Miklós Radnóti è una delle voci più interessanti del panorama poetico ungherese del Novecento. Nato e cresciuto in una colta famiglia di tradizione ebraica di Budapest, finirà vittima delle persecuzioni naziste nel 1944, a trentacinque anni: dopo varie convocazioni ai lavori forzati in Ungheria, viene prima deportato in Serbia (in un lager nei pressi di Bor) e poi scortato con altri deportati verso la Germania; nel corso della marcia a piedi, come molti altri prigionieri perde ogni forza fisica. Dalla fossa comune in cui vengono fucilati, vicino ad Abda (non lontano dal confine ungherese con l’Austria), verrà rinvenuto qualche anno più tardi un taccuino in cui il poeta aveva scritto le sue ultime poesie nel periodo trascorso nel lager serbo e durante la marcia. Radnóti restò letteralmente poeta fino alla fine. Come sottolinea la traduttrice Andrea Rényi nella prefazione a Il mese dei gemelli, la bellezza degli ultimi versi del poeta in qualche modo «smentisce la tesi comunemente sostenuta ancora negli anni Sessanta che la letteratura dell’antifascismo avesse prodotto solo testimonianze documentarie, non anche opere letterarie vere e proprie» (p. 10).
Il mese dei gemelli. Diario sull’infanzia, tradotto in questo volume da Rényi, è in realtà un testo in prosa, l’unico di una certa lunghezza scritto dall’autore, pubblicato inizialmente nel 1940 e poi riedito ben diciotto volte in Ungheria. Si tratta della prosa di un poeta, dunque lirica, da un gusto espressionista non scevro di influenze proustiane. Al centro vi è una riflessione per sequenze, spesso tra loro legate per immagini, rumori e associazioni, sul passato dell’io e sulle difficoltà di venire a patti con esso, di assimilarlo, di comprenderlo. Dalla Parigi della maturità i soli «ronzii» riportano, ad esempio, all’infanzia (centro nevralgico dell’intero testo), alla malattia e poi morte del padre:
Mi alzo, bevo un bicchiere d’acqua, esco sul balcone; stanotte il vento ha sradicato quasi del tutto una petunia, la interro di nuovo, mi lavo le mani, scappo… poi però mi risiedo al tavolo, ascolto. Sento il ronzio delle mosche, tante mosche svolazzano intorno a me. […] Sventolo con il grosso ramo del noce, scaccio le mosche dal viso di papà, non mi giro di lato ma sento ugualmente che qualcuno ci sta spiando attraverso le fessure della tenda. Pista e Feri mi stanno aspettando, vogliono giocare. (pp. 35-36)
Il volume pubblicato quest’anno da Infinito riporta in conclusione anche una selezione di poesie tradotte nel 1995 dalla coppia di poeti e traduttori italo-ungheresi Marinka Dallos e Gianni Toti. Questi versi (riportati nella presente edizione con testo originale a fronte) raccolgono i temi chiave della poetica di Miklós Radnóti. Tra di essi vi è quell’«unione armoniosa fatta di naturale tenerezza, di rispetto reciproco e di intesa erotica”» (dalla prefazione di Andrea Rényi; p. 8) incarnata dalla relazione con l’amatissima moglie Fanni e tradotta, ad esempio, nei versi di Fiore («Sei andata via appena adesso ma già di nuovo ammirerei / sopra la tua caviglia la cara / ben nota vena azzurra»; p. 71). Vi è poi il senso di comunione di sensibilità artistica e umana con altri poeti vittime della barbarie umana, come un giovane autore nero bastonato a morte nel 1932 a New York: «John Love, fratello mio […] // hanno voluto uccidere / in te la poesia […] // John Love, noi abbiamo lavorato insieme, / e sono anch’io, come te, paralisi e vortice. // Il pane, l’uva, i pascoli, il latte, / applaudono perché l’uno all’altro ci inchiniamo» (pp. 79-81).
Certamente c’è la morte (o, piuttosto, le morti) tra i nuclei narrativi e le immagini più ricorrenti nell’opera di Miklós Radnóti ed è essa a legare tematicamente le poesie raccolte nel volume e la prosa di Il mese dei gemelli, che si conclude nei versi: «Morto è già il petalo che volteggia / quando inizia la caduta? / Oppure muore quando tocca terra?» (p. 50).
Il volume si inserisce nella collana «Mansarda» della casa editrice, curata da Anita Vuco – esperta dell’opera di Danilo Kiš (autore non a caso di un’opera omonima: Mansarda, 1962) — e dedicata alla «bibliodiversità» (p. 93), attraverso la quale la curatrice intende dare il giusto spazio a quelle letterature ancora poco note del panorama europeo e ingiustamente ritenute minori. Il fatto che la collana si apra proprio con questo volume — per proseguire poi con il croato Zoran Žmirić e un altro ungherese, Ferenc Molnár — non pare casuale, visto l’impegno di Kiš nei confronti della cultura ungherese e della poetica dello stesso Miklós Radnóti.