Massimo Onofri,
Fughe e rincorse.
Ancora sul Novecento

Gabriele Fichera

Il critico è un lettore cosciente di se stesso. E che si osserva nell’atto di leggere la vita, propria e altrui. Come Don Chisciotte, come Amleto. Personaggi che diventano sempre più veri man mano che si riflettono, e si comprendono, in finzioni al secondo grado di cui sono protagonisti. È la critica, ovunque essa alligni, e in qualsiasi sua forma, a rendere dunque vera la letteratura. Questo paradossale assioma mi sembra il nucleo centrale di un libro volutamente senza centro, e addirittura contro la stessa idea di centro, come il recente Fughe e rincorse di Massimo Onofri (Inschibboleth, 2019). Il principio dell’unità inscindibile fra vita e opera sorregge strutturalmente i vari saggi qui riuniti. Contro Proust e con Garboli, si potrebbe sintetizzare. E per un’ipotesi di letteratura “elzeviristica” che rifiuta ogni normalizzazione anche culturale, oltre che estetica. Ogni degradante reductio ad unum. Onofri pone con forza un’opzione che vada oltre la centralità dittatoriale e posticcia del “romanzo” e di una scrittura finzionale molto spesso asservita a logiche mercantili. E abbraccia un saggismo spurio, divagante, mescidato, felicemente divaricato fra fantasia ed esattezza, capace di rispondere a un certo «deficit di realtà e concretezza, se non di verità», che affligge ampie zone della nostra letteratura. Il critico individua una precisa linea di filiazione storico-culturale che prende le mosse da Guicciardini e dal suo concetto di «discrezione», da intendere come l’arte di coniugare distinzione e sensibilità per la varietà del reale. Quest’ipotetica tradizione passa per il Leopardi delle Operette e dello Zibaldone e per la Colonna infame di Manzoni, giungendo fino al Cecchi dei Pesci rossi e allo Sciascia dell’Affaire Moro – e magari, aggiungerei, al Bilenchi di Amici (1976), felicemente stregato dalla scrittura cronachistica. Dicevamo L’Affaire Moro: libro da collocarsi al grado più alto dello sciascismo, e letto non a caso da Onofri come densissimo apologo sulla critica letteraria e sul tema dell’interpretazione. In esso infatti filologia della vita e invenzione del vero vanno a braccetto in modo esemplare. L’obiettivo esplicito di Onofri è quello di contribuire, davvero sciascianamente, a una ridefinizione dei rapporti fra letteratura e verità. Ma la traccia feconda dell’incrocio fra realtà, concretezza e letteratura viene inseguita da Onofri anche in quelle scritture scientifiche post-galileiane che già nel Seicento avevano messo da parte ogni ideologia del reale come mero dato da misurare solo quantitativamente. In questo senso, e assumendo come faro e immaginario punto d’approdo il Goethe della Teoria dei Colori (1810), vengono recuperati scienziati-scrittori dei secoli passati come Francesco Redi, Lorenzo Bellini, Lorenzo Magalotti, i quali non avrebbero fatto altro che «recuperare alla scienza e alla letteratura, che per loro erano il medesimo, quel vissuto, quell’esperienza concreta, la natura viva delle cose, insomma quell’Erlebnis, che il rigore matematico copernicano-galileiano-newtoniano aveva bandito, se non rimosso, perché refrattari a ogni quantizzazione». È come se l’adorniana dialettica dell’illuminismo proiettasse per un attimo all’indietro la sua perturbante ombra mitologica sulle fondamenta del pensiero razionale che sta alla base della modernità.

Rifiutare dunque la fittizia centralità di idee ricevute e luoghi comuni è uno degli imperativi del libro. Il tema della “fuga” è contemporaneamente oggetto d’analisi e forma che struttura la riflessione critica. La fuga è osservata ad esempio in Soldati, e in particolare nel racconto La finestra (1950), in cui il protagonista è un Don Giovanni molto pirandelliano, un sodale di Mattia Pascal, a cui fortunatamente manca «la passione per il catalogo». Proprio il catalogo: questa sorta di correlativo oggettivo della tensione “galileiana” verso un reale razionalizzato in senso solo quantitativo, dunque impoverito. La fuga in Onofri è sinonimo di libertà e di sguardo obliquo sulle cose, coniugati a responsabilità ed analisi esatta del mondo in cui si vive. Soldati diventa così un suo specchio, in quanto scrittore al tempo stesso della fuga e della maturità, che rifiuta ogni «complesso di Enea» – un altro personaggio in fuga, ma che finisce per essere schiacciato dal peso dei suoi Penati familiari.

