Paolo Buchignani,
La spilla d’oro
Giacomo Magrini

Paolo Buchignani, La spilla d’oro. Memorie da un secolo sterminato, Roma, Arcadia Edizioni, 2024.

La spilla d’oro di Paolo Buchignani è perfettamente bilanciato tra storia e romanzo, fra racconto storico e racconto romanzesco. Il periodo narrato va dalla prima guerra mondiale ai nostri giorni. Il sottotitolo recita: Memorie da un secolo sterminato. Ma qui, subito, accade uno scambio di qualità, un incrocio, un chiasmo. Da una parte, alle vicende private vengono dedicate l’acribia, l’esplicitezza, la sobrietà, la probità, la minuta responsabilità tipiche dello storico di vaglia (Buchignani è un importante e affermato contemporaneista) e del suo lavoro scritto. Dall’altra, le vicende pubbliche, la storia, quella storia, è un fantasma privato, è, secondo le parole di Stephen Dedalus verso la fine del secondo capitolo dell’Ulisse, «un incubo dal quale sto provando a risvegliarmi», «memorabile definizione – scrive Enrico Terrinoni – destinata a rimanere nell’immaginario collettivo della cultura occidentale».

La spilla d’oro è il frutto di questo risveglio; del risveglio ha, per usare un’espressione leggermente ossimorica, la pesante freschezza, una freschezza conquistata, per così dire, palmo a palmo.

È la freschezza della nascita, del nascere. Infatti, c’è una grande pagina, subito all’inizio, pagina 23, nella quale viene raccontato il tentativo di un nobile di corrompere la levatrice Casimira per ottenere un aborto. Tentativo sdegnosamente e clamorosamente rintuzzato. Parimenti battagliera la figlia di Casimira, Esterina, nonna del protagonista Lapo. E anche qui, di nuovo, in relazione alla nascita:

Loro, le Tabaccone, erano state sconfitte, non avevano ottenuto quello che era giusto, ma avevano perso con onore, piegate soltanto dalla forza bruta. E poi, qualcosa, in realtà, erano riuscite a strappare a quei prepotenti della Direzione: l’incunabolo con trenta culle, venti lettini, e il permesso per le madri di allattare i figli due volte al giorno. (p. 49)

È Buchignani stesso a dire molto bene l’importanza della nascita nella bandella di copertina: «Ecco allora il richiamo alle origini familiari e sociali, ecco la necessità di confrontarsi con un mondo e una vicenda, quella del Novecento, che Lapo ha indagato da studioso di storia, ma non come figlio di suo padre e sua madre» (corsivo mio). Il tema della nascita acquista tanto più peso e forza in quanto si campisce sullo sfondo di un secolo in cui, volta per volta, sarebbe stato meglio non nascere.

Ma, oltre all’aspetto tematico, c’è di più, molto di più.

I cinquantasei capitoli (preferirei chiamarli: sfaccettature), ognuno provvisto di titolo, di cui si compone il libro, sono essi stessi, rappresentano essi stessi, un continuo, ininterrotto nascere, giustamente diversificato, cioè più e meno lungo e laborioso. Come pannelli solari diversamente orientati, raccolgono e rimandano una intensa, quieta luce.

Una spia formale di questa costante nascita la vedo nella frequente posposizione del soggetto grammaticale. Giusto il tempo, difficilmente calcolabile, in cui un soggetto, il soggetto, viene alla luce.

Ho scritto ora e poco sopra la parola “luce”. Tutta la narrativa di Buchignani è investita dalla luce, vi domina midi le juste. Non vi sono ombre. Anche la spilla d’oro rientra in questo ambito e, risalendo nel tempo, il titolo del libro del 2008 Solleone di guerra, dove mi colpisce e mi piace l’uso del termine “solleone”, normalissimo e al tempo stesso con qualcosa di antico. Ma questa assenza di ombre è meno un fatto meteorologico e atmosferico che l’indicatore di una posizione etica e testuale.

La contrapposizione ombra vs luce risulterebbe facile e semplificante metafora della contrapposizione fascismo vs antifascismo. Proprio perché quest’ultima è il tema pervasivo del libro, Buchignani preferisce evitarla, in quanto introdurrebbe quel moralismo postumo, da lui stesso criticato e combattuto, ostile sia alla storia sia al romanzo. Al suo posto, un’illuminazione equanime dei due termini della contrapposizione.

In che modo avviene e si compie tale illuminazione equanime? Precipuamente attraverso le citazioni letterali e integrali dei tanti discorsi che si accompagnano alle azioni, e che le eccedono. In effetti, un paradosso attraversa, innerva e sostiene l’intero libro. Un paradosso, secondo me interessantissimo, fecondo e vitale.

Le citazioni, data la loro indubbia verità, dovrebbero incrementare, se non addirittura fondare, il tenore storico. E invece, è il contrario che accade: esse incrementano, o addirittura fondano, il tenore romanzesco. Come è possibile?

La citazione è della lettera, quindi della carne; è integrale, quindi rimanda alla e designa la totalità. Carne e totalità sono del dominio del romanzesco, non dello storico. Al tempo stesso, sono impensabili senza il lavoro dello storico.

Mentre facevo queste riflessioni, mi è tornato alla memoria un saggio di Adorno, intitolato Discorso su un feuilleton immaginario, del 1963. Ne trascrivo alcune frasi, che hanno secondo me rapporto e consonanza con la temperie del libro di Buchignani:

Il breve testo che ho scelto è un pezzo di prosa autonomo e tuttavia non lo è. Si trova nelle Illusioni perdute

Il brano di prosa è una recensione riprodotta nel mezzo della narrazione, e a dire di Balzac il primo articolo di Lucien

Balzac si distingue da romanzieri di secondo piano già solo per il fatto che non si mette a far chiacchiere sulla terza pagina bensì la compone.

Come un compositore con la prima battuta firma un contratto cui egli ottempera attraverso la conseguenza, così Balzac onora il contratto epico: non dire nulla di cui non si dia notizia. Perfino lo spirito diventa narrazione.

“Balzac sa che, contrariamente a quanto dice l’estetica ufficiale, l’esperienza artistica non è pura; che essa non può esserlo se deve diventare esperienza.”

Prima che il romanzo naturalistico mancante di riflessione propriamente si consolidasse sul piano della storia della letteratura, Balzac, che viene annoverato fra i naturalisti e che sotto molti aspetti fu anche un realista, ha fatto saltare l’immanenza compatta del romanzo già attraverso l’inserzione della recensione.

Quello che per concludere vorrei dire è che, nella Spilla d’oro, non avviene propriamente la fusione a dir così nuziale di storia e romanzo, bensì qualcosa che possiamo definire mutuando un titolo dello scrittore, anch’egli toscano, Mario Luzi, e cioè Al fuoco della controversia: Buchignani ha messo e provato la storia al fuoco del romanzo, il romanzo al fuoco della storia.