai confini del novecento senza essere un poeta per imitazione dei suoi maestri (di Montale in particolare, del primo Montale come si è accennato). Per fare un altro breve esempio. Altro caso non troppo diverso da Raboni è quello di Bandini (nato nel 1931 un anno prima di Raboni), compiendo un tragitto simile a quello di Raboni vicino anch’egli alla luce abbagliante e un poco bruciante di maestri e amici come Montale e Sereni. Se Raboni entrava nel fenomeno poesia cercando di cavarne dal fatto-oggetto specifico immagini come un senso della realtà attraverso il suo fenomeno, Bandini crea una propria lingua nell’includere una situazione di verità con elementi classici (la lingua latina) come idea della poesia come sopravvivenza. Tutti e due ancorano i loro versi in un uno statuto estremo: il metodo del sonetto si assorbe nella loro voce poetica, la musica sta dentro la costruzione della poesia con riverberi armonici non scontati, tra una realtà che esiste costituendo nella composizione della poesia un’altrettanta lontananza estrema (di nuovo intravista come attraverso uno spiraglio onirico?). E dunque ancorare, agganciare, i propri versi, renderli tangibili, in una dimensione a contatto con cose reali, i cosiddetti fatti, che li hanno in modo così perentorio attraversati. La parola determinante, infine, per la poesia di Raboni credo che sia tangibilità, in una concretezza, per essere chiari, non buttata lì (la parola realtà non è un passaggio obbligato per ogni cosa che si vuole dire in poesia, ma la realtà per chi scrive è prima di tutto una condizione interiore), ma una realtà trascinante e come fremente, palpitante quanto insofferente, di tante altre realtà anche non volute, con rispondono a nuove e intime possibilità. E allora la poesia di Raboni è un mettersi alla prova per risentire la consistenza della poesia, il suo sostrato innegabile come il suo innegabile presagio, e nel suo modo di essere una poesia proprio fatta così.