La solidarietà strategica fra etica e letteratura comporta in Onofri anche nette prese di posizione civili e militanti. La libera maturazione di Soldati si oppone dunque alla «puerilità monumentale», generata dall’oppressione totalitaria e tipica dei regimi fascisti – siamo al saggio sull’Alvaro di L’uomo è forte (1938). La diffusione planetaria e globalizzata del genere giallo, rivisitato spesso in modo piatto e aproblematico, si ricollega al regressivo trionfo di un «monoculturalismo cristiano, onnipervasivo» che ripropone «un’idea di natura di tipo normativo e impositivo», i cui gangli sono rappresentati ancora dai concetti di «eterosessualità, famiglia, monogamia». Un’altra idea ricevuta contro cui prendere posizione è quella basata sulla «egemonia dell’autonomia del significante e della letteratura come menzogna». E infine, la serietà con cui viene declinata la simbiosi fra vita e opera si riflette nel sarcasmo polemico, addirittura sferzante, con cui vengono attaccate certe forme degradate di dannunzianesimo di massa, che quel nesso vitale trasformano in farsa spettacolare e addomesticata. A farne le spese sono rinomati scrittori spesso osannati dall’industria culturale, fra cui Erri De Luca e Isabella Santacroce. Oppure campioni di un localismo di plastica, furbescamente spacciato per genuino, come il sardo Salvatore Niffoi. Onofri stigmatizza, per riprendere quel Baldacci a cui pure si dedica un limpidissimo saggio, tutti gli scrittori che amano presentarsi come trasgressori, «ma mai di trasgressioni che paghino multa». Tutti gli scrittori cioè che, un po’ come il Tartufo molieriano, sono incapaci di restituire in modo originale la complessa dialettica fra salute e malattia, fra vitalità e distruzione. Cito un luminoso passo critico di Garboli sul vampirismo di Tartufo:

Non un ipocrita, ma un uomo duttile e “vuoto”, un protagonista passivo. Nessuna schiavitù passionale lo impaccia. Nessuna occasione della vita si traduce, in lui, in arma emotiva contro se stesso. Nessun super-io lo affligge, nessuna delle nostre puerili armature lo protegge e insieme lo incatena. È libero, perforabile, inattaccabile […] Non agisce, lascia che agiscano gli altri. Si limita ad amministrare, saggiamente, la cecità, la nevrosi altrui. Se c’è un aspetto di Tartufo che ci incuriosisce, non è l’ipocrisia, è il vampirismo. Tartufo ha bisogno di vedere negli altri la propria malattia.

Questo vampirismo è agli antipodi di quanto sarebbe necessario oggi. Onofri dedica delle pagine al pittore Guttuso. Anche in questo caso mi pare che il tema della fuga rimanga decisivo. In alcuni suoi splendidi quadri, come ad esempio le Ragazze di Palermo (1940), le figure umane, permeate da un avvolgente, e così matissiano, moto centrifugo si dispongono infatti attorno a un clamoroso, irradiante centro vuoto. Nel capolavoro Fuga dall’Etna (1940) si può osservare la concitazione drammatica che porta gli uomini a scappare dalla minaccia incombente. Ma essi non dimenticano di portare con sé i poveri strumenti umani di lavoro che saranno loro utili per ricostruire altrove la comunità civile. La fuga come creazione e responsabilità.

La critica di Onofri si nutre anche di fughe nel tempo, oltre che nello spazio, per cui ben si spiegano talune asincronie che spiazzano i consueti fili cronologici, incrinando ogni piano di sviluppo letterario piattamente storicistico. Allora Alvaro anticipa un certo Orwell visionario, e Soldati prepara alcune felici intuizioni di Sciascia sul dongiovannismo di Mattia Pascal – un’osservazione quest’ultima che Onofri riprende da Salvatore Nigro. Specularmente, Emilio Cecchi sarebbe un «Guicciardini virtuale che ha potuto leggere, negli acronici spazi della letteratura, Montaigne e Pascal».

Una prosa “elzeviristica”, da «scrittore-lettore» garboliano, non può che vivere di e in queste sfasature salutari, che ribaltano saggisticamente i piani della discussione, provando, dopo la dispersione della fuga, a riportare con pazienza a casa le parole degli scrittori che ancora ci servono.