I porti e le epidemie
Gli schiavi delle proprie libertà
Sergio Bologna

Nella lunga storia delle epidemie che hanno flagellato l’umanità le città portuali hanno da sempre svolto un ruolo centrale, sia come focolaio da cui si è irradiato il morbo, sia come insieme di misure prese per circoscriverlo e combatterlo. I due esempi più illustri forse sono Venezia e Odessa. E sono due esempi particolarmente significativi perché nel 1630 a Venezia e nel 1811 a Odessa non esistevano certo i vaccini e quindi tutte le speranze di poter sopravvivere e di poter continuare ad essere città prosperose nei commerci erano affidate alle misure restrittive imposte dal governo della città ma soprattutto e ancor più al senso di responsabilità e di disciplina dei singoli, il che non esclude la libertà di giocare con la morte, contravvenendo agli obblighi imposti dall’autorità. Una licenza questa che potevano concedersi perlopiù i privilegiati appartenenti alle classi aristocratiche e borghesi, come emerge da quello straordinario epistolario del conte Auguste de la Garde, rimasto intrappolato a Odessa mentre da Mosca stava tornando a Vienna. Come avranno vissuto invece quelli che non potevano disporre degli stessi privilegi, i poveri, gli artigiani, i facchini, i venditori ambulanti, le prostitute e tutto quell’universo proletario e sottoproletario che popola da sempre le città portuali? È pensabile che siano rimasti tappati in casa? In quali case? In che condizioni igieniche?

A Odessa gli storici concordano nel dire che il morbo venne dal mare, da una nave che fu, per prevenzione, bruciata assieme a tutto il suo carico. Esaltano l’azione energica svolta dal nipote di Richelieu, governatore della città, e dall’abnegazione del suo impegno personale nel far osservare scrupolosamente le drastiche misure restrittive alla circolazione di uomini e merci. Ma dimenticano forse di dire che la peste, sconfitta nel 1812, si è ripresentata a più riprese in seguito e allora come non pensare alle condizioni igieniche spaventose in cui versavano certi quartieri come la Moldavanka, culla del sionismo di Jabotinsky?

A Venezia invece, città superattrezzata per affrontare le epidemie, la prima a istituire i lazzaretti, da secoli dotata di autorità sanitarie preposte al contrasto delle epidemie, andò diversamente. Non fu dal mare, pare, che si trasmise il morbo ma da una missione diplomatica giunta da Mantova per chiedere aiuto dall’assedio dei lanzichenecchi. La reazione del governo dogale fu l’opposto di quella che avrebbe adottato Richelieu due secoli dopo. Confortato da una dichiarazione di medici che negavano l’esistenza del morbo, tardò a prendere iniziative e quando si mosse era troppo tardi. Lo stesso avvenne a Milano, come Manzoni scrive in pagine indimenticabili. Fu la preoccupazione di bloccare i commerci quella che spinse le autorità a Milano e a Venezia nel Seicento a negare l’esistenza del morbo?

Perché ho fatto questi esempi? Perché mi chiedo, nel successo o meno di un’azione di contrasto all’epidemia, fino a che punto conta la tempestività e la qualità delle misure restrittive, fino a che punto l’organizzazione preesistente del sistema sanitario, fino a che punto lo stato dell’igiene pubblica, fino a che punto la mobilità transfrontaliera delle persone e delle merci e fino a che punto la responsabilità e i comportamenti dei singoli.

Oserei dire che il peso dei primi quattro fattori è rimasto uguale in epoca pre-vaccino e post-vaccino, quindi il 2020 non è molto diverso dal 1630. Ciò che è cambiato, ciò che in tutte le altre epidemie non ha avuto uguali, ciò che rappresenta un cambiamento epocale, è nel comportamento dei singoli. Da questo punto di vista la pandemia ci ha fatto capire che siamo veramente entrati in una nuova era dell’antropocene. È esagerato dire che la mente umana è cambiata?

Le mente cos’è se non l’insieme dei processi conoscitivi e di apprendimento, sulla base dei quali essa determina i comportamenti? A me sembra che l’accesso alle informazioni prodotto da Internet e l’accesso alla comunicazione prodotto dai social siano di natura e di misura tali da modificare profondamente i processi conoscitivi e di apprendimento, cioè la materia prima delle dinamiche di comportamento. Se non altro per ragioni banalmente quantitative di unità d’informazione per unità di tempo necessario a procurarsela. Questo ha aumentato a dismisura il senso di autonomizzazione del soggetto e dunque l’individualismo, che non riconosce l’autorità (se non quando essa si esercita in maniera coercitiva) e disprezza profondamente tutto ciò che rappresenta “un bene comune”, come il servizio pubblico. L’accesso illimitato all’informazione consente all’individuo di farsi una sua filosofia, una sua scienza, una sua medicina, una sua igiene personale, una sua storia del Novecento – cioè un suo sistema autarchico di conoscenze – ed è disposto a crederci, a costo di rimetterci, contro le opinioni degli addetti ai lavori. Perché dovrei dare retta a quel famoso scienziato del telegiornale quando ho trovato su Internet uno che dice tutto il contrario? La verità su Internet la cerco da me, la verità del telegiornale me la propina il governo. Perché dovrei costituire un’organizzazione formale, un’associazione, un partito, mettendoci degli anni, quando basta un appello fatto passare per i social per convocare con successo una manifestazione di migliaia di persone? Che bisogno c’è di sindacati, di rappresentanze, alle quali delegare le mie volontà? Perché devo cedere a terzi la mia autonomia e pure pagare a loro i soldi per una tessera? Sono loro che dovrebbero pagare me. La struttura mentale, la mentalità, può cambiare anche quando cambia profondamente l’organizzazione del lavoro.

Quanto ha contato, in questa trasformazione della mente, il passaggio da un lavoro che richiedeva skill – nel fordismo e tutto sommato anche nel postfordismo – al lavoro della gig economy, dove non è chiaro di quale skill hai bisogno, finché ti accorgi che l’unica cosa che ti è richiesta è la flessibilità totale, cioè una risorsa puramente emotiva, psicologica? Biolavoro appunto. E ancora: l’iper-skill del digitale non è sua volta qualcosa che allontana a tal punto dalla realtà da lasciarti smarrito di fronte all’imprevedibilità del quotidiano, di fronte a un reale che sembra sempre più irreale (penso al cambio di passo delle catastrofi naturali)?

Queste domande non me le pongo in riferimento ai No vax o ai negazionisti, ma in riferimento semmai ai milioni di vaccinati (per convinzione o per forza) che dimostrano, soprattutto nella fascia d’età dai 20 ai 30, una sostanziale indifferenza al contagio. I giornali hanno mostrato scandalo per i cortei anti-Green Pass perché pochissimi partecipanti portavano la mascherina. Ma le centinaia di migliaia di ragazzi seduti al bar, talvolta stretti come sardine, senza mascherina, da marzo/aprile di quest’anno in poi (tanto per scegliere un riferimento a quo) non li hanno mai visti? E le discoteche, se non le chiudevano, non sarebbero state piene di gente senza mascherine stipata come prima? Al massimo un paio di ragazzi dietro al banco l’avrebbero indossata.

“Ragionare con la proprio testa” è stato sempre considerato segno di grande discernimento, qualità delle persone più avvedute, più dotate di spirito critico. Oggi a me sembra che sia diventato sinonimo di un ragionare “alla cazzo di cane”, capacità di produrre Weltanschuung individuali, cioè non opinioni specifiche (giuste o sbagliate) su un determinato problema, ma visioni del mondo fai-da-te, sostituendo ideologie, fedi, filosofie, cioè costrutti complessi, con, magari, una notizia beccata a caso su Internet oppure una pratica del corpo, insomma con qualcosa d’inconsistente sul piano conoscitivo. E trovo che questo individualismo in definitiva porti a una condizione di subalternità peggiore di quella che Canetti descriveva in Massa e potere come effetto di appiattimento e omologazione prodotto dei totalitarismi. Non è un caso che l’estrema destra di oggi non predica ordine e disciplina (meno libertà) ma esalta l’individualismo di chi non rispetta nessuna regola (massima libertà).

Questa condizione umana del secondo millennio, questa nuova fase dell’antropocene, mi sembra che rappresenti nella battaglia contro il Covid-19 l’incognita più forte, il rischio maggiore, forse più del moltiplicarsi delle varianti del virus. Perché mina alla base il concetto stesso di disciplina collettiva e di “sforzo comune”, che sono necessari per uscire dall’incubo. E che sono stati decisivi anche quando i vaccini non esistevano.